Prospettive assistenziali, n. 38, aprile-giugno 1977
FALSI
CIECHI A TORINO UN ESPOSTO DELL'UNIONE ITALIANA CIECHI
Alla Procura della Repubblica di
Torino.
Signor Procuratore della Repubblica,
il sottoscritto Tomatis Enzo, nella sua qualità di Presidente della Sezione provinciale di Torino della
Unione Italiana Ciechi, Corso Vittorio Emanuele n. 63,
ESPONE
l'Unione Italiana Ciechi, da oltre 55
anni unica associazione rappresentativa dei non vedenti, ha quale preminente
scopo statutario la tutela degli interessi morali e materiali dei privi della
vista in ogni campo. Tale compito è ribadito, fra l'altro, da una specifica
disposizione di legge contenuta nell'art. 1 del DLCPDS 26 settembre 1947, n.
1047. Nell'esercizio di questo mandato, l'U.I.C. ha conseguito significativi risultati a favore della categoria tradottisi
in vari provvedimenti legislativi in materia di istruzione, di avviamento al
lavoro, di benefici pensionistici. Recenti scandali hanno posto il dito su una
piaga di portata sì quantitativamente contenuta ma moralmente molto rilevante: i falsi ciechi. Vi sono cioè persone che fingono di essere portatori della grave
deprivazione sensoriale al fine di profittare dei modesti benefici compensativi
riservati ai non vedenti. Ciò costituisce motivo di grave indignazione per i
ciechi e di riprovazione generale dell'opinione pubblica oltre che, a nostro
avviso, violazione della legge, e pertanto l'U.I.C. sta promuovendo, a livello
nazionale, una campagna generalizzata per lo smascheramento dei simulatori. L'impegno associativo in questa direzione non è
peraltro nuovo: fin dai primi anni successivi alla concessione della pensione
ai ciechi civili, l'allora Presidente nazionale Paolo Bentivoglio
tuonava contro i «ciechi motociclisti» e, da allora, a più riprese, varie
Sezioni Provinciali dell'U.I.C. hanno intrapreso iniziative moralizzatricî
seguendo l'esortazione dei dirigenti nazionali del sodalizio.
Si ha ragione di ritenere che, per
il rigore degli accertamenti effettuati dagli organi preposti, nella nostra
provincia non vi sia, se non come remota probabilità, chi indebitamente
profitta delle concessioni pensionistiche ai ciechi civili, tuttavia, dopo
attenta riflessione, il Consiglio Direttivo della Sezione ha
ritenuto ugualmente necessario prendere un'iniziativa di accertamento
in merito dopo aver valutato il danno che deriva alla categoria dalla
possibilità di accesso di non ciechi ad altre forme provvidenziali disposte a
favore dei non vedenti, ad esempio nel campo del lavoro.
Come è noto esiste una gamma di
disposizioni legislative concernenti il collocamento obbligatorio al lavoro
dei massaggiatori ciechi e dei centralinisti telefonici ciechi, mentre, anche
per l'attuale situazione economica del Paese, insormontabili ostacoli si
frappongono al non vedente che liberamente competa coi normodotati
nel mercato del lavoro alla ricerca di una diversa e non tutelata occupazione.
Nell'ambito dello stesso avviamento
protetto al lavoro può accadere che il cieco assoluto 0 avente un residuo
visivo irrilevante sia discriminato dal datore di lavoro a beneficio dell'aspirante al collocamento che possegga un visus più
funzionale e vicino alla norma. Ciò evidentemente si traduce tendenzialmente
in un grave danno per i ciechi assoluti e per i possessori di un residuo
visivo rientrante nell'ambito della definizione legale della cecità e in un
pregiudizio per l'insieme della categoria che, a suo tempo, conquistò le leggi
protettive con impegno rivendicativo e sacrificio.
