Prospettive assistenziali, n. 34, aprile-giugno 1976

 

 

NON SIAMO I SOLI A DIRLO

 

 

CUORE DI BIMBO: INTERVENTI CHIRURGICI IN DIRETTA TV

 

È bene convogliare verso un grande chirurgo l'entusiasmo che si può provare nei confronti di un campione sportivo?

Servono queste trasmissioni a stimolare l'interesse di tutti coloro che, ammalati o no, si sentono coinvolti nella vita e attività degli ospedali? O tendono invece ancora una volta a far considerare il degente cavia umana, oggetto di ricerca, accentuandone la condizione di passività, staccando la malattia dal malato, dalla sua sofferenza e dai suoi rapporti familiari e crean­do per contro negli spettatori il senso miracolistico del medico-mago? Ri­sponde su «La Repubblica» del 6 aprile 1976 Giulio A. Maccacaro.

 

A chi è servita la trasmissione di un intervento chirurgico sul cuore di Pasqualino De Vita?

Non al piccolo malato esposto a un rischio notevolmente aggravato da condizioni ambientali alterate, da una tensione del personale accresciuta, da una concentrazione turbata dalla presenza di telecamere, riflettori, cro­nisti e di tutto ciò che accompagna uno show televisivo. Non è servito ai suoi genitori venuti da Napoli con il loro carico di pena, di speranza e di sa­crifici per vivere un'ansia crudele in condizioni di assedio psicologico. Non è servito agli spettatori cui sono stati somministrati emozioni e brividi ma non certo informazione e cultura. Non è servito alla collettività cui si continua a nascondere, dietro schermi come quello di un falso «miracolo», tutte le in­sufficienze e le ingiustizie di una medicina sempre più latitante dai suoi do­veri sociali e sempre più asservita al governo e al prestigio di una corpo­razione.

Lo show ha giovato soltanto a un primario e a ciò che egli rappresen­ta: la pretesa di porsi come soggetto di un atto che fa dell'altro uomo un oggetto, anche da spettacolo. Gli è servito per averne fama, lustro e finan­ziamenti. Per lui tutto il vantaggio senza rischi, per Pasqualino tutto il ri­schio senza vantaggi. Se il bimbo fosse morto le giustificazioni più pronte avrebbero mandato l'esito fatale per lui in un alibi di fatalità per l'altro.

Pertanto, un intervento è diventato un esperimento. Del quale non si può nemmeno dire che è stato compiuto per sapere o per vedere per rag­giungere scienza alla medicina ed esperienza alla tecnica. È stato compiuto soltanto per far sapere e per far vedere attori, comparse e vedettes: ai fini di interessi che non sono quelli né di Pasqualino né della collettività.

A questa occorre che la Tv dia ben altro: la spiegazione del perché, in omaggio a quale dettato del potere medico, a quale processo di concentra­zione e privatizzazione della competenza specialistica, a quale dispregio del­le fondamentali esigenze sanitarie della popolazione, un bambino ha dovuto percorrere così lungo viaggio, i suoi genitori sopportare tanta pena affinché fosse curata - come del resto si fa in tutto il mondo - la malattia del suo piccolo cuore e questo battesse, nudo e sanguinante sotto gli occhi di tutti, in una inquadratura appropriata, con degli effetti di luce, con suggestiva «suspense».

 

 

INTEGRAZIONE DEGLI HANDICAPPATI

 

In molte scuole elementari e medie cominciano ad essere presenti de­gli alunni un po' «diversi»: sono spastici, ciechi, insufficienti mentali ecc. Bambini che non eravamo abituati a vedere a scuola con tutti gli altri, che escono da un limbo di esclusione in cui erano tenuti finora, lontani dalla vita e dalla coscienza della gente. Quanti, troppi genitori, insegnanti, diretto­ri vedendoli la prima volta hanno pensato o addirittura hanno detto: «ma perché non li tengono in un buon istituto?».

Troppe persone, buoni cittadini e magari buoni cristiani, continuano a pensare che i bambini handicappati stiano meglio negli appositi istituti ai quali, magari, far pervenire una elemosina ogni tanto... Ma nel loro egoismo non vogliono essere coinvolti in un'opera di autentica riabilitazione sociale che faccia crescere come uomini questi bimbi.

Il bambino minorato ha sì bisogno, secondo le sue condizioni, di inter­venti specialistici ma soprattutto richiede per crescere serenamente, di sen­tirsi amato dalle persone che lo circondano, di essere un membro, come gli altri, della famiglia e della famiglia umana, di sentirsi accettato dall'ambien­te scolastico e sociale come tutti gli altri suoi coetanei.

E i bambini con carenze mentali se è vero che non riescono a seguire un complicato ragionamento sono tuttavia più sensibili degli altri all'atteg­giamento di affetto o di ripulsa manifestato nei loro confronti! In molti casi di disturbi non organici (del carattere e del rapporto) o non completamente organici, l'essere accolti con calore nella comunità può condurre ad auten­tiche guarigioni.

Eppure si riscontrano ancora atteggiamenti di meschino egoismo: in certe classi in cui sono inseriti alunni handicappati mentre i bambini non hanno alcuna difficoltà ad accoglierli, molti genitori temono che i loro figli non possano più svolgere «tutto il programma» e sono scontenti o addirit­tura brigano per l'allontanamento del «diverso».

Atteggiamenti così poco fraterni possono portare la disperazione in famiglie e in bambini già dolorosamente provati.

Gli insegnanti e i genitori dovrebbero al contrario apprezzare la grande lezione di civiltà, di comunione e di amore che viene ai bambini dal rap­porto con compagni meno fortunati e coll'educarsi alla tolleranza, alla com­prensione, all'aiuto reciproco e quindi al più ampio rispetto della persona umana.

Che civiltà sarebbe la nostra se solo i sani e i forti vi avessero cittadi­nanza? Certo una società completamente estranea ad ogni valore umano illuminato dalla fede.

Ancora tanti bambini attendono, nell'emarginazione delle scuole spe­ciali e degli istituti, che si aprano loro le porte della scuola di tutti, e che tutti si impegnino perché le necessarie risorse materiali e morali siano uti­lizzate per il loro vero e pieno ricupero alla vita sociale.

 

Da Orizzonti, marzo 1976, parrocchia S. Giovanni M. Vianney, Via Gianelli 8, Torino.

 

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