Prospettive assistenziali, n. 32, ottobre-dicembre 1975
DOCUMENTI
VALUTAZIONE DELLA
PRIMA LEGISLATURA REGIONALE IN RELAZIONE AI SERVIZI SOCIO-SANITARI
Il gruppo di studio sull'Unità
locale dei servizi - promosso dall'A.A.I, e composto da esperti delle Regioni, degli enti locali, di organismi
tecnici - riunitosi a Merano nei giorni 18-19-20 settembre 1975, nel fare una
analisi valutativa della prima
legislatura regionale in relazione all'organizzazione dei servizi sociali e
sanitari a livello locale ed alla qualificazione e riqualificazione del
relativo personale, ha ritenuto, come primo punto, di precisare i
presupposti della propria valutazione, anche richiamandosi ai tre documenti
già elaborati in precedenza dal gruppo stesso (1).
I punti di riferimento per una analisi valutativa
I tre principi, cui il gruppo si richiama come fondamentali
in questa materia, sono:
1) Priorità della prevenzione sanitaria e sociale, intesa come strategia alternativa alle attuali
prestazioni esclusivamente riparatrici, da attuare attraverso un complesso di
interventi politicosociali atti ad eliminare le cause primarie dei fenomeni e
ad operare per una radicale trasformazione dell'organizzazione sociale.
2) Attuazione delle autonomie locali, mediante un reale
decentramento di poteri e di finanziamenti dallo
Stato alle Regioni e da queste ultime ai Comuni, che devono essere
ristrutturati in modo da rispondere validamente alle esigenze di una politica
locale dei servizi, programmata, globale e partecipata.
Per l'attuazione di tale politica è indispensabile:
- garantire al Comune una base demografico-territoriale compresa entro limiti minimi e
massimi tali da consentire, da un lato, la realizzazione di tutti i servizi di
base e, dall'altro, la effettiva partecipazione ed il
controllo dei cittadini alla loro impostazione e gestione;
- attribuire al Comune la pienezza
di funzioni e la quantità di risorse necessarie ad intervenire,
in modo unitario ed organico, per tutte le esigenze di base della popolazione,
da quelle sanitarie e sociali a quelle educative, ricreative, sportive,
abitative, ecc..
Il Comune viene a configurarsi in
tal modo, non come semplice erogatore di servizi, ma come organo di governo
locale in grado di assumere politicamente iniziative
per la soluzione dei problemi di qualsiasi tipo che attengano la qualità della
vita dei suoi cittadini.
3) Partecipazione dei cittadini - a livello di territorio e di posto
di lavoro - intesa, da una parte, come movimento di base che assuma la
prevenzione come strategia di cambiamento, e dall'altra quale
elemento essenziale per coerenti scelte programmatiche e per un
democratico controllo della gestione dei servizi. Va quindi respinta una
partecipazione circoscritta e ingabbiata in forme di cogestione che impediscono
ai cittadini e alle forze sociali organizzate di agire come centri autonomi di elaborazione e di iniziativa.
Da questi principi discendono le seguenti indicazioni:
a) trasferimento
completo delle competenze alle Regioni in materia di sanità, assistenza e formazione
professionale;
b) delega delle funzioni, in
particolare di quelle sanitarie e socio-assistenziali, dalle Regioni ai Comuni
e loro consorzi, quali unici enti gestori delle Unità locali, e quindi gestione a livello delle
Unità locali di tutti i servizi di base nella linea della ristrutturazione
o rifondazione del Comune;
c) inscindibilità dei servizi
sociali e sanitari e loro integrazione con tutti gli altri servizi (scuola, casa, tempo libero, ecc.) in un assetto unitario del
territorio;
d) interdipendenza tra prevenzione
sanitaria e sociale, cura e riabilitazione, nella succitata priorità del
momento preventivo, in modo da realizzare il superamento dell'assistenza ed il
passaggio della sanità da un sistema incentrato sulla
cura ad uno in grado di garantire il massimo benessere fisico e psichico;
e) inscindibilità tra organizzazione
dei servizi e formazione di base e permanente degli operatori
sociali e sanitari;
f) non duplicazione tra servizi
vecchi e nuovi, ma sostituzione dei vecchi servizi con
i nuovi, con relativo passaggio del personale e conseguente riduzione della
spesa necessaria alla ristrutturazione del sistema sanitario e sociale. Al
personale dovrà essere garantita, da parte della Regione e degli enti locali,
la necessaria riqualificazione, aggiornamento o riconversione professionale;
g) nella prospettiva
del decentramento dell'intero sistema formativo, equiparazione del sistema di
formazione professionale di competenza regionale a quello della scuoia
statale;
h) partecipazione concepita (e
sollecitata) come momento autonomo di proposta e di controllo sia della
programmazione e delle modalità di gestione dei servizi, sia della rispondenza
degli interventi agli obiettivi definiti ed alla
realtà dei bisogni e, pertanto, resa possibile da adeguati poteri di verifica e
da un aperto ed adeguato sistema di informazione.
