Prospettive assistenziali, n. 39, luglio-settembre 1977

 

 

ESPERIENZE E PROBLEMI DELL'INSERIMENTO AL LAVORO DI HANDICAPPATI PSICHICI (1)

VINCENZO BAGNASCO

 

 

Nell'ultimo decennio si è verificato in tutta Italia un importante rinnovamento nel settore degli interventi per gli handicappati psichici, fisici e più generalmente, degli emarginati, che ha coinvolto per aspetti specifici, ma stretta­mente correlati fra loro, cultura, politica e tec­nica, dapprima in un profondo ripensamento e teorizzazione e successivamente, negli ultimi cinque-sei anni, in una prassi operativa che si concretizza, come è noto, nel rifiuto delle isti­tuzioni totali, nell'integrazione a tutti i livelli: sostanzialmente nel riconoscimento anche alle categorie più svantaggiate del diritto alla parte­cipazione alla vita collettiva, situando la tecnica al servizio del singolo o del gruppo e non dell'istituzione.

Non mette conto dilungarci sulla storia di que­sto processo, d'altronde ben noto ormai non solo agli addetti ai lavori, ma anche, come era ne­cessario, a gran parte della collettività, se non per registrare come, mentre una via precisa, an­che se in qualche luogo e per alcune situazioni ancora teoriche, è stata trovata per quanto con­cerne l'integrazione nei nidi, scuole materne e dell'obbligo, molte incertezze esistono ancora, sia a livello di elaborazione teorica, sia, in mi­sura maggiore, di realizzazione concreta, per quanto concerne l'integrazione nel mondo del lavoro.

La realtà attuale più diffusa sembra quella di una progressiva eliminazione in tutto il nostro Paese delle strutture emarginanti (istituti, scuo­le speciali e differenziali, ecc.) e di una conser­vazione, con eventuale razionalizzazione, ammo­dernamento e abbellimento, dei centri di prepa­razione professionale speciale e dei loro equi­valenti.

Si corre spesso il pericolo d'integrare bene, o comunque il meglio possibile, l'handicappato nelle strutture scolastiche, e, alla fine, di emar­ginarlo al compimento dei 14-15 anni in struttu­re speciali e segreganti, proprio quando sarebbe invece giunto il momento di rendere piena e reale l'integrazione.

Su questo argomento riteniamo utile riferire i risultati e le elaborazioni politico-tecniche di un'esperienza condotta a Parma dal 1968 ad og­gi, prevalentemente nel settore degli handicap­pati psichici, da un gruppo di lavoro dell'Ammi­nistrazione provinciale, costituito da operatori sociali, assistenti sociali e neuropsichiatra. L'attività ha avuto due fasi definite, anche se non divergenti, di cui naturalmente la seconda rappresenta il frutto dell'esperienza e della ela­borazione acquisite nella prima. In una prima fase, dal 1968 al 1974, i problemi che ci trovam­mo ad affrontare, come gruppo, erano costituiti da un lato dalla necessità di inventare un desti­no non istituzionale ad un gruppo di giovani al di fuori dell'età scolare, che con molte difficol­tà avevamo fatto dimettere dagli istituti; dall'al­tro, dalla necessità di andare verso la chiusura di un centro di avviamento 'professionale specia­le, gestito insieme dall'Amministrazione provin­ciale, dal Comune e dall'ENAIP e di cui ci pareva chiaro l'impronta segregante e, tutto sommato, istituzionale. In breve tempo ci siamo resi conto anche del fatto che un centro di quel tipo non rappresentava molto di più o di meglio di una area di parcheggio diurno per giovani provenien­ti dalla scuola speciale, senza alcuna prospettiva reale; né d'altra parte non ci sembrava quello dell'acquisizione di una minima qualificazione professionale (ammesso e non concesso che ciò fosse possibile ottenere nell'ambito anche di un centro rammodernato e funzionale) la con­dizione determinante per ottenere l'inserimento successivo nel mondo del lavoro.

