Prospettive assistenziali, n. 36, ottobre-dicembre
1976
ASSISTENZA
E CONCORDATO (1)
Introduzione
Nel presentare la storia delle due
leggi regionali toscane sull'assistenza e il diritto allo studio siamo partiti dalla consapevolezza che queste leggi
esprimono un'alternativa all'accentramento statale e incorporano una
concezione di gestione sociale che si muove in direzione di una democrazia
diretta, sempre meno delegata, sempre più partecipata.
Queste leggi attribuiscono funzioni
delegate ai comuni, prevedono organi di partecipazione popolare alla programmazione,
gestione e controllo delle attività, fanno posto alle formazioni sociali
presenti o in via di costituzione nel territorio: consigli di quartiere,
consigli sindacali di zona, consorzi, unità sanitarie locali, comunità
montane, associazioni democratiche di vario tipo,
organismi rappresentativi dei vari settori della popolazione...
Il potere decisionale viene spostato verso il basso. Via via
che queste strutture di base cresceranno e si affermeranno, via via che effettivamente conteranno, si dilaterà la
partecipazione di base, il popolo prenderà su di sé,
nel territorio, la gestione diretta delle abitazioni, della salute, della
scuola, della sicurezza sociale, di tutti gli strumenti, insomma, per
l'espandersi, l'approfondirsi e l'umanizzarsi della vita sociale e quindi anche
la gestione diretta degli strumenti per l'espressione della fede religiosa.
L'entrata in azione come
protagoniste delle forze popolari di base è logicamente in diretta relazione con il progressivo ridimensionamento delle strutture
di vertice. Ma certe strutture di vertice, abituate da sempre a decidere per
gli altri, confonderanno la fine dei propri privilegi come la fine della
libertà, l'erompere tumultuoso delle forze popolari
con l'inizio di una nuova forma di schiavitù.
I vescovi toscani attaccano, per
esempio, proprio l'articolo 6 della legge sul diritto allo studio che
stabilisce la delega ai comuni e la gestione sociale e chiamano « fascismo
rosso » questo nuovo modo di concepire i rapporti tra stato ed enti locali, tra
enti locali e formazioni sociali, tra vertice e base.
Veniamo dunque alla narrazione ed
interpretazione dei fatti.
La storia della legge
regionale intitolata «Interventi in materia di Assistenza
Sociale e delega di funzioni agli Enti Locali»
art.
30 del Concordato:
«La
gestione ordinaria e straordinaria dei beni appartenenti a qualsiasi istituto
ecclesiastico o associazione religiosa ha luogo sotto
la vigilanza e il controllo delle competenti autorità della chiesa, escluso
ogni intervento da parte dello Stato italiano e senza obbligo di assoggettare a
conversione i beni immobili».
Data la lentezza con cui procede a
livello governativo il lavoro di approntamento e
approvazione delle leggi quadro e più in generale della riforma socio-sanitaria,
Fra le varie iniziative prese dalla
Regione Toscana con questi intenti, ci sembra significativo,
per il tema di questo seminario, spiegare brevemente l'iter di una legge
chiamata «Interventi in materia di assistenza sociale
e delega di funzioni agli enti locali».
Il testo di questa legge fu
approvato dal Consiglio regionale il 1° aprile 1975,
con l'astensione della D.C., dopo un anno circa fra
discussioni in commissione e consultazioni fra i partiti.
Agli art. 14 e 15 di questa legge si
prevedeva l'estinzione delle I.P.A.B. (Istituzioni
pubbliche di Assistenza e Beneficienza)
sia nei casi indicati dalla riforma Crispi del 1890,
«nonché qualora sia impossibile realizzare le finalità della istituzione per
insufficienza di mezzi o per cattivo funzionamento».
I beni mobili e immobili avrebbero dovuto essere devoluti al Comune in cui
l'istituzione estinta aveva la propria sede.
Questi due articoli, che miravano a
non confinare l'azione regionale nella sfera degli interventi di tipo
caritativo, ma a porre le basi per la costruzione di un sistema di servizi che
si proponga la prefigurazione di un quadro di sicurezza
sociale proiettato nella costruzione delle unità locali di sicurezza sociale,
provocarono il finimondo nella gerarchia cattolica.
Questa gerarchia si è fatta sentire
in mille modi: con lunghi studi di «esperti» in campo legale, attraverso
Così la legge della Regione Toscana
è rientrata subito in Consiglio con il telegramma del primo rinvio da parte
del Governo.
Si arriva in tal modo al maggio
1975. Subito dopo le elezioni del 15 giugno dello stesso anno, la legge viene ripresa in esame e il Consiglio delibera un nuovo testo
dove non si dichiara più l'estinzione delle I.P.A.B.
per «cattivo funzionamento» ma solo «qualora non vi ostino particolari
disposizione dello statuto o delle tavole di fondazione».
Il 7 gennaio 1976 il governo rinvia
di nuovo anche il testo così rivisto e corretto.
