Prospettive assistenziali, n. 38, aprile-giugno 1977
Libri
M. BONATTI, G. CHIOSSO, R. DELLAVECCHIA, M. DEORSOLA, Partecipare nella città - Vicende del
movimento dei quartieri, SEI, Torino, pagg. 111, L.
2.500.
Partecipare
nella città è il
lavoro di un gruppo di esponenti dei comitati di
quartiere torinesi che hanno seguito e vissuto personalmente lo sforzo di
«partecipazione» alla vita della città da parte di privati cittadini.
La storia cronologica che ci offrono
non è solo quella delle lotte, delle delusioni e delle attese di anni recenti della vita di Torino, ma più in generale
dello sviluppo della coscienza civica dei torinesi.
Infatti la nascita e la crescita dei quartieri
ha certamente contribuito al formarsi di una precisa coscienza partecipativa
non integrata.
Che cosa vuol dire partecipazione? «La
perdita di credibilità delle attuali strutture
democratiche portano i cittadini all'avversione alle tradizionali forme di
delega» e li spingono a partecipare «in primo» alla gestione della città.
«A Torino i comitati di quartiere si
formano spontaneamente in forza dei bisogni insoddisfatti e disattesi di una
città stravolta dall'immigrazione indotta e dalla
industrializzazione». I comitati di quartiere diventano portavoce delle
necessità della comunità, momento di lotta per il cambiamento
della società, collegamento con scuola e fabbrica per lavorare insieme non più
per l'interesse del singolo.
Il volume si articola attraverso
l'analisi di quattro esperienze significative per la
città di Torino: le lotte del quartiere di corso
Taranto; la mobilitazione e la consultazione sul piano dei servizi; la
battaglia per l'autoriduzione delle tariffe elettriche e le iniziative contro
il carovita; infine la partecipazione nella scuola attraverso i decreti
delegati.
In prossimità delle elezioni dei
consigli di quartiere da più parti si tenta un bilancio dell'esperienza quartierista torinese, anche per tentare di capire, con
l'analisi del prima, cosa potrà avvenire dopo le
elezioni.
In questo quadro si colloca il
contributo del volume, che certamente non ha l'ambizione di esaurire il
discorso, ma se mai di iniziarlo, pur con alcuni limiti, per
altro significativi. Non si può infatti
nascondere il carattere «interclassista» del volume, forse maggiore di quello
dei comitati stessi, che emerge in particolare dall'introduzione.
In essa ci
si scaglia contro «il potere», la gerarchia, la burocrazia, senza mai tentare
un'analisi politica più profonda e precisa, oggi ancora così necessaria, che
sottolinei quanto a Torino, e non solo a Torino, gli errori nello sviluppo distorto
della città siano riconducibili a nomi e cognomi e, soprattutto, a paternità
politiche ben individuate.
L'altro limite è quello di non
approfondire, o almeno accennare, il discorso della differenza tra comitati di
quartiere «spontanei» e consigli di quartiere «istituzionali», tentando così di essere qualcosa di più che uno sguardo al passato.
Comunque in un momento in cui sembra ormai
definitivamente scomparsa ogni fiducia nella possibilità di modificare, non
solo il quadro politico (che di per sé ha ben poco significato) ma lo sviluppo
economico e sociale del paese, è certo che la lettura del volume, attraverso il
resoconto di alcune significative lotte, testimonia la capacità di
mobilitazione, lotta e vittoria del movimento di partecipazione di base,
offrendo quindi implicitamente una precisa indicazione di impegno per i
giovani militanti, e un invito ai vecchi a non abbandonare il campo.
ALBERTO DRAGONE
L. H. Mc CLELLAND, L'infermiere psichiatrico, Idelson, Napoli, 1975, pagg. 365, L.
11.000.
Questo volume può ritenersi positivo in quanto riempie quel vuoto di interesse e di informazione, un vuoto esistente da sempre in campo psichiatrico, e in
particolare nella principale concretizzazione di tale campo che è l'istituzione
psichiatrica. Le lotte del '68 e le denuncie sull'emarginazione hanno messo in evidenza la funzione segregante e non curativa
assegnata in passato alle istituzioni psichiatriche, chiarendo che questo
«vuoto» è politico, ma non hanno saputo creare strumenti didattici fuori da una
tradizione accademica. Una psichiatria che tenda a
partire dai bisogni reali, dalla esigenza e dalle sofferenze dell'uomo così
come risultano alla luce dell'analisi di classe, non può che rivedere con nuovi
strumenti culturali e terapeutici anche la formazione degli infermieri.