Tutto questo comporta che sia
portata avanti una reale politica di programmazione che superi l'attuale
frammentazione e disorganicità di iniziative e di
interventi. Tale programmazione deve considerare globalmente gli aspetti
sociali ed economici, attribuendo all'intervento sociale non un semplice ruolo
di riparazione degli squilibri portati dall'attuale modello di sviluppo, ma anche quello di elemento propulsivo della
stessa economia.
Questo presuppone inoltre che le
procedure della programmazione non siano solo un fatto tecnico, tanto più se
centralizzato, ma coinvolgano realmente, fin dalla fase di ricerca e di studio,
da un lato i Comuni, le loro aggregazioni o suddivisioni
(quale prefigurazione dell'Unità locale) e dall'altro la popolazione stessa, le
forze sindacali e sociali ed altre forme di aggregazione, anche spontanea, di
cittadini e di lavoratori.
Pertanto il processo di
programmazione deve prevedere anche uno scambio continuo tra potere centrale,
potere regionale e Unità locale, nella duplice direzione dal centro alla
periferia e viceversa.
I rapporti tra Stato, Regioni,
autonomie locali.
Il giudizio politico-culturale complessivo
della prima legislatura è positivo per la generale crescita,
culturale e politica, dei quadri dirigenti e delle popolazioni locali attorno a
problematiche assai sentite, legate alla condizione civile ed umana individuale
e collettiva, ma gestite nel passato con criteri lontani dalle istanze delle popolazioni
locali.
Accanto a tale crescita, che apre
prospettive nuove di far politica su temi reali e legati alle esigenze della
popolazione nel suo habitat naturale (residenza, luogo di lavoro, scuola,
ecc.), occorre sottolineare anche le difficoltà con
le quali si sono venute a scontrare tale tendenza partecipativa e le
iniziative di intervento: difficoltà prevalentemente legate ad un sistema giuridico-politico, a monte, non riformato (es.: la mancanza di una riforma sanitaria, di una riforma
dell'assistenza sociale, della scuola secondaria superiore, dell'università,
dell'urbanistica, della finanza locale e del testo unico delle leggi comunali e
provinciali, ecc.), ad una resistenza degli apparati burocratici e ad una
vischiosità dell'autorità centrale ad attuare la piena applicazione dell'autonomia
regionale e in generale degli enti locali.
L'espressione di tali resistenze va
ricercata, innanzitutto, nei decreti delegati di
trasferimento delle competenze statali alle Regioni, non per settori organici
di materia, bensì per spezzoni di competenze amministrative dei singoli
ministeri. In quest'azione di remora hanno contribuito le sentenze della Corte
Costituzionale sulle questioni regionali e la pressione continua
da parte dell'autorità di Governo e dei suoi organi di vigilanza e di
controllo nel riproporre alle Regioni modelli organizzativi e di comportamento
amministrativo assai simili a quelli dello Stato (es.:
impostazione dei bilanci regionali, modello di contabilità regionale, ecc.).