A questo punto la maggioranza del
Consiglio regionale toscano forse si rende conto che insistere significa
procrastinare tutta la legge delega per chi sa quanto tempo. Forse capisce
anche che l'art. 30 del Concordato ha sancito dei poteri sai quali
poggia tutta l'assistenza religiosa e che una legge delega di una
Regione può far nulla o quasi. Fatto sta che gli articoli riguardanti
l'estinzione delle I.P.A.B, spariscono dal
testo il quale, così mutilato della sua parte essenziale, viene subito
approvato dal Commissario del Governo.
È significativo
che nella seduta conclusiva del Consiglio regionale lo stesso capo-gruppo D.C., Pezzati, abbia apprezzato il carattere innovativo
della legge nella sua prima stesura, dichiarando che solo in tal modo era
possibile trasformare una assistenza medievale in un intervento assistenziale
moderno e che lo stesso Pezzati abbia avuto parole di rammarico per la
mutilazione della legge dovuta, come lui stesso ha affermato, a negative
«interferenze» provenienti dall'ambito cattolico (3).
Quali dimensioni hanno
in Italia le istituzioni caritative gestite da religiosi?
Esiste una ricerca della P.O.A. i
cui dati si riferiscono agli anni 1959-60 che elenca 13.027 istituzioni
caritative o assistenziali operanti in Italia nella
sfera d'azione dell'autorità ecclesiastica o in qualche modo da essa
dipendenti. Un altro tentativo di censimento non è stato ultimato per la
difficoltà di distinguere adeguatamente i veri e propri istituti di
beneficenza e assistenza da altri tipi di interventi
caritativi che sorgono spontaneamente nell'ambito delle parrocchie e accanto
alle varie associazioni religiose.
Per quanto invece concerne il
personale religioso addetto agli istituti dipendenti dall'autorità
ecclesiastica, non ci sono dati ufficiali. L'«annuario statistico dell'assistenza
e della previdenza sociale» si limita a indicare il
totale del personale religioso addetto agli istituti per minori normali,
anormali sensoriali, minorati fisici e psichici, vecchi indigenti e altre
categorie di bisognosi, personale che nel 1970 raggiungeva, su un totale di
90.817 addetti, la cifra di 39.643 soggetti.
C'è chi a questo punto sostiene che
fra assistenza pubblica e privata, religiosa o laica, oggi
c'è poca differenza e che, anzi, il personale religioso dà un grosso
contributo in sacrificio.
Questa considerazione falsa tutto il
problema che é quello di fare un salto di qualità da
un'assistenza che in qualche modo fa opera di tamponamento con iniziative
inadeguate, calate dall'alto e funzionali ai sistema, per passare ad un
ordinamento di sicurezza sociale che affronti in radice il problema dei bisogni
attraverso una politica di interventi globali nei settori della produzione,
della distribuzione del reddito, dell'istruzione, della casa, dei servizi ecc.
che si muova in direzione di una democrazia diretta, sempre meno delegata,
sempre più partecipata.
Il Concordato e
l'assistenza
Ma una tale impostazione del
problema viene contraddetta e bloccata da vari
ostacoli fra cui non secondari il concordato fra Stato e Chiesa e in
particolare l'articolo 30 il quale permette che sulla beneficenza religiosa
sorgano e prosperino vere e proprie aziende che non pagano le tasse e nessun
altro onere; fa sì che «povere» suore vadano magari a chiedere la carità per
gli orfanelli, mentre invece la loro organizzazione religiosa oltre a
riscuotere denaro pubblico in rette individuali possiede anche lasciti
«cospicui e modesti» gestiti da varie Società di esecutori di pie disposizioni
i cui bilanci sono sconosciuti al fisco dello Stato italiano. Le stesse suore
si lamentano che le rette sono insufficienti per mandare avanti l'istituto e
la gente si sente in colpa per questo, senza poter capire che di rette per
tenere gente chiusa in istituti bisognerebbe non pagarne più
poiché la stessa Costituzione all'articolo 3 afferma che bisogna
«rimuovere gli ostacoli che di fatto limitano la libertà e l'eguaglianza dei
cittadini e ne impediscono il pieno sviluppo della persona umana».
Falsa il problema anche il richiamo
dei vescovi al rispetto del pluralismo, che dicono sancito
dalla Costituzione, ma che serve loro per nascondere gli interessi il cui
principale pilastro di sostegno è il concordato. Essi
infatti affermano:
«La nostra preoccupazione è per un
autentico pluralismo istituzionale (Cost. it., art. 38) e, in questo quadro, per la necessaria libertà e
il doveroso riconoscimento delle varie iniziative promosse in campo cattolico,
le quali, intendono concorrere al bene comune, affiancando e integrando quanto
viene promosso dalla società civile, in uno sforzo sincero di rispondere, per
motivazioni religiose, oltre che sociali, e in modi rinnovati, a reali bisogni,
nel rispetto delle persone e secondo i desideri- degli stessi cittadini» (4).