Ad essi si
rivolge questo studio partendo da una analisi critica del ruolo dell'infermiere psichiatrico.
E bene ha fatto F.
Parlante, curatore del volume, che ha adattato alla
situazione italiana con notevole attenzione con note e riferimenti, a riportare
nella prefazione la critica emersa da un gruppo di infermieri che ha vissuto in
Italia la trasformazione, in senso terapeutico, di un reparto chiuso: «Le
caratteristiche principali di questo ruolo erano: la dipendenza dal medico,
l'autorità sulle pazienti.
Mentre la prima ci sollevava dalle responsabilità, impedendoci di avvertire il senso di colpa
per la mancanza d'iniziativa, la seconda ci scaricava dalla tensione della
dipendenza, gratificandoci di un falso senso di affermazione».
Il conflitto di base, che aveva
sempre privato del necessario mordente le nostre azioni e della giusta
gratificazione il nostro lavoro, era la contraddizione evidente tra la nostra
formazione umana e l'atteggiamento che ci era dato di
assumere al momento di indossare gli «abiti del mestiere».
«Tale conflitto era il principale
responsabile del vago sentimento di insoddisfazione
che ci accompagnava anche al di fuori dell'ambito ospedaliero creandoci sovente
delle difficoltà nei consueti rapporti affettivi del nostro ambiente più
proprio».
«L'accettazione del nostro ruolo
era, anche, il frutto di altri fattori che potremmo
definire, in una parola, come completo condizionamento culturale».
«Questo condizionamento, assieme al sentimento di dipendenza-inferiorità nei confronti del
medico, non ci sollevava in nessun caso, però, sul piano operativo,
dall'avvertire tutta la mortificazione che ci derivava dalla limitatezza della
nostra azione quotidiana».
«Per questa ragione non esitiamo ad affermare
che l'esercizio dell'autorità era accettato da noi solo perché rappresentava
l'illusione di partecipare in qualche modo all'attività curativa.
Tenere le chiavi, porre dei limiti alla libertà individuale delle nostre
assistite, proporre decisioni coercitive era l'unica cosa che poteva dare un senso alla nostra azione».
«Le condizioni istituzionali ci
ponevano di fatto in una situazione di prevalenza
sulle pazienti, ma l'esercitare l'autorità - possiamo affermarlo - era solo il
frutto della insoddisfazione e della scarsa qualificazione del compito
assegnatoci. Non vedevamo altro significato, alla nostra azione, se non quello
di far sì che, con ogni mezzo, fosse mantenuto l'ordine. Da questo ci veniva
l'unica gratificazione del consenso al proprio operato,
quando potevamo assicurare che tutte le cose andavano per il meglio».
Con il cambiamento del concetto del
ruolo dell'infermiere psichiatrico la complessità della condizione in cui si
trova oggi ad operare sia nell'ospedale psichiatrico, sia negli altri servizi
territoriali impone ad esso una visione dinamica di
intervento in rapporto alla particolare situazione ed ai bisogni dell'utente,
una formazione basata sul confronto e sulla discussione.
Ciò sposta l'attenzione sui concetti
di riqualificazione e formazione permanenti. In tale prospettiva il volume
della Mc Clelland fornisce
uno strumento prezioso per una rapida e chiara acquisizione o completamento-sistematizzazione di
una serie di nozioni (in particolare di tipo medico e psicologico)
indispensabili per porre le basi di una più corretta professionalità
dell'infermiere.
In sede di lettura l'operatore potrà
apprezzare la chiarezza e la ricchezza di informazioni
di base che le caratterizza.
Il lavoro contiene però una lacuna
non indifferente, come del resto molte pubblicazioni americane (1): un taglio
eccessivamente tecnicistico, cioè
tale per cui vengono riportati a soluzione di tipo tecnico anche problemi di
natura politica e sociale.