Ci sembrava, e ne siamo più che mai convinti ora, che il problema di fondo consistesse nel ri­conoscimento, da parte di tutti, del diritto al la­voro anche del meno produttivo e, parallelamen­te, nella caduta di pregiudizi e preconcetti cul­turali nei riguardi dell'handicappato, considerato inidoneo a tutto, pericoloso per sé e per la col­lettività, inconsapevole responsabile di incidenti sul lavoro per sé e per i compagni di lavoro e, infine, oggetto solo di terapie mediche, abbiso­gnevole di assistenza e non di vita di relazione.

In sostanza era lo stesso problema che, pur se con diversi interlocutori, si era dovuto affron­tare nella scuola elementare e che si poteva sintetizzare nel concetto dell'allontanamento del non produttivo dalla collettività dei «produtti­vi», eventualmente con un avvallo tecnico e scientifico.

La nostra scelta fu quella del tentativo di in­serimento diretto nelle aziende, dei casi meno gravi, e di un inserimento protetto, con grande parte di oneri economici a carico dell'Ammini­strazione provinciale, dei casi più gravi, utiliz­zando per questo anche la disponibilità e la col­laborazione di aziende pubbliche (trasporti, ser­ra comunale, servizi acqua e gas, nettezza ur­bana, ecc.).

Si trattava di una fase del tutto sperimentale, in un periodo in cui già sembrava chimerico l'obiettivo dell'inserimento a scuola e in famiglia.

L'inizio fu caratterizzato da molte incertezze e da alcuni errori, il più importante dei quali fu, a nostro avviso, quello di aver sottovalutato, in alcune fasi, l'importanza del sindacato, sia co­me promotore che come gestore in prima perso­na di tutta una serie di problemi che invece con­tinuavano ad essere delegati a noi.

In realtà la partecipazione dei lavoratori fu già allora estremamente significativa e importante, ma essi in alcune circostanze si trovarono coin­volti solo a posteriori, quando la trattativa per l'inserimento del giovane nell'azienda era già stata condotta privatamente fra l'azienda stessa e l'Amministrazione provinciale. I rapporti con i sindacati furono poco organici e il nostro impe­gno per la generalizzazione dell'esperienza fu in­sufficiente soprattutto per carenza di mezzi e di personale.

Ciò nonostante furono inseriti ed assunti re­golarmente in quel periodo oltre 50 giovani; l'operazione si dimostrò estremamente positiva e soprattutto importante per la somma di espe­rienze messe insieme, che ci confermarono in concreto la possibilità di effettuare l'inserimento.

L'occasione per dare alla sperimentazione un'organicità e completezza maggiore, ci è sta­ta data, nel 1975, dalla concessione di un finan­ziamento da parte del Fondo Sociale Europeo.

Formalmente il piano CEE consiste in un pro­getto di intervento biennale, con una spesa di circa 650 milioni, sostenuta in parti uguali dall'Amministrazione provinciale e dal Fondo So­ciale Europeo, a favore di un gruppo di novanta giovani con handicaps di tipo psichico per favo­rirne la preparazione professionale e l'inseri­mento lavorativo. Esso si caratterizza per il fat­to che supera il concetto di preparazione profes­sionale come momento precedente ed isolato ri­spetto al rapporto con il mondo del lavoro, e so­prattutto, perché afferma la priorità della socia­lizzazione rispetto all'apprendimento, ponendo quest'ultimo come conseguenza della prima, e non viceversa, come sempre si era prospettato. È fondamentale infatti, nel progetto, la convin­zione che ogni forma di apprendimento e quindi anche di attività lavorativa, non può avvenire in modo corretto se non a contatto strettissimo con la realtà, con le motivazioni, le difficoltà, le gratificazioni e le frustrazioni che da essa pos­sono derivare, al di fuori di situazioni irreali ed artificiose, sia per il tipo di rapporto interper­sonale che per le attività svolte, che si creava­no nelle strutture speciali.