Questa voluta confusione di impostazione del problema assistenziale viene invece
chiarita da quanto affermato nel
«La chiesa si trova di fronte alla urgente necessità di una revisione critica del suo
intervento assistenziale e di una scelta fondamentale: o prestarsi in maniera
acritica alle vecchie e nuove forme di un'assistenza programmata da un ampio
disegno socio-politico che la sovrasta e la condiziona senza la partecipazione
delle persone, oppure in un autentico spirito comunitario svolgere la sua
originaria missione di animare con spirito profetico l'azione di liberazione
dell'uomo...».
«Il servizio di assistenza
è un fatto della comunità sociale ed è quindi regolato da norme tecniche, che
possono si ispirarsi al messaggio evangelico della carità fraterna, ma che
comunque rimangono nella sfera dell'organizzazione civile. Da questa
distinzione consegue che quando un cristiano attua un'opera assistenziale
diventa un operatore sociale, entra nel campo dei servizi e ne deve perciò
accettare le regole, senza far confusioni
fra carità e servizio, essendo la prima atto religioso e sostanza della comunione
fraterna, il secondo fatto sociale e funzione della comunità civile con
strumenti ed obbiettivi autonomi» (5).
Anche nell'ambito delle comunità di
base a volte non si ha ben chiara questa differenza e in buona fede ci si può
prestare ad iniziative che non aiutano questa revisione
critica della chiesa. Ci sarà chi difenderà il lavoro di «supplenza» fatto
nella chiesa in nome della carità cristiana e senza mire di potere. Ci sembra
che a questo proposito parli chiaro la lettera ai cristiani intitolata «Riconciliazione: realtà straniera nella chiesa» di sette preti
che vivono la vita degli emarginati nelle baracche di Roma, scritta in
occasione dell'anno santo:
«Quando la
supplenza dei cristiani diventa narcotizzante, allora il principio che la
ispira non è più il servizio, ma il dominio. Essa dovrebbe
avere lo scopo di stimolare i poteri civili a prendere coscienza dei loro
doveri. Dovrebbe essere opera di profezia che non offre alcun alibi alla
pigrizia e all'oppressione, ma sottopone a severo giudizio l'accidia di chi si
esaurisce a difendere il potere per il potere e
distoglie lo sguardo dal popolo. Ma è questo lo scopo
e il ruolo delle nostre supplenze? Spesso sono più ingiuste delle strutture
offerte dalla comunità civile. Esse si prestano ad essere
freno del rinnovamento».
Forse oggi tocca
anche alle Comunità cristiane di base l'ingrato compito profetico, ma veramente
promozionale, di distruggere per permettere di costruire su basi nuove una
società più giusta: distruggere, nell'ambito di un superamento della logica
concordataria, l'articolo 30 del concordato fra Stato e Chiesa e poter così
costruire un sistema di sicurezza sociale più umano.
Tocca anche alle Comunità cristiane
di base vivere intensamente la lotta di tutto quanto il movimento di base per
rendere operante lo spostamento verso il basso del potere decisionale,
spostamento che costituisce, secondo noi, il contenuto più autentico di una
dimensione veramente umana anche della assistenza.
(1) Dal Notiziario
della Comunità dell'Isolotto - Firenze, n. 87. Relazione
delle Comunità toscane per il Seminario di studio delle Comunità di base
italiane, tenutosi a Potenza il 2-3 ottobre 1976.
(2) Pro-memoria alla
Regione Toscana della «Società di esecutori di pie
disposizioni di Siena», 5 febbraio 1975. (Si tratta di
una IPAB le cui origini risalgono al XIII sec. e che da allora «con intenti di
schietta pietà religiosa» raccoglie lasciti «cospicui e modesti» e amministra i
beni di molte altre IPAB toscane).
(3) «È la terza
volta che esaminiamo questo progetto di delega nel
settore dell'assistenza dopo averlo discusso in commissione e poi in
Consiglio... Oggi noi ci accingiamo a votarlo mutilato, per decisione del
Governo, di parti che costituiscono la ragione di un lungo confronto della UC
e le forze politiche di questo Consiglio, vuoi di maggioranza, vuoi di
opposizione. Noi diciamo francamente che sentiamo l'amarezza di non essere
riusciti a superare gli ostacoli che si sono frapposti da una parte, sia pur
minima, della società toscana e siamo amareggiati anche dagli interventi che vi
sono stati, inconsapevolmente, forse anche nel nostro stesso ambito, in
posizioni decisamente contrarie a quelle assunte dal
gruppo democratico cristiano e riconfermate in una recentissima decisione.
Interferenze che si sono frapposte all'accettazione della legge che qui votammo quattro mesi orsono...». (Dall'intervento di Pezzati alla seduta n. 43 del Consiglio
regionale toscano del 10 marzo 1976).
(4) Regione Emilia-Romagna, Dialogo
fra Episcopato e Regione. Suppl. n. 12, dicembre
1973.
(5) «Dall'assistenza emarginante ai servizi sociali aperti a tutti»,
Atti. Torino, SEI, 1972, pagine 115 e 116.
www.fondazionepromozionesociale.it