Prospettive assistenziali, n. 36, ottobre-dicembre 1976

 

 

LE IDEOLOGIE DELL'ASSISTENZA

CLAUDIO CIANCIO

 

 

In una fase In cui essa costituisce un terreno di lotta ancora relativamente nuovo, l'assisten­za deve essere sottoposta ad un'analisi accu­rata che ne individui le giustificazioni ideologi­che e i corrispondenti significati economici so­ciali e politici. Ciò è necessario per evitare il rischio di proporre soluzioni che siano semplici aggiornamenti delle vecchie strutture e ideolo­gie assistenziali.

Per un primo approccio al problema descri­veremo quelle che paiono essere le tre fonda­mentali ideologie dell'assistenza, avvertendo pe­rò che questa classificazione è dettata dall'esi­genza di una chiarificazione concettuale e non ha sempre un riscontro diretto nella realtà, in quanto le diverse ideologie si trovano per lo più variamente intrecciate e in questo modo si sorreggono a vicenda. In particolare quella che chiamerò l'ideologia cattolico-clericale (che è forse ancora la più importante, se si pensa che l'assistenza è stata per molto tempo ed è tut­tora in gran parte gestita da istituzioni religio­se, almeno in Italia) ha giustificato, subendo a sua volta diverse modificazioni, il ruolo e la con­cezione dell'assistenza, anche quando questa è stata assunta, per lo più indirettamente, dallo stato laico.

 

1) Ideologia cattolico-clericale

Il primo presupposto di questa ideologia è che l'attività assistenziale autentica sia una delle espressioni più importanti della carità cri­stiana. In una lettera pastorale del dicembre 1973 i vescovi dell'Emilia-Romagna sottolineano come il servizio di assistenza sia un carisma (Prospettive assistenziali, n. 25). Il documento della C.E.I. sull'assistenza pubblicato da L'Os­servatore Romano il 15-7-1972 afferma: «Nel campo specifico dell'assistenza si deve ricorda­re... che non è in gioco soltanto un problema di tecniche e di strutture, ma anche e soprat­tutto di rapporti umani: e quando si tratta di rapporti interpersonali il volontariato e l'ispira­zione religiosa sono elementi di fondamentale importanza». In un'altra parte dello stesso do­cumento si sostiene poi che di fronte agli han­dicappati particolarmente gravi (come quelli ri­coverati al «Cottolengo») «solo la carità può garantire il servizio umanamente più adeguato».

Ora il considerare l'assistenza come una fi­liazione diretta della carità (invece che consi­derarla alla stregua di altre attività interperso­nali e sociali, che tutte allo stesso titolo devono per il cristiano essere animate dalla carità) con­duce inevitabilmente ad ingigantire il rilievo e l'estensione dell'assistenza. Certo questo rilievo e questa estensione dell'assistenza hanno an­che una giustificazione storica: fino al secolo scorso infatti non si riusciva a pensare a rimedi della povertà e degli altri bisogni assistenziali se non in termini di intervento volontario per­sonale, di abnegazione e generosità; la concreta attività assistenziale discendeva quindi diretta­mente ed esclusivamente dalla carità. Tuttavia anche oggi, pur di fronte a una situazione che impone più complesse mediazioni sociali, le isti­tuzioni assistenziali religiose mantengono per lo più quella concezione.

Il rapporto diretto carità-assistenza comporta un secondo carattere di questa ideologia dell'as­sistenza: la sua dimensione privatistica. Non a caso molti documenti ufficiali della Chiesa su questo argomento insistono sul pluralismo e sull'iniziativa privata. Così il già citato docu­mento della C.E.I. afferma: «C'è un punto sul quale il pensiero cattolico insiste con partico­lare decisione: la salvaguardia della libera ini­ziativa nel campo dell'assistenza». Se infatti si identifica l'assistenza con la carità, poiché la carità ha un carattere essenzialmente perso­nale nella sua origine, non si può non guardare con diffidenza i tentativi di risolvere i problemi assistenziali a livello collettivo.

