Prospettive assistenziali, n. 37, gennaio-marzo 1977
Libri
ALFREDO CARLO MORO, L'adozione
speciale, Milano, Giuffrè, 1976, pag.
Questa pubblicazione del Presidente
del Tribunale per i minorenni di Roma ha il pregio di trattare in modo
approfondito ed esauriente tutta (a materia relativa all'adozione
speciale saldando continuamente gli aspetti formali con quelli sostanziali e
traendo le considerazioni esposte da esperienze concrete.
La trattazione è inoltre condotta
con uno stile semplice, talché il libro risulta utile
e consigliabile non solo a magistrati e cancellieri, ma anche agli operatori
sanitari e socio-assistenziali.
Il filo conduttore dell'opera di
Moro è il diritto del minore alla famiglia, quale strumento indispensabile per
lo sviluppo della sua personalità e per un adeguato processo di socializzazione.
Analizzate le conseguenze delle carenze familiari e gli effetti sull'infante e
sull'adolescente, viene tracciato un breve excursus
storico dal quale risulta come «il riconoscimento che il minore è soggetto di
autonomi diritti sia un portato solo dei tempi più recenti».
Il diritto del minore alla famiglia
si rivolge in primo luogo alla propria famiglia d'origine, la quale deve essere
«posta in grado di poter concretamente adempiere al
suo ruolo educativo».
Ma tale diritto è però contraddetto
dal nostro ordinamento e dalla prassi assistenziale. «L'ordinamento
consente infatti ancora al genitore - sulla base di
una assoluta discrezionalità e senza alcun preventivo controllo sia della
necessità dell'allontanamento dalla residenza familiare sia della opportunità
per il minore di un simile sradicamento - di affidare a terzi l'allevo e l'adozione
del proprio figlio». La prassi assistenziale «che
nella migliore delle ipotesi deve essere definita ottusa» a sua volta «tende
ancora, quando la famiglia di origine si trovi in stato di bisogno, a togliere
il minore dalla propria famiglia per ricoverarlo in istituto».
Sottolineata l'urgenza della riforma del settore
assistenziale, l'Autore assume come riferimento di fondo: la soppressione
della miriade di' enti nazionali e locali (IPAB comprese), il completamento
del trasferimento delle competenze alle Regioni e l'unità locale dei servizi.
Dal capitolo III in avanti sono
trattati i problemi specifici sollevati dalla legge 5-6-1967, n. 431,
istitutiva dell'adozione speciale e dalla sua applicazione, non sempre
conforme alla lettera e allo spirito della legge e cioè
non sempre diretta a tutelare i diritti del minore.
Gli ultimi due capitoli riguardano
l'adozione internazionale (cap. IX) ed i problemi penali dell'adozione (cap.
X).
Vogliamo infine sottolineare
che il libro di Moro dovrebbe costituire anche un riferimento per il
legislatore che dovrebbe tener conto delle osservazioni, gran parte delle quali
sono da noi condivise, per la modifica - da tempo promessa - della legge
sull'adozione speciale e per la soppressione dell'adozione tradizionale e della
affiliazione.
ALBERTO DRAGONE
J. M. STELLMAN, S.M. DAUM, Lavorare fa male alla salute, ed. Feltrinelli,
Milano, 1975, pagg.
P. BENEDETTO, G. MASSELLI, U. SPAGNOLI, B.
TERRACINI, La fabbrica del cancro,
ed. Einaudi, Torino, 1976, pagg. 125.
Edizione fuori commercio. Omaggio della Regione Piemonte.
Da più parti ormai viene affermata la necessità di una critica alla neutralità
della scienza. Il fatto che il ricercatore si sia accorto di una «ricerca
voluta» dalla società in cui vive, che la medicina ufficiale, così come la
scienza è monca quando non può includere anche la considerazione
dei suoi riflessi sulla società, lo ha indotto a credere nell'esigenza di una
partecipazione per condizionare il potere di classe della controparte ed a
formulare una ipotesi di lavoro nuovo per verificare dove «la medicina, come la
scienza, sia un modo di potere». Su questo comune denominatore sono pubblicati questi due volumi, con il preciso proposito di fare ricerca
ed insieme opera di divulgazione, ma anche con lo scopo di analizzare le
proposte della classe operaia al fine di arrivare ad un cambiamento di rapporto
fra scienza e società.
Entrambi i libri nascono dal
desiderio di creare una rete sanitaria e scientifica
esterna che possa sostenere con strumenti ed interventi adeguati le conquiste
ottenute dai lavoratori nei loro contratti e dall'evidenza che la lotta per la
salute deve si partire dall'interno della fabbrica, ma «deve poi collegarsi al
mutamento del quadro politico generale ed ad una azione più vasta che incida
sul rapporto, fabbrica, società ed istituzione».