È pur vero che esistono delle
occasioni-filtro (per esempio la pratica per l'iscrizione all'Albo nazionale
dei centralinisti telefonici ciechi istituito presso il Ministero del Lavoro)
nelle quali viene richiesta la certificazione del
titolo della cecità, ma in tali occasioni sorge un delicato problema di
coscienza in chi è preposto alla selezione: è giusto che un giovane che si
supera, magari largamente, la misura legale della cecità ma che ha vissuto «da
cieco» tutta la sua vita, ha trascorso l'infanzia e l'adolescenza negli
istituti, frequentando le scuole speciali per ciechi e subendo fin dalla più
tenera età una serie di deprivazioni ambientali, culturali e sociali e di influenze
che lo indirizzavano verso una mansione lavorativa «da cieco», alle soglie
dell'avviamento al lavoro e, quindi, della possibilità di conquistare l'autonomia
economica e personale, sia «riconosciuto», solo a quel punto, come non cieco e
respinto verso quella frustrante competizione per «il posto» purtroppo comune
a tutti i giovani ma per la quale egli non è preparato né professionalmente né
psicologicamente? Meno che mai i non vedenti si sentono capaci di dare
l'ostracismo a questi fratelli, per certi versi, ancora più sventurati.
Si impone quindi la necessità di
intervenire preventivamente, troncando la «produzione» di falsi ciechi laddove
essa ha origine: negli istituti per ciechi. Beninteso l'Associazione si è data
questo obiettivo non unicamente mossa da spirito categoriale, ché questa sarebbe azione sostanzialmente
protezionistica, seppur comunque meritevole di tutela giuridica, ma soprattutto
in considerazione dei danni, difficilmente reversibili di cui possono essere
vittime tanti fanciulli costretti, per ragioni non suffragate dalle loro
condizioni visive, a vivere e ad essere scolarizzati
in ambienti impropri e tanto più deleteri qualora alcuni di tali minori siano
portatori di deficit mentali che li rendono più indifesi dal pericolo di subire
ulteriori disadattamenti sociali e deterioramenti psichici.
Questa vera e propria forma di
diseducazione è già stata oggetto di pubbliche denunce.
In un articolo apparso sulla rivista pedagogica Cooperazione educativa (n. 5-1976) si legge: «... ciò che è grave
è che non viene effettuato nessun accertamento
oculistico. Si verifica così l'inconveniente,
veramente tragico sul piano psico-pedagogico, di
educare da ciechi (insegnamento esclusivamente della scrittura Braille, vari
sussidi didattici basati sul tatto, carenza di stimolazioni visive
nell'ambiente scolastico e convittuale) dei bambini
che, per il loro residuo visivo 0 addirittura per essere tout court dei
vedenti, potrebbero senza difficoltà di sorta, essere scolarizzati
normalmente. È facile immaginare come tale situazione possa provocare nei
bambini dei disadattamenti, che saranno tanto più acuti quando ad un non grave
deficit visivo si accompagna una autentica carenza
psico-fisica o sociale, vera motivazione del ricovero. Questa realtà non è solo
presente all'istituto di Torino».
Questo fenomeno, probabilmente molto
marginale nel passato quando, purtroppo, la cecità
era più diffusa e gli istituti riuscivano a malapena a contenere tutti i
soggetti autenticamente bisognevoli di attenzione, pare oggi in allarmante
estensione poiché gli istituti, semivuoti anche per effetto della sempre più
diffusa integrazione degli alunni non vedenti nelle scuole normali, paiono
accogliere, pur di colmare i vuoti, convittori di ogni sorta.
Una simile prassi viene
stigmatizzata anche sotto il profilo strettamente tecnico. Il tiflologo prof. Gioacchino Di Trapani, che pure svolge le
sue considerazioni in riferimento ai residui visivi
contenuti nell'ambito della definizione legale della cecità, scrive: «Per
molti anni le scuole per ciechi ebbero fra le loro funzioni lo sviluppo di
procedimenti e sussidi atti a "risparmiare la vista" di quelli tra i
loro assistiti che fossero in possesso di qualche
residuo visivo. Negli ultimi trenta o quaranta anni però, oftalmologi e psicologi
hanno dimostrato che ciò non è necessario né desiderabile. Dal punto di vista
medico non c'è ragione di credere, in generale, che l'uso del residuo visivo
debba arrecare danno all'occhio o peggioramento al suo normale sviluppo; dal punto
di vista psicologico è stato ampiamente evidenziato che la mancanza di stimoli
adeguati produrrà effetti dannosi e misurabili sulla formazione di buone
capacità di rendimento della percezione visiva».