Pur nel riconoscimento di tali vincoli obiettivi, occorre dire
che da parte delle Regioni si è in parte disattesa l'aspettativa di un modo di
procedere più carico d'inventiva e volto a correggere le espressioni più
macroscopiche e deformanti del modello statale.
Quindi una valutazione positiva nel complesso con qualche legittima e giustificata
riserva che si esplicita, in particolare, col permanere di un certo
«centralismo regionale» e di una posizione ambigua per quanto riguarda il
rapporto con gli enti locali. Accanto a questi motivi di perplessità permangono
una visione il più delle volte settoriale dei problemi ed una mancata o
sostanzialmente inadeguata ricomposizione e riaggregazione delle forze disponibili nella realtà regionale (in
termini di strutture, personale, risorse finanziarie, ecc.).
Uno dei fatti nuovi intervenuti nel
corso di quest'ultimo periodo riguarda
l'approvazione da parte del Parlamento della legge 382
titolata «Norme sull'ordinamento regionale e sulla organizzazione
della pubblica amministrazione» (2). La legge in questione pone scadenze e
prescrizioni che vanno attentamente esaminate per gli effetti che potrebbero
produrre. C'è da dire subito che un aspetto positivo
della legge è il tentativo di dare dei criteri di organicità e sistemazione
alle materie trasferite alle Regioni dai decreti delegati del
a) alla mancata o rinviata
attuazione della riforma generale della Pubblica Amministrazione;
b) al possibile scavalcamento delle
Regioni attraverso la diretta attribuzione alle Province, ai Comuni e alle
Comunità Montane di funzioni amministrative (sia pure d'interesse
esclusivamente locale). Ciò potrebbe portare a non individuare più
nella Regione la sede più valida per una politica di programmazione globale e a ripetere esperienze negative del passato,
condizionate da spinte municipalistiche e, pertanto,
dannose per un riequilibrio delle singole realtà regionali.
Si auspica, come nel passato, la istituzione di un coordinamento permanente interregionale
fra gli assessori dei settori socio-sanitari-educativi
e l'avvio di concreti tentativi di organizzare il lavoro regionale su base
dipartimentale e di collegialità che faccia superare limiti e chiusure riscontrate
durante la prima legislatura nel lavoro dei singoli assessorati.
L'inizio della seconda legislatura
deve essere l'occasione per fare un primo bilancio delle sperimentazioni «innovative»
che sono state portate avanti nei settori socio-sanitari ed
educativi durante la prima legislatura e, altresì, l'occasione per un
completamento del disegno autonomistico
costituzionale con leggi generali di delega e per grandi settori da affidare
pienamente agli enti locali.
Considerazioni generali sulla legislatura
regionale.
L'esame delle leggi regionali emanate nel corso della prima legislatura regionale porta
alle seguenti considerazioni:
1) Alcune leggi, nel delegare funzioni o attribuire compiti
agli enti locali, hanno disciplinato minutamente, e talora in modo esasperato,
le modalità di attuazione, lasciando pochissimo spazio
all'autonomia locale.
Altre leggi, invece, hanno trasferito o affidato
funzioni «in bianco».
2) Scarso è stato l'utilizzo da
parte delle Regioni dello strumento della delega, con
l'evidente pericolo di una tendenza delle Regioni verso l'accentramento.
Le difficoltà reali in cui si sono
trovate le Regioni nella fase di avvio (difficile
individuazione degli ambiti di competenza, trasmissione parziale di funzioni
dello Stato, ecc.) potranno essere più agevolmente superate nella seconda
legislatura.
3) Le Regioni hanno utilizzato in
modo molto diverso la possibilità di emanare leggi promozionali, che
consentono l'ampliamento delle competenze regionali e degli enti locali e l'avvio
di servizi alternativi.
4) In materia di Unità
locali solo una parte delle Regioni ha emanato provvedimenti legislativi,
peraltro non orientati univocamente; infatti alcuni considerano l'Unità locale
in riferimento ad un solo settore, altri in riferimento ai servizi sanitari e
socio-assistenziali, altri infine in riferimento ad una molteplicità di
servizi.