Un terzo aspetto, anch'esso connesso all'iden­tificazione carità-assistenza è il privilegio riven­dicato dalla Chiesa nel campo dell'assistenza. Se infatti la carità è prerogativa della vita cri­stiana e se l'assistenza va ricondotta alla ca­rità, compete ai cristiani (e quindi alla Chiesa) una particolare «predisposizione» e quindi un privilegio nell'esercizio dell'assistenza. Ciò tra­spare chiaramente dalla difesa quasi senza ri­serve che i pronunciamenti ufficiali della Chiesa hanno fatto verso le istituzioni assistenziali re­ligiose, anche nei casi in cui queste hanno di­mostrato i loro limiti e addirittura si sono rese responsabili di gravi soprusi nei confronti degli assistiti. Questo atteggiamento acritico e apo­logetico, che non credo si possa sempre impu­tare a malafede, rivela una reazione di indi­gnata sorpresa di fronte al fatto che non cri­stiani si permettano di insegnare ai cristiani come si fa l'assistenza, nel presupposto che l'esperienza, la competenza e la disposizione dei cristiani all'assistenza sia superiore a quella di chiunque altro.

Tale presupposto è talmente radicato che non ci si accorge nemmeno del fatto che le critiche sono rivolte contro le istituzioni assistenziali cattoliche, ma si pensa immediatamente ad un nuovo rigurgito di anticlericalismo, ad una cro­ciata anticristiana, ad «un'anacronistica caccia alle streghe» (così si esprime il documento C.E.I.) .

Una tale difesa delle istituzioni caritative-as­sistenziali tende ovviamente ad una perpetua­zione indefinita delle medesime con pochi e non essenziali adattamenti alle diverse situa­zioni storiche. A ciò concorrono ancora due al­tri elementi dell'ideologia cattolico-clericale. Il primo è un certo carattere di naturalità, di ne­cessità insuperabile, che viene attribuito ai bi­sogni di assistenza e quindi all'attività assi­stenziale. Così quando il documento C.E.I. af­ferma che «l'assistenza sociale ... è un aspetto indispensabile di un'equilibrata politica sociale, che consente e assicura a tutti i cittadini, spe­cie quelli diseredati o in stato di bisogno, di fruire concretamente dei propri diritti più es­senziali ed elementari», esso viene a mettere l'assistenza sullo stesso piano degli altri inter­venti sociali che tendono a promuovere i diritti dei cittadini: come è necessario promuovere l'occupazione, l'edilizia abitativa, i servizi, così appare necessario promuovere l'assistenza, qua­si che alcuni cittadini debbano avere uno «spe­ciale» diritto all'assistenza invece che i comuni diritti a un'adeguata funzione sociale e alla frui­zione dei servizi sociali. Val la pena di notare che questo elemento dell'ideologia cattolico­cle-ricale è diventato proprio anche di altre ideo­logie assistenziali. L'aspetto propriamente reli­gioso di questo elemento è il presupposto dell'ineluttabilità storica del male e dei limiti dell'uomo, inteso in modo statico e ideologico: si pensa cioè che i poveri e gli handicappati ci saranno sempre, e di qui si deduce che ci do­vranno sempre essere le istituzioni assisten­ziali.

Il secondo elemento che concorre alla per­petuazione delle istituzioni assistenziali è una raramente ammessa, ma spesso implicita af­fermazione di inferiorità umana e morale dell'assistito. L'handicap fisico, mentale e sociale viene infatti associato alla colpa, o direttamente affermando che esso è conseguenza della col­pa, o indirettamente presentandolo come l'oc­casione che Dio offre per espiare le proprie colpe. In questo modo inizia a livello psicolo­gico e morale il processo di emarginazione dell'assistito, che si concretizza nella segregazione degli istituti, dove egli diviene «oggetto» di una carità che soccorre la sua «personale in­feriorità» e si configura inevitabilmente come un rapporto autoritario. Che questo discorso sia senz'altro vero almeno per i bambini illegittimi (che costituiscono parte considerevole dei mi­nori ricoverati in istituti) è provato dal fatto che il diritto canonico vieta agli illegittimi di accedere all'episcopato, affermandone quindi chiaramente l'inferiorità morale.

 

2) Ideologia borghese-liberale

Con questa ideologia intendo la concezione dell'assistenza che si è venuta affermando con l'affermarsi della borghesia fin dagli inizi dell'età moderna contribuendo a modificare le isti­tuzioni assistenziali religiose sviluppatesi nel medioevo ed affermandosi più chiaramente a partire dal secolo scorso quando l'assistenza è stata regolamentata dallo Stato.