Nel libro Lavorare fa male alla salute sono evidenziati i rischi del lavoro
in fabbrica, attraverso i risultati conseguiti dalla parte più avanzata del
movimento operaio americano, che con lotte dure e lunghe è riuscito ad ottenere
modifiche dell'ambiente di lavoro. Questa difficile marcia passa non solo
attraverso il sospetto dei lavoratori che la loro condizione di lavoro sia
dannosa alla salute, ma attraverso «l'individuazione e l'uso di strumenti che
ricuperando l'esperienza e l'azione degli interessati, singoli e gruppi
sociali, da un lato conduca alla scoperta dei rapporti esistenti tra le
malattie e tutte le variabili presenti nell'ambiente lavorativo e non, e
dall'altro alla attuazione di tutti i provvedimenti
necessari ad interrompere quando è necessario tali rapporti (prevenzione primaria
delle malattie)».
È questo un libro aggiornato e
completo sulle malattie ufficialmente riconosciute
come derivanti dal lavoro, e su quelle che ancora non sono conosciute; un
libro che partendo dalla fabbrica cerca di coinvolgere associazioni di
consumatori e vari gruppi sociali nel difficile cammino verso il diritto di
tutti al conseguimento del proprio benessere fisico e sociale.
Molte le tabelle, le indagini, con
descrizioni di misure e indicazioni per la scelta di un adeguato
sistema di prelievo, di controlli di valorilimite di soglia, per i prodotti
chimici più comunemente usati, di leggi e regolamenti per i depuratori d'aria
nel controllo dell'inquinamento, ma sempre partendo dalla prima realtà: la
fabbrica e la sua organizzazione del lavoro. È il risultato di un lavoro
minuzioso e serio di una laureata in chimica, J. M. Stellman
e di un medico internista S.M. Daum. Essi non
l'hanno redatto per l'uso separato dei clinici e dei tecnici ma finalmente per
«la fruizione partecipata di coloro che tale medicina
vivono sulla propria pelle nell'usura quotidiana della propria salute».
Questa concezione di una
ricognizione nella cittadella sanitaria per cercare e scoprire la non fatalità
della malattia ha guidato anche gli autori della Fabbrica del cancro. Essi occupandosi del
cancro da lavoro che considerano «un momento nodale nell'ambito di un piano
strategico di attacco ,al cancro dal momento che i tumori professionali sono i
più facili da prevenire», denunciano gli interessi prevalenti degli oncologi
italiani che seguono del resto la ricerca americana, sul controllo della
malattia piuttosto che su un risanamento dell'ambiente. «La
rivista Tumori - essi citano -
pubblicava, nel 1973, 40 contributi originali di ricercatori. Di questi 11 riguardavano problemi di chemioterapia, 9 si riferivano
agli aspetti immunologici della malattia
neoplastica,
Questo dramma è rivissuto in questo libro attraverso il racconto delle vittime (la percentuale
dei decessi è stata altissima). Dice Benito Franza operaio all'IPCA dal 1951 che vi ha lavorato sei
anni e sei mesi e che morirà di cancro alla vescica
nel 1976: «Lavoravo in questo modo: con una paletta a manico corto prelevavo
il betanoftolo in polvere e caricavo un autoclave poi svuotavo l'autoclave immettendo la miscela
bollente in appositi filtri sistemati all'aperto vicino ai reparti. Durante
tutta l'operazione la miscela bollente veniva a
contatto con l'aria e si sollevava una gran nube di vapore velenoso che
passava in tutti i reparti e veniva respirata da tutti gli operai che si sono
tutti ammalati come me e continuano ad ammalarsi perché nessuno della fabbrica
dice loro niente. Molti miei compagni sono già morti e altri hanno la mia
stessa malattia, per noi ci sono poche speranze».
Drammatiche sono le testimonianze di altri operai, delle vedove, e gli atti processuali. «Ma al di là dell'aspetto giudiziario e dell'accertamento delle
responsabilità - dicono gli Autori - i morti dell'IPCA saranno serviti a qualcosa
se la fabbrica può diventare un luogo di lavoro e di realizzazione della
persona e non una trappola mortale. (...) Nella
società in cui ha avuto luogo la storia dell'IPCA la medicina esclude dalle
proprie competenze le modificazioni delle condizioni di vita e di lavoro (e
quindi del modo di produrre) che stanno a monte delle condizioni di salute e di
malattia». Per questo è utile oltre che drammatico leggere questo libro, per
pubblicizzare il problema della salute per «superare il singolo caso clinico
ed individuare le radici più profonde del fatto sanitario, il conflitto tra la
salute dell'uomo ed una determinata organizzazione dell'ambiente in cui l'uomo
vive e lavora».
GIULIANA LATTES
A. CANEVARO, Il
bambino che non sarà padrone, Emme Ed:, Milano,
1975, pagg.
Mito e favola sono
i fili conduttori di una analisi pedagogica-istituzionale
che consente all'Autore di illustrare una situazione educativa sempre più conflittuale
e difficile.