Su questa linea viene progressivamente a per­dere significato ogni distinzione fra momento preparatorio al lavoro ed attività lavorativa vera e propria, diventando il lavoro e la vita comuni­taria in generale così per il soggetto definito handicappato come per quello definito normale, occasioni di momenti successivi di maturazio­ne e di raggiungimento di ulteriori e più avan­zati obbiettivi, la cui entità ed importanza sono, è vero, estremamente diversi, ma non tanto e non solo fra handicappati, quanto fra individuo ed individuo.

Gli strumenti a nostra disposizione sono es­senzialmente un sufficiente numero di operatori e la possibilità, per un massimo di due anni, di assumere e retribuire i giovani, sia pure in mo­do tutt'ora insufficiente, da parte dell'Ammini­strazione provinciale, inviandoli presso le azien­de, pubbliche o private, per un periodo di reci­proca preparazione e conoscenza. Con questo piano, ci prefiggiamo di costruire le migliori con­dizioni affinché i giovani possano trovare una collocazione lavorativa idonea, dignitosa, accet­tata dall'individuo e dalla collettività, con parità di diritti e dignità umana come tutti gli altri cittadini.

Da questo punto di vista è stato inevitabile anche un netto cambiamento di obbiettivo: non è più il momento tecnico quello della riabilita­zione vera, e non sono più i tecnici i -protagoni­sti, ma la collettività nel suo complesso: non la collettività in astratto, il che ridurrebbe il prin­cipio a pura enunciazione, ma i singoli cittadini, gli operai, gli studenti, ecc. intesi non come por­tatori di una capacità tecnica riabilitativa, ma­gari appresa dagli specialisti, ma come parteci­pi attivi di rapporti umani, di attività e di mo­menti comunitari da cui gli emarginati, con qua­lunque etichetta, possono trarre stimoli ed espe­rienze per « vivere nella comunità », il che si­gnifica realmente riabilitazione.

Con ciò non vogliamo ovviamente dire che la comunità offra, sempre e comunque, possibilità di vivere bene e senza problemi, tutt'altro. Rite­niamo però che tutti possano e debbano vivere, giorno per giorno, le contraddizioni e le difficol­tà che caratterizzano la nostra civiltà, senza che, per questa o quella ragione, si debbano creare barriere o isole d'oro (che spesso sono d'oro solo per chi le gestisce) in cui far vivere «i di­versi», che diventeranno così sempre più diversi.

Per arrivare a ciò, è stato necessario dare al nostro lavoro una impostazione del tutto diversa da quella di un centro di avviamento professio­nale tradizionale, trasferendo buona parte della nostra attenzione dai giovani allo studio dell'am­biente lavorativo e sociale, alla ricerca di un coinvolgimento globale della comunità per il re­perimento di soluzioni e di una presa di coscien­za del problema da parte del mondo del lavoro.

Diverso da quello tradizionale, è stato anche il nostro modo di operare: nuovo però rispetto a quello di un servizio tradizionale, non rispetto a quello da noi adottato in precedenza per af­frontare problemi delle altre forme di segrega­zione (istituti, scuole speciali, ecc.).

È stato effettuato un intervento capillare di sensibilizzazione e d'informazione che si è ri­volto specificamente ai lavoratori in assemblee di fabbrica, in incontri con consigli di fabbrica, singolarmente o in gruppi di quartiere, in incon­tri con gruppi specifici di lavoro, allo scopo di proporre da un lato la problematica degli han­dicappati, dall'altro di conoscere, insieme ai la­voratori, le precise condizioni di vita all'interno dell'azienda, per trovare insieme i luoghi e le collocazioni più idonee.

Parallelamente sono stati tenuti incontri e contatti con i consorzi socio-sanitari, le ammi­nistrazioni comunali, i consigli di quartiere, nel­la ricerca di una collaborazione ed unitarietà d'indirizzi con tutte le forze sociali.

È necessario qui indicare l'ampiezza dell'in­tervento da noi compiuto e dei suoi aspetti di consolidato culturale e pragmatico e non di spe­rimentalità. Si corre infatti spesso il rischio, nel caso di tentativi sperimentali, di restringere gli interventi a pochi «privilegiati», indicando o trovando soluzioni magari ottimali ed auspicabi­li per tutti, ma non concretamente proponibili a livello di interventi di massa nel territorio per tutta una serie di cause quali i costi, l'eteroge­neità dei bisogni, il contesto socio-culturale non adeguatamente preparato, ecc.