Il nesso di questa ideologia con la precedente si mostra anzitutto nella laicizzazione che essa compie di taluni aspetti della concezione reli­giosa dell'assistenza. Così avviene per quanto riguarda l'analisi delle cause dei mali che sono oggetto di assistenza: ai principi del male ra­dicale e del male provvidenziale si sostitui­scono quelli della necessità naturale e della selezione naturale che favorisce lo sviluppo della società. In questo modo di nuovo si tra­scurano le cause sociali dei bisogni assisten­ziali. E ovviamente il rimedio a tali bisogni non è progettato al livello della società nel suo complesso, ma semplicemente come intervento «speciale» verso una situazione inesorabilmente «speciale»: di qui l'insuperabilità delle istitu­zioni assistenziali.

Questa separazione fra bisogni assistenziali e assetto della società favorisce il permanere di una concezione privatistica dell'assistenza. Anche in questo caso si ha però una laicizza­zione dei principi: la carità cristiana diventa beneficenza, un semplice rapporto economico. Come scrive A.N. Henri, la carità «diventa in questo momento un concetto contabile ... l'atto caritativo si attua sotto la forma astratta del denaro» (L'evoluzione degli istituti per minori, in «Prospettive assistenziali», 14). In questo modo diventa più evidente il rapporto di disu­guaglianza implicato da una certa concezione della carità: l'assistito è l'oggetto di benevole elargizioni da parte di un borghese che da ciò ricava stima, riconoscimenti sociali, lapidi e bu­sti, e qualche volta anche vantaggi elettorali. Il nesso tra questa ideologia assistenziale e quella religiosa lo si trova anche sul piano ope­rativo. Come scrive ancora Henri, «il voto di povertà delle religiose fa ben comodo a coloro che a tale voto non son legati. È molto comodo contare su un certo numero di persone che la­vorano gratis o pressapoco, per occuparsi pro­prio di persone per le quali non si ha voglia di spendere, perché non rendono nulla. Non ci si perita d'altronde di coprirle d'ammirazione» (ibidem). L'ideologia borghese per la quale è «naturale» l'emarginazione delle persone eco­nomicamente improduttive e per la quale i rap­porti sociali sono fondati sull'iniziativa privata trova così un accordo con l'ideologia assisten­ziale delle istituzioni religiose.

Questa concezione privatistica dell'assistenza non è in contraddizione con il fatto che nell'ideologia borghese si venga affermando, a par­tire dalla rivoluzione francese, il principio per cui l'assistenza è un diritto che lo stato deve garantire. Già nel 1748 Montesquieu scriveva nell'Esprit des lois che lo stato «deve a tutti i cittadini un'assistenza sicura, il cibo, un ve­stito conveniente e un genere di vita non con­trario alla salute». Ora questo principio non è che un'applicazione dell'affermazione dell'ugua­glianza astratta di tutti i cittadini (che non im­pedisce l'emarginazione sociale) e d'altra parte non comporta altro che una integrazione dell'at­tività assistenziale privata e un controllo di questa limitato al soddisfacimento di alcune garanzie giuridiche. Si afferma in ciò la con­cezione negativa dello stato propria dell'ideolo­gia liberale, secondo la quale lo stato ha la funzione di garantire l'iniziativa privata e di integrarla solo là dove essa è assente o non può giungere.

L'ideologia assistenziale borghese riproduce perfettamente questi due aspetti della conce­zione dell'intervento statale. Così se da un lato l'assistenza diventa un diritto che lo stato de­ve garantire a tutti sopperendo alle eventuali insufficienze delle istituzioni private, dall'altro l'intervento assistenziale dello stato viene mo­tivato anche in funzione della difesa della so­cietà borghese. Anzi si può dire che a partire dal Cinquecento diventa sempre più evidente il carattere repressivo dell'assistenza, che viene attuata con provvedimenti di polizia, con gli in­ternamenti forzati, con condizioni disumane di vita per gli assistiti.

Si assiste nel settore dell'assistenza a «tutta una serie di riforme, destinate a continuare fi­no alla metà del XVIII secolo, miranti a garan­tire l'estinzione della mendicità più con un'azio­ne di polizia che di carità, più per provvedere alla tranquillità dei centri urbani, con le rela­tive attività delle classi dirigenti, che per un impegno di recupero sociale nei confronti di una plebe che viene, invece, respinta ai margi­ni del vivere civile» (ALASIA, FRECCERO, GAL­LINA, SANTANERA, Assistenza, Emarginazione e Lotta di classe, Milano 1975, pp. 83-84). Ma an­che nei secoli successivi la funzione di autodi­fesa della società borghese svolta dall'assisten­za resta un aspetto costante della sua prassi e della sua ideologia.

