Prospettive assistenziali, n. 42, aprile-giugno
1978
GIUDICI MINORILI -
DPR 616 E PROPOSTE DI LEGGE SULL'ADOZIONE SPECIALE E ORDINARIA, AFFILIAZIONE E AFFIDAMENTI
A
dieci anni dall'approvazione della legge n. 431, stampa di informazione,
convegni, dibattiti hanno affrontato il problema dell'adozione per cercare di
esaminarlo anche nella nuova ottica del trasferimento alle Regioni e agli Enti
locali delle competenze dell'assistenza.
Nell'esigenza
di essere in possesso di precise informazioni
sull'argomento,
Prospettive assistenziali ha posto ai
giudici dei Tribunali per i minorenni le seguenti quattro domande:
1)
quando venne approvata la legge 5-6-1967, n. 431, si
disse che era stata compiuta una rivoluzione copernicana poiché il bambino,
che nell'adozione ordinaria era ed è uno strumento, veniva posto al centro del
nuovo istituto dell'adozione speciale. Ciò premesso, qual è stata in sintesi
l'esperienza positiva e negativa dei primi dieci anni
di applicazione della legge n. 431?
2)
che valutazione dà alle recenti proposte di legge presentate dalla DC e dal PCI
e concernenti l'adozione speciale e ordinaria, l'affiliazione e l'affidamento
di minori a scopo educativo?
3)
il D.P.R. 616 stabilisce il passaggio alle Regioni
(aspetti legislativi), ai Comuni (attribuzioni amministrative) e alle Unità
locali (gestione) di praticamente tutte le competenze assistenziali. Come si inserisce tale trasferimento nell'attività finora svolta
dal Tribunale per i minorenni, dalla Regione, dai Comuni e dalle Unità locali
del territorio di competenza del suo Tribunale per i minorenni?
4)
quali servizi preventivi e di assistenza alternativa
sono stati predisposti e attuati dagli enti di cui sopra?
*
* *
Pubblichiamo
le risposte che per ora ci sono state inviate da: Alfredo Carlo Moro,
Presidente del Tribunale per i minorenni del Lazio; Giorgio Battistacci,
Presidente del Tribunale per i minorenni dell'Umbria;
Ignazio Baviera, Presidente del Tribunale per i minorenni di Palermo; Francesco
Marzano, Presidente del Tribunale per i minorenni di
Campobasso; Franco Occhiogrosso, Giudice del
Tribunale per i minorenni di Bari; Camillo Losana,
Giudice del Tribunale per i minorenni di Torino.
INTERVENTO DI ALFREDO CARLO MORO (*)
(*) Presidente del
Tribunale per i minorenni del Lazio.
Non è facile rispondere alle quattro
domande che sono state rivolte nel limitato spazio che necessariamente ci può
essere concesso: ogni problema sollevato richiederebbe
infatti una ampia trattazione. Cercherò comunque
di esprimere - sia pure in modo troppo sintetico, e quindi superficiale - il
mio pensiero.
1) Questi dieci anni di applicazione della legge sulla adozione speciale
consentono di formulare un bilancio che, tutto sommato, può ritenersi
largamente positivo. Certo la legge non ha risolto
totalmente i problemi dell'infanzia abbandonata: ma era una illusione il
ritenere che il nuovo istituto potesse da solo ridonare a tutti i bambini di
famiglie in difficoltà quel sereno e sicurizzante
clima familiare di cui hanno bisogno per sviluppare armonicamente la propria
personalità e per realizzare un regolare processo di socializzazione. Direi
anche che l'esperienza della legge sulla adozione
speciale dovrebbe renderci estremamente guardinghi nel mitizzare come risolutivi
singoli strumenti giuridici (penso per esempio a certe messianiche speranze nei
confronti dell'istituto dell'affidamento familiare): il problema dell'infanzia
in difficoltà deve risolversi principalmente con un intervento che elimini a
monte le situazioni di carenza materiale o pedagogica o psicologica della
famiglia di origine, che deve essere dai servizi - e più in generale dalla
ricostituzione di una adeguata qualità di vita - aiutata a svolgere il suo
ruolo e la sua funzione.