Ciò che significa inevitabilmente il fallimen­to o la cristallizzazione dell'esperienza. Nel no­stro caso riteniamo che questo rischio, pur pre­sente, sia stato in buona parte superato: i gio­vani inseriti al lavoro, nel complesso, sono ai giugno 1977 oltre 150, di cui oltre 100 nel solo periodo giugno 1975-giugno 1977; hanno un'età compresa fra i 15 e i 30 anni, con netta preva­lenza al di sotto dei 24 (90% dei casi); risiedo­no nei territori dei quattro consorzi socio-sani­tari della Provincia di Parma, anche se vi è tut­tora una sproporzione fra consorzio di Parma (90 inseriti) e gli altri consorzi: ciò va attribui­to sia al fatto che il consorzio Bassa Est com­prende da solo circa la metà della popolazione della Provincia, sia al notevole innalzamento dell'età media della popolazione dei consorzi di montagna, sia a difficoltà nostre di conoscenza dei casi e di reperimento di posti di lavoro in zone di per sé povere e poco (o niente) indu­strializzate.

L'intervento del piano CEE ha interessato quel­le persone più particolarmente compromesse sul piano prestazionale, che sarebbero divenute ine­vitabilmente gli ospiti predestinati di corsi di avviamento professionale speciale o di centri di riabilitazione per handicappati. Per tutta una se­rie di persone che si sono rivolte a noi e che non presentavano handicaps reali, invece, i no­stri interventi sono stati molto cauti, indirizzati soprattutto a favorire l'utilizzazione dei normali canali di avviamento al lavoro e ad evitare in ogni modo ogni forma di stigmatizzazione.

Va detto tuttavia che, per alcuni casi, il cui handicap era chiaramente di natura sociale, ab­biamo dovuto intervenire col piano CEE a causa dell'urgenza e gravità della situazione.

Considerato che le valutazioni sulla gravità dei casi possono essere estremamente difformi e soggettive, riporteremo le diagnosi che sono state effettuate sui giovani inseriti col piano CEE: si tratta prevalentemente di epilettici, ce­rebropatici e mongoloidi oltre a disadattati, uno psicotico e 23 insufficienti mentali medio-gravi da cause imprecisate o varie.

Riferiamo con molte incertezze questi dati perché ci riportano a schemi medici che trovano scarso riscontro o utilità nella nostra pratica ope­rativa ed anche perché siamo ormai abituati a non parlare più, sempre nell'ambito operativo, di malattie o malati, ma di soggetti. Pensiamo però doveroso riportarli sia per far uscire dal vago una descrizione che potrebbe apparire di parte, sia per dare un'idea dell'eterogeneità an­che clinica dei soggetti, e per chiarire quindi che non è, la nostra, un'esperienza settoriale, ma strettamente legata ai bisogni di una vastis­sima categoria di persone.

Per questi giovani i risultati sono buoni nel 75% dei casi, negativi o discutibili negli altri ca­si. Questa affermazione deve però essere chiarita alla luce di parametri di valutazione da noi adot­tati che possono, senza dubbio, essere diversi da quelli di altri. Da parte nostra si è ritenuto di dover valutare innanzi tutto l'accettazione dell'ambiente di lavoro da parte del ragazzo e, re­ciprocamente, quella del ragazzo da parte dei la­voratori, con la loro partecipazione alla gestione delle problematiche emergenti. Parallelamente abbiamo dato rilievo all'acquisizione di capacità di vita di relazione e, solo collateralmente, all'acquisizione di capacità lavorative e produttive ed alla possibilità di un'assunzione regolare da parte del datore di lavoro.