Ancora nel 1969 il Ministro degli Interni Re­stivo poté affermare che «l'assistenza pubblica ai bisognosi racchiude in sé un rilevante inte­resse generale in quanto i servizi e le attività assistenziali concorrono a difendere il tessuto sociale da elementi passivi e parassitari».

 

3) Ideologia dello stato assistenziale

Le trasformazioni dell'ideologia borghese con­seguenti allo sviluppo delle società capitalisti­che avanzate hanno coinvolto anche la conce­zione dell'assistenza. Come nell'economia si è persa la fiducia nella capacità autoregolatrice dell'iniziativa privata e si è riconosciuta la ne­cessità di un intervento massiccio ed equilibra­tore dello stato, così nel campo dell'assistenza si ammette che la società è responsabile di molti mali che provocano il bisogno di assisten­za e che a questo bisogno non si può soddisfa­re semplicemente o prevalentemente con la li­bera iniziativa assistenziale. Ciò comporta che l'assistenza sia vista come dovere dello stato non tanto per proteggere la società (con la mi­nor spesa possibile) quanto piuttosto per ripa­rare ai mali della società. Questa ideologia so­stituisce alla subordinazione dello stato alla so­cietà la loro giustapposizione. Si riconosce cioè che l'organizzazione sociale provoca fenomeni di povertà, handicaps fisici e mentali, emargina­zione degli anziani e dei ,minori, e si conclude che a tutti questi mali lo stato deve porre ri­medio con interventi assistenziali.

In questo modo si riafferma l'inevitabilità di certi mali (senza incidere sulle origini sociali) e il diritto di ogni cittadino alla cura di questi mali (ma non alla prevenzione). Si può dire che si passa da un diritto formale a un diritto reale all'assistenza, che resta però pur sempre un diritto all'assistenza.

In questa prospettiva si riconosce la necessità di un intervento specialistico ed efficiente nel campo assistenziale. Si richiede perciò un am­modernamento, una razionalizzazione e un po­tenziamento degli interventi assistenziali. Lo sta­to allarga la sua sfera di intervento in questo campo, tende a sostituirsi alle istituzioni pri­vate e, togliendo all'assistenza qualsiasi aspet­to caritativo, ne fa un servizio sociale per tutti i cittadini: è come se il cittadino stipulasse con lo stato un'assicurazione che gli garantisce di essere assistito dalla nascita alla morte.

L'ideologia dello stato assistenziale rifiuta dunque il concetto di assistenza come benefi­cenza o come segregazione forzata, ma accetta dalle precedenti ideologie il ruolo socialmente subalterno dell'assistito o, più brevemente, il ruolo dell'assistito. L'assistenza più si specia­lizza, si tecnicizza, diventa efficiente, più si de­termina come assistenza, come rimedio postic­cio, che colloca l'assistito in un ruolo sociale subalterno nella misura in cui gli assicura una condizione di vita magari confortevole e protet­ta, ma insignificante sul piano dei rapporti so­ciali. L'emarginazione si spoglia delle sue for­me esteriori, ma si rafforza nel suo nucleo es­senziale. L'assistenza si rivolge all'assistito co­me a un caso speciale da trattare, in modo tale da rompere il suo rapporto con la società fis­sandone eventualmente la sua già precedente inferiorità sociale, e in modo da mutilarne addi­rittura la personalità con il considerarlo in fun­zione del suo handicap (ad es. come cieco, sor­do, povero).

L'oggettivazione dell'assistito che era propria di un certo modo di intendere la carità è qui ottenuta da un lato attraverso la tecnicizzazione dell'assistenza, dall'altro trasferendo il soggetto del servizio assistenziale dai privati allo stato, che diventa così il grande e impersonale bene­fattore.