(Corriere dei
ciechi, gennaio 1977).
A sua volta la dottoressa Poli
Contini, nota esperta nell'educazione dei minorati visivi, nel suo contributo
al recente libro Educazione degli
handicappati, Angeli edizioni, ribadisce: «Il minorato
visivo grave deve avere a disposizione un materiale che lo aiuti a
"interpretare" la realtà, che egli percepisce in modo deformato, ad
"integrare" la sua visione per avere una più corretta conoscenza
delle cose che lo circondano, deve avere vicino a sé
degli insegnanti vedenti che lo aiutino ad organizzare le sue percezioni visive,
ad affinarle, ad associarle». E si parla pur sempre di
minorati visivi gravi!
Un riflesso delle conseguenze
psicologiche indotte su giovani sub-efficienti visivi, costretti a frequentare
istituti per ciechi, si trova nelle testimonianze raccolte da Angelo Franza nel libro: Uno
stigma e forse una norma: i ciechi, ed. Dehoniane:
«La prima volta che mi sono veramente isolato è stato quando
sono entrato in istituto. Questo perché sono passato da un
tipo di vita normale (perché non mi sentivo anormale) ad un tipo di vita per me
anormale. Fu allora che cominciarono a nascermi dei dubbi sulla
naturalezza del rapporto fra me e i miei amici al di fuori dell'istituto, cioè mi chiedevo: tutto ciò che i miei amici fanno nei miei
riguardi è suscitato da un interagire normale o dal sentimento di pietà? Da
allora cominciai a controllare i miei movimenti per fare in modo che nessuno
di essi mi tradisse. Tento di controllare ogni azione
prima di farla, per evitare che qualcuno possa capire, mi è mancato il coraggio
di chiedere a una ragazza di ballare e sono andato
via. Mi chiedevo: e se inciampo? E se urto contro
qualche tavolino? E se si accorge che...». In sostanza
si produce una mutilazione psicologica forse più grave della menomazione
fisica. L'esponente ritiene che una puntuale osservanza delle disposizioni
legislative, statutarie, regolamentari appresso invocate eviterebbe o
rimuoverebbe gran parte degli inconvenienti
evidenziati.
Come è noto, il legislatore ha individuato
tre livelli di minorazione visiva nell'ambito della definizione legale della
cecità: i ciechi assoluti e coloro che possiedono rispettivamente 1/20 o 1/10
di visus con correzione e considerati entrambi gli occhi. Ciò corrisponde,
normalmente, e per quanto viene preso qui in
considerazione, a discriminanti funzionali: un visus di 1/20 permette grande
autonomia di movimento e, con particolari accorgimenti, la lettura normale; un
visus superiore al decimo, consentendo sempre la lettura, non pone difficoltà
di rilievo allo svolgimento della normale attività scolastica o all'avviamento
ad attività professionali plurime e specifiche.