5) Molte sono state le leggi
settoriali, rivolte cioè a singole materie o per
determinate categorie di utenti.
Queste leggi, oltre agli evidenti
limiti, riducono lo spazio di autonomia dei Comuni a
causa dei finanziamenti utilizzabili solo per gli specifici interventi
previsti dalle singole leggi.
6) Per quel che riguarda i contenuti
si osserva che le leggi regionali si possono
distinguere in tre gruppi:
a) leggi con finalità di cambiamento,
in linea cioè con i principi indicati nella prima
parte del presente documento (leggi che avviano le Unità locali di più servizi
o le Unità locali di servizi sanitari e sociali, leggi per servizi di prevenzione
sanitaria e sociale, leggi per interventi alternativi
all'istituzionalizzazione, leggi per il diritto allo studio con superamento
dell'assistenza scolastica, ecc.);
b) leggi di razionalizzazione
dell'esistente, leggi cioè che pur superando gli interventi
emarginanti, come il ricovero in istituto, introducono servizi alternativi di
tipo settoriale (assistenza domiciliare agli anziani, servizi per handicappati,
centri di incontro per anziani, ecc.);
c) leggi di conservazione e/o
incentivazione degli enti parassitari (delega di funzioni
operative ai distretti scolastici, finanziamenti e/o nuove funzioni ad
enti privati, agli ECA, alle IPAB, all'Unione italiana ciechi, all'Ente
sordomuti, ai Patronati scolastici, ecc.).
7) Infine si rileva il quasi nullo
intervento delle Regioni in materia di formazione degli operatori sanitari,
sociali ed educativi e soprattutto di
riqualificazione, aggiornamento e riconversione del personale dei vecchi
servizi per consentire un valido passaggio nei nuovi.
Al riguardo si sottolinea
la necessità che le singole leggi riguardanti i servizi prevedano anche i
necessari interventi per la formazione, riqualificazione, aggiornamento e
riconversione degli operatori necessari. Questo per rendere possibile l'avvio
dei servizi con personale preparato (ad esempio gli asili-nido), per recuperare
il personale dei vecchi servizi da sopprimere (con
evidenti risparmi di spesa e per impedire che la difesa del posto di lavoro
si identifichi - per la mancanza di sbocchi - nella difesa dell'istituzione) e
per consentire il necessario continuo aggiornamento teorico-pratico.
Aspetti specifici: la zonizzazione e
le deleghe
Sulla zonizzazione, elemento
essenziale per una ristrutturazione dei servizi nella realtà territoriale, le
Regioni offrono posizioni molto differenziate. Si va da quelle che non hanno
assunto alcuna iniziativa in merito, a quelle che si
sono limitate a studi o a indicazioni estemporanee o marginali, a quelle che
hanno promosso zonizzazioni che riguardano un solo settore di servizi o che
riguardano più settori ma organizzati su ambiti territoriali diversi, a quelle
infine che hanno definito le loro zone contestualmente in funzione dei servizi
sociali, sanitari e scolastici. Questa situazione va imputata ad una carenza di visione politico-programmatica organica da parte
delle Regioni, tale da superare il settorialismo tradizionale e da permettere
un ruolo adeguato del momento partecipativo in termini di presa di coscienza
complessiva delle esigenze e dei bisogni della collettività, che debbono
trovare corrispondenza in una rete unitaria di servizi.
Come si è già sottolineato,
è ormai acquisita l'esigenza di una zonizzazione unica, coerente con una
strategia di interventi globali; zonizzazione che comprenda tutti i servizi di
base non solo sociali e sanitari, ma anche quelli per l'istruzione, il tempo
libero, ecc., e sia tale da consentire una reale partecipazione dei cittadini.
Come più volte
affermato nei documenti sull'Unità locale, la zonizzazione ha come riferimento
sul piano politico, istituzionale e territoriale il Comune, in una prospettiva
di riqualificazione dell'ente locale tale da metterlo in grado - per dimensioni,
competenze, capacità di intervento - di rispondere effettivamente alla domanda
di servizi.