È chiaro che dall'analisi dell'andamento dell'intervento, proprio in considerazione dei para­metri adottati, risulta una critica non tanto del giovane e dei suoi handicaps, quanto delle ca­pacità di trovare soluzioni adatte e realmente coinvolgenti. Ciò anche in considerazione dell'atteggiamento, se vogliamo pessimistico, co­mune al nostro lavoro, che ci vede impegnati alla ricerca di una soluzione non tanto per la riabi­litazione, intesa in senso tradizionale, del sog­getto, quanto per la vita del soggetto stesso, indipendentemente dalle possibilità di riabilita­zione, o meglio, per una forma di riabilitazione che non sia quella, fino ad ora definita scientifi­ca, spesso fine a se stessa, fatta per tentativi di normalizzazione ad ogni costo, bensì quella di un adattamento reciproco ambiente sociale­-soggetto, per una vita «normale» anche per il soggetto handicappato o presunto tale.

Rifiutiamo ogni forma di intervento che, con la scusa di riabilitazioni tecniche, emargini gli individui in attesa di miglioramenti astratti o fine a se stessi: riteniamo che, quantomeno, debba essere evitato ogni ulteriore danno che questo tipo di scelta comporta. Siamo convinti che l'obiettivo della riabilitazione sia, innanzi tutto, quello di favorire ogni possibilità di vita nella comunità, nel modo più autonomo, e ciò non può ottenersi in altro modo che vivendo nel­la comunità stessa.

L'inserimento nel mondo del lavoro ha questo fine, non quello della produttività o quello del «lavoro che da solo riabilita»; la presenza in fabbrica ha come scopo quindi principalmente l'esperienza di vita comunitaria, e la riabilita­zione che cerchiamo va in questo senso.

Ogni altro tentativo di riabilitazione, anche tecnico, ci pare giustificato solo se salvaguar­da questi principi fondamentali. I casi che rite­niamo abbiano avuto esito positivo, sono quindi quelli in cui i giovani hanno trovato un'occupa­zione soddisfacente per loro e condizioni di ac­cettazione buone.

Un altro dei grossi problemi che ci si sono posti è stato quello della concreta possibilità di effettuare l'avviamento al lavoro senza un precedente passaggio in centri di avviamento professionale per handicappati. In realtà tali centri, là dove esistono, rappresentano e lo han­no rappresentato anche a Parma, finché ci sono stati, un grosso rischio, sia perché non riesco­no ad esaudire alla loro funzione di formazione professionale, sia perché finiscono per diventare soluzioni comode e tranquillizzanti per tutti. In sostanza rischiano di diventare aree di par­cheggio, in attesa di soluzioni più idonee che l'esistenza stessa del centro rende meno urgen­te realizzare.

Per contro, si dice, essi possono rappresentare il momento fondamentale per la conoscenza del soggetto e per una migliore collocazione all'e­sterno. Ciò ci pare, per molti aspetti, discutibi­le: non crediamo che la conoscenza di una per­sona all'interno di un servizio, di per sé emar­ginato ed al di fuori della realtà sociale, si pos­sa effettuare in modo corretto e, d'altra parte, l'attitudine lavorativa non può essere verificata in astratto ma solo con l'esperienza concreta, in rapporto non solo alle capacità individuali ma anche, e soprattutto, alle condizioni oggettive dello specifico ambiente e dei compagni di la­voro.

Mentre quindi va ribadita l'impossibilità di pre­determinare aprioristicamente gli indirizzi in campo lavorativo per specifiche categorie di per­sone, riteniamo che molto spesso anche a livel­lo individuale la scelta, in mancanza di indica­zioni spontaneamente date dal soggetto, sia da affidare alla sperimentazione ed alla disponibili­tà territoriale.

Questa nostra convinzione è stata suffragata da numerosi dati statistici relativi agli anni di attività che, sia pure indirettamente ci permet­tono di verificare se il tipo di lavoro da noi indi­cato ai giovani è stato accettato ed accettante: ci riferiamo all'assiduità di frequenza al cambia­mento del posto di lavoro ed alla presenza di infortuni sul lavoro. La frequenza al lavoro è sta­ta costante, cioè con meno di 5 assenze al mese, nell'80% dei casi, il che è particolarmente si­gnificativo anche in considerazione del fatto che ai giovani è data la massima autonomia e che, al momento attuale, dopo un intenso lavoro teso all'acquisizione dell'autonomia, solo in 6 casi il trasporto sul luogo del lavoro viene effettuato da noi, mentre gli altri provvedono attualmente in modo autonomo.