A favore dei soggetti legalmente
ciechi e «poveri e rieducabili» è disposta, per
effetto dell'articolo 144/G/3 del R.D. 3 marzo 1934, n. 383, una specifica
assistenza da parte delle Province che si traduce, tradizionalmente,
nell'erogazione delle rette agli istituti per ciechi. L'articolo 1 dello
Statuto Organico (allegato 1) dell'Istituto dei ciechi di Torino, Via Nizza,
151, approvato con R.D. 3 agosto 1934, n. 1556, dichiara che detto Istituto
«... ha per fine prevalente l'educazione e l'istruzione dei fanciulli
ciechi, dei due sessi, per l'assolvimento dell'obbligo scolastico. Provvede
anche alla loro educazione morale N. A sua volta il Regolamento interno
(allegato 2) del medesimo Istituto, approvato con D.M. del 14 aprile 1937,
all'art. 63 prescrive che le domande di ammissione
degli assistibili devono essere corredate, fra l'altro, da certificato
dell'Ufficiale Sanitario da cui risulti che l'alunno è cieco oppure «fornito
di un grado di vista insufficiente per frequentare con profitto le scuole
elementari dei vedenti». Quest'ultima formulazione, qualora non debba
intendersi abrogata, come contrastante con la disposizione della legge 30
marzo 1971, n. 118, all'art. 28 stabilisce che per gli invalidi civili «L'istruzione
dell'obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica», o per
effetto della legge 11 maggio 1976, n. 360, dovrebbe comunque,
riferendosi ad un parametro funzionale, coincidere tecnicamente col limite
giuridico della cecità, oppure, estrema ratio, qualora porti comunque
all'ammissione in istituto di fanciulli aventi un visus superiore alla cecità
legale, indebitamente respinti dalla scuola di tutti, non dovrebbe dar luogo a
richiesta di retta alla Provincia di domicilio di tali soggetti la quale è
tenuta evidentemente all'assistenza dei soli soggetti autenticamente ciechi.
È viceversa convinzione
dell'esponente che attualmente siano accolti
dall'Istituto Regionale Ciechi di Torino fanciulli, adolescenti e adulti che
ciechi non sono, ciò evinto da:
1) Documentazione scritta: si veda
il carteggio intercorso fra
2) Effetti dello spostamento della
scuola elementare «Prati» per alunni ambliopici
dalla primitiva sede di Corso San Maurizio a locali situati presso l'Istituto
dei ciechi. In conseguenza di tale trasferimento gli alunni,
dichiaratamente non ciechi, divennero - e alcuni lo sono tuttora - «assistiti» dell'Istituto.
Tale incongruenza è stata oggetto di segnalazione alla Amministrazione
Provinciale (all. 8).
3) Voci pubbliche giunte a
conoscenza dell'esponente. Si vedano in particolare il già citato articolo
della rivista Cooperazione educativa
(all. 9) e la recente lettera dell'Unione per la lotta contro l'emarginazione
sociale (all. 10).
4) Elementi di conoscenza diretta
non documentabili in questa sede ma che potrebbero trovare riscontro in una indagine peritale.
Inoltre il medesimo Statuto all'art.
4 stabilisce che «L'Istituto accoglie i fanciulli
ciechi che abbiano compiuto il 4° e non superino il 14° anno di età». L'ultimo
comma dello stesso articolo prevede possibilità di deroga per i fanciulli ciechi minori di quattro anni mentre nessuna deroga
è prevista per le età superiori al 14° anno. Tale omissione non pare casuale ma invece dettata dalla saggia preoccupazione,
sentita dagli estensori la carta statutaria, di non trarre troppo a lungo il
periodo di intervento assistenziale onde evitare la completa assuefazione dei
soggetti alla vita protetta dell'Istituto e una troppo lunga esclusione dalla
comune vita sociale. È invece opinione dell'esponente che la successiva
imprevista deroga che porta oggi l'istituto ad accogliere un gran numero di assistiti di età superiore e financo
adulti, contribuisca a ritardare in tali soggetti l'acquisizione di quella
autonomia personale sempre auspicabile per gli adolescenti e necessaria agli
adulti. I non vedenti potrebbero comunque accedere
alla frequenza sia degli specifici corsi professionali (presso l'istituto professionale
statale «C. I. Giulio» o presso il Centro di formazione
professionale comunale «Mario Enrico»), sia
delle comuni scuole medie superiori, fruendo di sussidi pluriformi
e commisurati alle necessità educative ed economiche, da parte delle Province,
in alternativa alle rette, certo più onerose per i
fondi pubblici e di utilità solo indiretta per i destinatari dell'assistenza.
Tutto ciò premesso, poiché il citato
Statuto Organico all'art. 13, lett. c),
pone l'accettazione e la dimissione degli alunni fra le competenze del
Consiglio di Amministrazione dell'Istituto Regionale
Ciechi, l'esponente chiede che
Torino, 18 aprile
1977.
www.fondazionepromozionesociale.it