Data la disomogeneità dei Comuni, si
prospettano vari tipi di soluzione.
La zona, che definisce l'ambito
dell'Unità Locale dei servizi, può coincidere con il
territorio di un solo Comune, come può coprire il territorio di più Comuni, o
solo parte del territorio di un Comune di grandi dimensioni.
Queste diverse situazioni esigono
soluzioni istituzionali diverse. Nel primo caso l'Unità locale si identifica nel Comune; nel secondo occorre
l'aggregazione fra più Comuni che oggi si realizza con l'istituzione del
consorzio; nel terzo caso l'Unità dei servizi coinciderà con le istituzioni
del decentramento urbano.
Analogo problema si pone nei
confronti delle Comunità montane, data la diversità di dimensioni e di identificazione territoriale. La questione va affrontata
ancora una volta evitando zonizzazioni differenziate,
per arrivare a configurazioni in cui Unità locali e Comunità montane si identifichino,
o almeno siano tra loro multipli o sottomultipli.
Perché l'ente
locale possa elaborare e gestire una politica organica dei servizi nell'area
considerata, esso deve recuperare, riqualificare o assumere le debite
competenze e risorse.
A tal fine
In tema di deleghe la passata legislazione
regionale praticamente non propone che rare e sporadiche
attuazioni, malgrado i principi affermati negli statuti regionali, facendo
registrare invece una pericolosa tendenza centralizzatrice che ripropone a
livello regionale la tradizionale impostazione statuale.
Nell'attuale situazione l'attuazione
della unitarietà e globalità dell'intervento a
livello territoriale si scontra, oltre che con gli enti da sciogliere, anche
con il problema delle competenze proprie della Provincia.
La loro necessaria acquisizione è
stata per ora ipotizzata, dalle leggi regionali o da altre proposte. Per la
necessaria acquisizione di tali competenze da parte dei Comuni emergono dal dibattito generale in materia le seguenti indicazioni (alcune
in taluni casi previste dalle stesse leggi regionali): consorzio tra Provincia
e Comuni (anche nel caso di un singolo Comune), con equilibri di rappresentanza
che garantiscano la netta prevalenza del Comune; convenzioni tra Province e Comuni
relative al conferimento a questi ultimi dei poteri e dei mezzi della Provincia
in materia di servizi; svuotamento delle competenze della Provincia attraverso
l'intervento legislativo nazionale (un esempio è offerto dalla proposta di
estensione della legge n. 386 al settore psichiatrico, sempreché
attuata in coerenza con i principi di politica socio-sanitaria sopra
richiamati).
La scelta della via più adeguata fra
queste elencate va vista comunque in rapporto
all'esigenza di garantire la centralità del ruolo del Comune e di non offrire
spazio ad una inadeguata ed anacronistica ripresa operativa della Provincia,
come di qualsiasi altro ente «settoriale», nella politica locale dei servizi.
In effetti occorre prendere atto che mentre
sull'Unità Locale c'è ormai generale convergenza, assai più articolate sono le
posizioni in ordine all'inquadramento istituzionale e territoriale dei servizi
che non sono per sé circoscrivibili nell'ambito proprio dell'Unità locale. Si
danno qui ipotesi diverse di soluzioni, la cui verifica potrà essere realizzata
solo contestualmente alla effettiva sperimentazione
dell'Unità locale da un lato, che rimane l'elemento fondamentale della ristrutturazione
dei servizi e del superamento del verticismo e della istituzionalizzazione, e
alla piena sperimentazione del processo pianificatorio regionale, visto in
chiave di partecipazione delle autonomie locali e di riequilibrio socio-economico.
Aspetti specifici: i modelli
organizzativi ed i contenuti dell'Unità locale.
Per quanto concerne contenuti e
modelli organizzativi dell'Unità locale, la legislazione regionale in
pochissimi casi tenta una individuazione abbastanza
sistematica, mentre nella maggior parte dei casi o si hanno indicazioni parziali
di alcuni momenti o aspetti ovvero non si affronta il problema.