Nell'80% dei casi, la prima collocazione lavo­rativa è diventata definitiva nel primo anno; in 13 casi il primo collocamento è fallita, ma il se­condo è stato definitivo; solo due giovani hanno cambiato più di due posti di lavoro.

Per quanto riguarda gl'infortuni, premesso che in tutti questi anni, dal 1967 in poi, non si sono mai verificati incidenti di rilievo, negli anni '75­'-77, su un totale di oltre 150 ragazzi collocati al lavoro, abbiamo avuto 7 infortuni lievi, nessuno dei quali ha comportato ricoveri in ospedale o periodi di riposo superiori ai 10 giorni. Si è trat­tato quindi d'incidenti banalissimi e minimi. Il fatto che i giovani frequentino regolarmente e spontaneamente il lavoro, che non abbiano, nel­la stragrande maggioranza dei casi, cambiato la­voro, e che non si siano verificati infortuni con incidenza significativa, ci tranquillizza circa la positività dei risultati fino al momento attuale. Ma si tratta ancora in molti casi di un colloca­mento parziale, protetto, e quindi per qualche aspetto emarginante, in vista di una collocazio­ne regolare nel posto di lavoro.

Se prendiamo in considerazione la possibilità di una soluzione più corretta, come quella della assunzione regolare da parte dell'azienda, che è l'obiettivo finale del nostro lavoro, osserviamo che degli oltre 100 giovani per i quali siamo in­tervenuti negli ultimi due anni, 38 sano stati as­sunti regolarmente, mentre per gli altri, secon­do un'indagine condotta dai nostri operatori pres­so i datori di lavoro, vi sono le seguenti proba­bilità di assunzione definitiva: per il 50% buo­ne, per il 17% nessuna, incerte per il 33%. Ciò riguarda le attuali sistemazioni lavorative, ma riteniamo che le percentuali possano migliora­re sia per una più incisiva azione sindacale, che con una maturazione collettiva del problema.

I giovani sono stati inseriti in ogni settore dell'attività lavorativa, senza pregiudiziali legate al tipo di handicap, ma verificando con i lavoratori (sindacati, consigli di fabbrica e assemblee di lavoratori) le condizioni più idonee e di minor pericolosità per ogni singolo caso.

La maggior parte di inserimenti è stata effet­tuata nell'ambito dell'industria, e in particolare nel settore metalmeccanico, ma molti sono stati effettuati in attività artigianali, nel terziario, in enti pubblici, ecc., in una gamma che ha coin­volto praticamente ogni attività; negli ultimi tem­pi le nostre scelte si sono particolarmente indi­rizzate verso la media e grande industria, sia per le minori difficoltà di ordine economico che tale settore oppone, sia per una migliore garan­zia di corretta gestione del caso da parte di con­sigli di fabbrica senza dubbio più forti.

Da segnalare un ultimo dato: all'atto dell'ini­zio della discussione coi lavoratori delle azien­de, quasi la metà di essi non conoscevano le esperienze in atto a Parma: questo rilievo mi pare molto significativo, perché ci dà la misura della scarsa penetrazione di certe informazioni a livello dell'opinione pubblica e di quanto deve essere capillare lo sforzo degli operatori per creare una coscienza collettiva del problema. Ciò, nonostante che negli ultimi tempi i contrat­ti nazionali di numerose categorie di lavoratori abbiano incluso, fra i vari punti delle loro piat­taforme, anche l'inserimento degli handicappati e che, particolarmente nella nostra città, i primi inserimenti siano stati effettuati da tempo e che sull'argomento si sia fatta un'ampia opera di sensibilizzazione.