La problematica della democrazia di
base e della formazione della personalità umana attraverso una didattica nuova
sono state poste a base del lavoro intrapreso in Italia nel 1959 da alcuni
educatori che, partiti dalle tecniche di Freinet, hanno
riconquistato negli ultimi anni, dopo una Lettera
ad una professoressa di Don Milani e dopo il
movimento studentesco, una carica politica. Freinet
muoveva da esigenze didattiche e pedagogiche al servizio di una
educazione che liberasse il bambino non solo dall'autoritarismo degli
adulti e della scuola, ma dalla soggezione delle strutture di classe.
Questa impostazione viene qui accolta dal Canevaro che
denuncia lo sfondo della società intera per cui non basta cambiare la scuola o
gli educatori, per far sparire i bambini di giusti modi, i bambini dal tocco
d'oro, i bambini Mida: la discriminazione secondo fa
classe a cui appartengono che li avvia a diversi destini sociali. «Riportando
il discorso all'educazione si può facilmente osservare come nel rapporto educativo
i giudizi e le valutazioni, le attese e le scelte didattico-educative,
possano esser vittime di mistificazioni, cioè
derivino i loro tratti caratteristici. dalla presunta
naturalità di un modello e non pongano in discussione, ma anzi convalidino il
rapporto con la realtà fondato sulla proprietà».
Si scopre perciò che «i Mida» non sono il dover essere di tutti gli uomini; sono
piuttosto «una convenzione» che è stata privilegiata e
che va demistificata cercando alternative per ricostruire la storia di tutti
gli uomini.
Proseguendo nella sua analisi, l'Autore
afferma che potrà esserci un nuovo modo di leggere la storia dell'educazione,
delle organizzazioni educative, modo che sia attento al rapporto fra sistema
pedagogico e le sue periferie.
Un esempio di periferia pedagogica,
l'Autore considera il lavoro di ricerca condotto da un gruppo di educatori francesi con bambini psicotici. Il gruppo
guidato dal regista Seligmann ha tradotto in immagini
un'esperienza che, partita dall'elaborazione e dallo studio di Maud Mannoni, costituisce una
sfida all'idea di scuola che molti di noi abbiamo. «Il
rilievo più sorprendente degli spettatori - dice Canevaro
- è che l'istituzione educativa e terapeutica per bambini psicotici risulta
essere un meraviglioso esempio di centro educativo valido per bambini
considerati normali». Non solo, ma alle immagini di vita nel centro si intrecciano immagini di ragazzi che vanno ciascuno per
proprio conto fuori dal centro.
Così che il materassaio che accoglie
il bambino che non parla, lo studio grafico in cui il
ragazzo disegna; la cucina della mensa universitaria, gli operai che devono
comporre il pavimento; vengono coinvolti in un rapporto tra periferia e centro
permettendo una osservazione sulla storia dell'educazione e l'elaborazione di
un progetto di rifondazione scientifica».
Ma questa operazione
non può essere fatta una volta per tutte perché i messaggi sono sempre nuovi e
diversi, né possiamo farla in solitudine perché abbiamo bisogno degli altri per
leggere noi stessi nella realtà storica. Il passaggio dal sapere alla
conoscenza è anche passaggio dal pregiudizio al giudizio che vuol dire prendere
in esame le periferie pedagogiche.
Per periferie pedagogiche l'Autore vuole indicare una dimensione
culturale più creativa, con maggiore possibilità di affrontare i linguaggi,
una sollecitazione a nuova scienza. È periferia pedagogica
il mondo degli handicappati; è periferia
pedagogica la corporeità che dimostra
come la suddivisione centro-periferia non sia soltanto nell'organizzazione o
nelle istituzioni, ma anche nei problemi, nei linguaggi, negli strumenti. «Per
questo è importante rivolgere l'attenzione alla formazione permanente intesa
come processo di recupero della 'propria storia della propria persona; come
continuo chiarimento del rapporto con l'altro e di cosa in questo rapporto viene fasciato fuori, cosa viene rimesso in movimento».
Così si conquista la storicità dell'educazione,
la possibilità di conoscere e di cercare. L'educatore deve avere la
possibilità di incontrare la sua storia e quella degli altri, calandosi nelle periferie pedagogiche per una educazione non discriminante ma cooperativa in contrapposizione all'educazione competitiva. La scuola di conseguenza si
giustifica solo se rompe l'universo egocentrico e dà
voce a dimensioni culturali minoritarie e marginalizzate,
proprio per essere scuola della parola da conquistare e non conferma delle
differenze.
L'Autore conclude
che l'inserimento dei bambini con handicap nella scuola di tutti favorirà
appunto la cooperazione e le periferie
pedagogiche, e sarà proprio questo bambino a liberare gli altri identificati come schiavi messaggeri che non saranno più «schiavi
di un sapere da ripetere, ma ricercatori di una conoscenza da vivere».
JOLE MEO
www.fondazionepromozionesociale.it