Pur ridimensionata nelle finalità,
la legge sulla adozione speciale ha avuto un benefico
risultato nel nostro ordinamento e nel nostro costume: per la prima volta
l'ordinamento giuridico ha riconosciuto che il minore è una «persona umana»,
titolare di precisi diritti, e non solo una «speranza di uomo» il cui interesse
alla crescita umana è affidato alla benevolenza degli adulti; che il minore
non è in proprietà dei genitori che ne possono fare ciò che vogliono ma che il
diritto dei genitori ad educare i propri figli sussiste solo nella misura in
cui essi sappiano adempiere ai doveri educativi; che il minore ha un diritto
alla famiglia perché solo in essa può trovare quel caldo affetto sicurizzante e quella ricchezza di rapporti interpersonali
che sono indispensabili alla sua crescita umana; che la funzione educativa non
è delegabile a terzi; che la famiglia legittima non può essere una famiglia
chiusa, arroccata nella difesa dei propri privilegi, ma può e deve essere una
famiglia aperta pronta ad esprimere la sua solidarietà sociale nei confronti
di coloro che sono privi di questo indispensabile sostegno e della conseguente
ricchezza umana. Sono questi principi - introdotti nell'ordinamento con la
legge del 1967 - che sono stati poi sviluppati in altri campi del diritto,
principalmente attraverso la riforma del diritto di famiglia; quest'ultima riforma
in molte norme riguardanti i minori non si sarebbe
potuta realizzare se la legge sulla adozione speciale non avesse dimostrato
che i paventati n guasti » non si erano verificati e che anzi, senza danni di
terzi, i diritti del minore potevano essere più adeguatamente tutelati.
La legge ha anche avuto un benefico
effetto sul costume: è essa che ha evidenziato la dannosità personale e sociale
della istituzionalizzazione del minore; è essa che ha
imposto un serio tentativo di recupero della famiglia di origine ed ha
conseguentemente messo in crisi una politica assistenziale basata sulla
espropriazione del minore dalla propria famiglia; è essa che ha evidenziato
l'assurdità della massicciamente presente deportazione assistenziale; è essa
che ha pesantemente condannato quel tristo fenomeno del mercato dei bambini
sempre presente nel nostro paese ed ha evidenziato che il minore non è un
prodotto di consumo per risolvere le nevrosi della solitudine di coppia ma una
persona che deve essere sempre rispettata nel suo autonomo valore.
Il fatto che - a dieci anni di
distanza dall'entrata in vigore dell'istituto dell'adozione speciale - non
sempre le strutture assistenziali abbiano saputo
effettuare quella riconversione che era indispensabile per attuare pienamente i
principi affermati nella legge; che la cultura corrente non abbia ancora
pienamente recepito il principio che il diritto del bambino deve prevalere
sugli interessi degli adulti; che - anche per una miope politica di alcuni
organi giudiziari e per il groviglio di interessi degli adulti - il fenomeno
del mercato dei bambini non sia stato eliminato; che molti genitori siano
riusciti - per le insufficienze dell'intervento assistenziale - a
contrabbandare per impossibilità economica di curare i figli il loro reale
disinteresse per essi; tutto ciò non intacca la positività della legge ma pone
in evidenza solo quanto sia lungo e difficile il cammino che deve essere
percorso nella vita sociale per fare anche del minore un cittadino avente pienezza
di diritti.
2) L'esperienza di questi dieci anni
consiglia va una riforma della legge sulle adozioni speciali per renderla più
idonea a svolgere il suo compito. Era necessario che fosse reso più incisivo
lo strumento affidato al giudice di recupero della famiglia di
origine coinvolgendo più direttamente i servizi assistenziali in questo
compito; che fossero predisposti strumenti per stroncare il «mercato dei
bambini» che va progressivamente sempre più sviluppandosi; che fosse superato
il limite troppo angusto degli otto anni per la dichiarazione di adottabilità,
anche perché tale limite porta a drammatiche differenze di trattamento nei
confronti di fratelli che si trovano nella medesima situazione; che fosse resa
assai più agile la procedura prevista perché essa troppo spesso condanna i
minori ad una lunga istituzionalizzazione prima dell'affidamento; che fosse
reso meno lungo il periodo di affidamento preadottivo
specie quando la famiglia adottiva ha già figli propri; che fossero eliminati
alcuni istituti concorrenziali con l'adozione speciale che non appaiono
rispettosi dei fondamentali diritti dei minori e che vengono spesso utilizzati
per eludere le norme che a tutela del minore pone la legge n. 431.