Nei casi in cui si è affrontata la questione si rileva una notevole difformità, in rapporto sia
all'ampiezza, sia all'articolazione interna dell'Unità locale (distretti
socio-sanitari, aree elementari), sia alle funzioni di servizio e alle
modalità di attuazione.
Mentre la necessità di rispondere
alle diverse realtà regionali non consente di prefigurare una
uniformità nei vari sistemi locali, va sottolineata però la pericolosità
di una troppo rilevante differenziazione nei vari aspetti, che rischia di far
perdere al disegno una coerenza interna e di far riaffiorare la necessità di
interventi operativi di tipo centralistico da parte
dello Stato.
È necessario perciò nella seconda
legislatura una azione maggiormente coordinata tra le
varie Regioni per portare avanti questo processo in un quadro tendenzialmente
omogeneo, pur ricettivo delle diverse realtà regionali e delle diverse forme
di sperimentazione.
Comunque nella prima legislatura, sia per
leggi di insieme sia per leggi specifiche, si possono individuare alcune
tendenze di fondo, che andranno precisate e sperimentate nella seconda legislatura:
- articolazione interna dell'Unità
locale per garantire servizi decentrati e partecipati (cfr.
distretto socio-sanitario);
- incentivazione
agli interventi «aperti» che tendano a superare l’istituzionalizzazione (cfr.
assistenza domiciliare);
- unificazione dei servizi
socio-sanitari di base, con l'ipotesi di centri socio-sanitari di distretto e di équipes
interdisciplinari operanti in ambiti territoriali circoscritti, nel quadro
dell'articolazione interna dell'Unità locale;
- considerazione dell'importanza
della partecipazione popolare, sinora però limitata alle forze sociali organizzate, senza sufficienti aperture ad altre forme di
partecipazione a livello territoriale, con il pericolo di un processo di
consultazione sostanzialmente formale e volto alla promozione e
socializzazione del «consenso».
Nell'ambito della individuazione
delle funzioni di servizio e del sistema di erogazione, rimane aperto e
contraddittorio il problema di una presenza delle istituzioni private, cui in
alcune leggi si dà uno spazio che ripropone il tradizionale sistema e mette in
crisi la coerenza stessa del modello dell'Unità locale incentrato sul ruolo
dell'Ente locale e sulla globalità e unitarietà dell'erogazione dei servizi.
Tutt'altro problema è invece quello di un
coinvolgimento diretto dei cittadini e delle famiglie nello sviluppo della
politica sociale locale, per certi ambiti (ad es. affidamento familiare) o per
il rafforzamento delle strutture di servizi a livello comunitario (ad es.
assistenza domiciliare, presenza del «Servizio civile alternativo»).
La definizione dei modelli e
contenuti dell'Unità locale richiama direttamente in
causa il problema della programmazione regionale e locale e delle sue
procedure, che nella prima legislatura non risulta affrontato in modo
sistematico, salvo rari casi in cui si sta avviando un processo di
programmazione decentrata, che vede integrato il momento regionale e quello
comprensoriale. Quasi tutte le Regioni tendono invece a muoversi utilizzando
procedure di tipo prescrittivo e procedendo per
comparti settoriali a se stanti, rischiando di qualificare le Unità locali
come organi esecutivi delle scelte regionali.
Secondo gli enunciati posti in
premessa, il problema della programmazione - da attuarsi in termini
partecipativi - con le connesse procedure e scelte di finanziamento diventa un
impegno fondamentale della seconda legislatura, perché
sta a monte e condiziona le problematiche richiamate sull'assetto funzionale e
territoriale del sistema locale dei servizi, e quindi dell'Unità locale. Ciò oltre tutto risulta coerente con la richiesta delle Regioni
di una non subalterna partecipazione alla programmazione nazionale.
(1) I tre documenti
sono stati pubblicati sui numeri 27 e 30 di Prospettive
assistenziali.
(2) L'art. 1 della
legge 382 è stato pubblicato sul n. 31 di Prospettive
assistenziali.
www.fondazionepromozionesociale.it