Va detto tuttavia che l'argomento è entrato re­centemente nell'ambito delle contrattazioni per il rinnovo di numerosi contratti aziendali, a con­ferma della presa di coscienza del problema da parte di un numero sempre maggiore di cittadi­ni e lavoratori.

Mancano in questa serie di dati statistici, le cifre relative all'acquisizione di capacità lavo­rative e produttive: è una mancanza voluta, da un lato perché i dati, dopo solo due anni di espe­rienza, non possono essere significativi; dall'al­tro perché, tutto sommato, l'aspetto produttivo è, per noi, solo conseguenza, non premessa, di un buon inserimento.

Esiste comunque il dato, importante, riguar­dante gli inserimenti di 'più vecchia data, al di fuori del piano CEE, dove vi è stata una buona riuscita professionale (sia pure in termini a vol­te relativi) con l'acquisizione di capacità profes­sionali veramente buone.

Tuttavia il piano CEE, se rappresenta una real­tà importante perché ci ha permesso di compie­re, in una realtà economica di recessione grave, un grande numero d'inserimenti di persone a cui non chiedevamo a priori di essere produttive, e se ci ha permesso di far conoscere il problema ai sindacati, ai lavoratori, alla comunità, risco­prendo valori di solidarietà e partecipazione ve­ramente imprevedibili (il che rappresenta la mi­gliore garanzia di prevenzione di ogni futura forma di emarginazione), rappresenta però an­che un elemento di rischio e di discriminazione introducendo in fabbrica un operaio atipico, as­sunto da un Ente pubblico, pagato meno degli altri, per qualche aspetto già etichettato.

Ciò che ci tranquillizza è, ancora una volta, il fatto che, quando il giovane s'inserisce nel la­voro, diventa sempre di più non un handicappato da curare da parte dei tecnici, ma un lavoratore, con i diritti di tutti: la presenza costante dei sin­dacati, dei consigli di fabbrica e dei compagni di lavoro garantiscono che essi siano rispettati.

In fondo, a voler essere semplicistici, il pro­blema è tutto qui, nella tutela, da parte di tutta la comunità, dei diritti di tutti, e nella corretta e democratica gestione anche delle terapie tec­niche.

Molto però rimane da fare, in primo luogo per un coinvolgimento vero di tutte le forze sociali e politiche, non sempre del tutto partecipi ed attive, affinché molti assensi fino ad oggi pura­mente formali, diventino impegno operativo rea­le. Un grosso sforzo deve essere ricercato da parte di tutta la collettività, perché, al momento dell'inserimento al lavoro, segua anche una con­creta ed aperta accettazione in tutti gli altri mo­menti della vita, per evitare che, come consta­tiamo spesso, il tempo libero diventi quello della solitudine e dell'isolamento.

Molto deve essere fatto per altre categorie di persone, ad esempio per i non vedenti, i sordo­muti, i motulesi, che ancor oggi sono esclusi o si trovano davanti destini precostituiti e vinco­lati. In questo settore ci si sta muovendo, sia pure con cautela, date le difficoltà dei problemi per predisporre tutte le occasioni di partecipa­zione ai normali corsi di avviamento professio­nale e per studiare nuove possibilità di colloca­mento al lavoro.

In questa ottica vorrei apertamente affermare che l'essere riusciti, con i finanziamenti del pia­no CEE, a collocare un certo numero di giovani definiti handicappati psichici non significa per noi che sono necessari per il futuro leggi spe­ciali o la creazione di una nuova, più protetta, categoria d'invalidi.

Certe condizioni culturali, politiche e sociali hanno reso necessari, fino ad ora, interventi di questo tipo, ma per il futuro la soluzione di que­sti problemi può e deve essere vista solo in un ambito che garantisca a tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro condizioni, il dirit­to ad una vita e ad un lavoro almeno dignitosi, senza stigmatizzazioni o artificiose classifica­zioni.

 

 

 

(1) Articolo tratto dalla relazione presentata dall'Autore al Convegno di Parma del 16-18 dicembre 1976 su «Lotta all'emarginazione e risposta del mondo del lavoro».

 

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