Come la maggior parte degli autori
statunitensi è la loro realtà sociale che non viene sottoposta a interrogativo circa la sua validità, e impostazione. Le
teorie e le terapie sono pertanto finalizzate all'adattamento, e il principio di realtà di Freud viene fatto forzosamente
coincidere con l'adattamento come scopo assoluto, come valore di salute. Così, in seguito alla cattura del soggetto da
curare in uno schema razionalizzante e, da ultimo, falso e deformante la
stessa efficacia dell'approccio terapeutico risulta parzialmente invalidato. E
quindi in una ottica che superi il nozionismo
psichiatrico, che spesso ha costruito i suoi strumenti didattici sulla acriticità e sul tecnicismo, che suggeriranno al lettore
di accostarsi al libro, per prenderne il buono, ma distanziandosi criticamente
dalla «filosofia» e dalla «politica» che vi sono contrabbandate sotto la
copertura di un discorso apparentemente solo tecnico.
BEPPE ANDREIS
G. BRASINA, N. CUOMO, C. VICENZI, Produzione e consumo di individui di seconda
classe - Handicappati e mondo del lavoro, Patron Editore, Bologna, 1977,
pagg. 317, L. 5.500.
«Non vi può essere riabilitazione
senza socializzazione, né si può pensare di operare per l'inserimento
dell'handicappato offrendo a questa categoria di cittadini servizi, occasioni di istruzione, di formazione e di lavoro, diverse da quelle
offerte a tutti gli altri» citano gli autori nelle considerazioni conclusive
del loro lavoro. Questa è la tesi che fa da sfondo
alla ricerca condotta presso la cattedra di Pedagogia Speciale dell'Istituto di
Scienze dell'Educazione dell'Università di Bologna.
Gli A. analizzano con efficacia i
processi cui gli individui di seconda classe, gli handicappati, sono sottoposti
e che sanciscono la loro emarginazione, partendo da alcuni cenni storici fino a individuare quelli ancor oggi operanti: all'interno della
famiglia, della scuola, della formazione professionale, del mondo del lavoro
stesso.
Proprio quest'ultimo
è l'obiettivo che si pongono, volendo, con il proprio
lavoro, offrire un momento di approfondimento per rilanciare l'impegno
all'inserimento lavorativo degli handicappati, tappa fondamentale per un loro
inserimento sociale reale e complessivo.
Il volume ha il pregio di sistematizzare le motivazioni teoriche che oggi ci
consentono di portare avanti consapevolmente questa battaglia, con riferimenti
continui e precisi al fatto che il problema è risolvibile solo se inserito in
una strategia più ampia di riforma dell'intero settore assistenziale.
Di qui il richiamo
alle competenze regionali in materia, delegate nel 1972 e da completare con la
legge 382, alla necessità di rapportarsi sempre al territorio e quindi alla creazione delle
Unità locali in ogni fase propositiva e realizzativa.
La trattazione, che si riferisce
essenzialmente alla Regione Emilia Romagna, se è esauriente dal punto di vista
dell'impostazione del problema, non fornisce però molte indicazioni sul come
concretamente avviare delle iniziative, risentendo probabilmente della
mancanza stessa di esperienze cui riferirsi. Sappiamo
bene infatti, purtroppo, che per quanto riguarda la
formazione professionale e l'inserimento lavorativo degli handicappati, fino ad
ora non si è riusciti ad andare oltre le affermazioni di principio, a parte
alcune rare esperienze, quasi mitiche nel loro isolamento, come quelle
realizzate dall'Amministrazione provinciale di Parma e di cui abbiamo
riferito ampiamente su Prospettive
Assistenziali. Al di là di questo limite
oggettivo il testo può comunque rappresentare un valido strumento per chi
intende lavorare, come dicono gli AA. stessi, «a
superare l'indirizzo caritativo-assistenziale, dando
al problema una dimensione ed una prospettiva politica per la maturazione di
orientamenti alternativi, nell'ambito delle pressioni che derivano dalle lotte
dei lavoratori, tendendo ad un inserimento armonico e produttivo, non solo per
le aziende, ma principalmente per l'handicappato stesso e per il gruppo di
lavoratori in cui egli viene a collocarsi».
ALBERTO DRAGONE
(1) Fa eccezione la
recente GABRIEL D'AMATO, Verso una nuova
psichiatria infantile, Napoli, Idelson, 1974, L. 8.000. (Vedi recensione nel
numero 29 di Prospettive assistenziali).
www.fondazionepromozionesociale.it