 

«Superamento dell'assistenza» o «Concezione alternativa»

La critica delle ideologie dell'assistenza con­duce alla negazione del concetto stesso di assi­stenza. Infatti sono i presupposti della neces­sità-naturalità dell'assistenza, del suo caratte­re sempre in qualche modo «caritatevole», e del suo porsi come rimedio che trascura le cau­se, a rivelarsi funzionali al mantenimento dell'emarginazione. Superare l'assistenza è possi­bile anzitutto attraverso la rimozione delle cau­se sociali dell'attuale bisogno di assistenza, con interventi, ad esempio, sulle pensioni, sui sala­ri, sulle condizioni di lavoro e di vita, sulla pre­venzione, sui servizi in genere. Ciò però non significa ancora superare tutti gli attuali biso­gni di assistenza e tutte le attuali condizioni di emarginazione. Non si può facilmente ipotizzare la scomparsa di tutti gli handicappati e tanto meno dei pensionati, di coloro che non possono svolgere un lavoro produttivo. La soluzione più radicale del problema dell'assistenza sta allora nel superamento delle connotazioni negative dei concetti di handicappato o di pensionato. L'i­deologia dello stato assistenziale, che è attual­mente la più avanzata (si va affermando nelle società capitalistiche avanzate e negli stati so­cialisti), pensa pur sempre l'handicappato come il non-capace e il pensionato come il non-la­voratore. In questi non sta tutto il significato emarginante dell'assistenza. Una concezione realmente alternativa dell'assistenza comporta invece una scoperta e una valorizzazione delle funzioni sociali non produttive. Solo così si ri­muove l'emarginazione sia precedente sia sus­seguente all'assistenza. Questa soluzione richie­de che non ci si affidi esclusivamente allo svi­luppo economico e/o alle trasformazioni econo­miche, pur indispensabili, per eliminare i bisogni assistenziali derivati dai bassi salari o dalle condizioni di lavoro o dalla carenza di servizi. Non basta cioè produrre rispettando l'uomo e in funzione sociale, ma occorre organizzare la vita sociale anche a partire da altre funzioni (attività politica, vita familiare e sociale, crea­tività artistica, attività sportiva, ecc.).

Vale la pena di ricordare che su questa linea si stanno muovendo ultimamente anche gruppi di cristiani che hanno fatto una revisione criti­ca dell'ideologia assistenziale cattolico-clericale e che premono per una radicale trasformazione (e abolizione) delle istituzioni religiose assi­stenziali. Così il Documento programmatico del­la Commissione diocesana per la pastorale dell'assistenza di Torino lega strettamente l'emar­ginazione assistenziale all'«impostazione pura­mente economicistica» della società e al pre­valere delle «istanze del progresso tecnologi­co» e fa dipendere la soluzione del problema assistenziale dal fatto che «il sistema si uma­nizzi trasformando la sua logica e correggendo la sua scala di valori» (in Prospettive assisten­ziali, n. 18, pp. 24 e 29). In prese di posizione come questa è evidente, accanto all'analisi po­litica, l'esigenza di un forte recupero delle di­mensioni autentiche della carità e della comu­nità cristiane. Infatti il documento citato parla nella sua parte conclusiva della necessità di «proporre il modello della comunità cristiana alle istituzioni civili» e osserva: «Proposte co­me quella fondamentale delle unità locali dei servizi, della creazione di focolari in sostituzio­ne degli istituti, dell'affidamento familiare, dell'adozione, dei servizi di aiuto alla famiglia per evitare l'internamento dei minori e degli anzia­ni, sono esattamente discorsi di applicazione profana e tecnica delle istanze della carità e del significato concreto della comunione dei fra­telli» (ibidem, p. 30). Indicazioni di questo ti­po nascondono in sé qualche ambiguità (che peraltro sembra esclusa dallo spirito del documento citato considerato nel suo insieme). Po­trebbero infatti indurre a pensare che la Chie­sa, fatti gli opportuni aggiornamenti, possegga pur sempre una particolare predisposizione e un primato nel campo dell'assistenza. Il perico­lo di una ripresa dell'ideologia clericale nell'as­sistenza è reale nel nostro paese, dove molti istituti assistenziali sono ancora istituti religio­si. Lo stesso ritardo con cui si afferma già la concezione assistenzialistica dello stato (a cui l'Italia non è nemmeno ancora arrivata) può in­durre molti a pensare, constatata l'inefficienza, la frammentarietà e la disumanità degli inter­venti assistenziali pubblici, che solo strutture cristiane, animate dalla carità, possano vera­mente rispondere ai bisogni assistenziali. Ed anche in questo caso si ritorna - per quanto il linguaggio possa essere più aggiornato - a proporre «isole assistenziali» che non intacca­no l'organizzazione sociale e sono quindi inevi­tabilmente destinate a fungere da cassa di com­pensazione emarginante delle sue disfunzioni.

 

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