Mi sembra che la proposta di legge
della D.C. risponda molto meglio a queste esigenze, anche se alcuni ritocchi
possono essere utilmente apportati al progetto; la proposta del P.C.I. invece
mi sembra obiettivamente privilegiare - certo al di là
delle intenzioni - gli interessi degli adulti su quelli dei minori, quando
praticamente consente la «caccia al bambino» nel momento in cui riconosce un
diritto prioritario a chi comunque sia riuscito a creare un qualsiasi rapporto
con lui, quando riconosce legittimità a istituti ormai superati come quello della
adozione ordinaria, quando mantiene quel residuato storico che è l'affiliazione
in cui il bambino viene ad essere espropriato dal suo ambiente familiare senza
neppure ottenere uno status familiare e diritti al mantenimento del rapporto
che si è iniziato con gli affilianti, quando non pone una qualsiasi disciplina
tendente a stroncare il fenomeno del mercato dei bambini, quando consente
l'adozione a persone molto avanti nell'età e quindi non in grado di svolgere
il proprio compito educativo ma solo desiderose di ottenere un conforto alla
loro vecchiaia. Né appaiono convincenti le norme procedurali che anziché rendere
più agile la procedura la inceppano notevolmente allungando i tempi di affidamento ed aumentando i tempi di permanenza in
istituto (si pensi alla norma che impedisce la dichiarazione di adottabilità
del minore non riconosciuto nei primi due mesi dalla nascita, la contemporanea
segnalazione al giudice tutelare e al tribunale per i minorenni che può portare
a interventi conflittuali e quindi a ritardi, la norma che impone al collegio
prima dell'affidamento di sentire tutti gli aspiranti all'adozione che lo
vogliono - e alcune volte sono migliaia -; la norma che impone di ricercare
anche i parenti che non si sono mai occupati del minore perfino sconoscendone
l'esistenza; la norma che impone l'udienza di trattazione anche se il genitore
sia scomparso e nessuno voglia occuparsi del minore; la norma che consente
plurime e continue istanze di revoca rendendo impossibile durante
l'affidamento la pronuncia dell'adozione e consentendo agevolmente ai genitori
di conoscere a chi sia stato affidato il minore e di poter svolgere varie azioni
di grave disturbo e così via).
3) In ordine al
tema del passaggio agli Enti locali dell'intervento assistenziale deve riconoscersi
che la situazione è tutt'altro che tranquillante. E
questo non solo o non tanto perché non sono stati predisposti ancora servizi
indispensabili ad operare in questo settore, quanto perché principalmente si
avverte un ritardo culturale a recepire questi
problemi. Vi è il concreto pericolo o che si
trasferiscano, e male, in sede decentrata gli stessi identici servizi che già
esistevano - perpetuandone le caratteristiche di burocraticismo,
di clientelismo, di settorialismo, di insufficiente attenzione ai bisogni
dell'utente, di intervento più riparativo che
preventivo - o che, per mutare, ci si lasci travolgere da massimalismi e
velleitarismi che rischiano di lasciare il minore completamente in balia di se
stesso, rifiutandogli quell'aiuto di cui non ha solo bisogno ma a cui ha anche
diritto. E vi è conseguentemente il pericolo che - di fronte a risposte del
tutto carenti da parte degli Enti locali - si tornino
a privilegiare le tradizionali risposte segreganti e repressive.
INTERVENTO DI GIORGIO BATTISTACCI (*)
(*) Presidente del
Tribunale per i minorenni dell'Umbria.
1) L'introduzione della legge
sull'adozione speciale ha contribuito innegabilmente a valutare gli interessi,
i diritti e la personalità dei minori in maniera diversa dal passato. Anche in
forza di tale legge si è avviata la elaborazione da
parte della dottrina e della giurisprudenza di un diritto del minore alla
educazione con riferimento ai principi costituzionali e, in particolare,
all'art. 30 della Costituzione. Si è cominciata altresì ad avviare una
maggiore consapevolezza che gli adulti (genitori, insegnanti, educatori in
genere, operatori sociali, ecc.) devono operare per promuovere l'educazione e
lo sviluppo della personalità dei minori, cioè devono,
in certo modo porsi al servizio del minore.
Anche per quanto riguarda l'azione
dei giudici minorili, la legge sull'adozione speciale ha contribuito a
sviluppare un orientamento, già manifestatosi da qualche anno, per cui i giudici devono porsi come garanti del diritto
alla educazione dei minori e quindi devono operare, attraverso i loro
interventi e provvedimenti, nel senso di tutelare e promuovere la loro
educazione e lo sviluppo della loro personalità.
Non può però certamente affermarsi
che tali orientamenti siano prevalenti in quanto è ancora mancante una presa di coscienza collettiva da parte degli adulti per
quanto attiene il rispetto al minore e il loro dovere di operare per la promozione
della loro personalità e della loro educazione. Si assiste ancora ad una serie
di atteggiamenti nell'ambito della famiglia, della
scuola, dei servizi e anche della magistratura minorile che appaiono poco
rispettosi della personalità e dei diritti del minore e sono rivolti piuttosto
ad imporre ai minori moduli culturali, scelte di vita, atteggiamenti più
rispondenti agli interessi e alle visioni degli adulti che a quelli dei minori.
In particolare, per quanto attiene l'applicazione della legge sull'adozione
speciale, anche se l'esperienza fatta in generale e nel distretto della
Regione Umbra è stata positiva in quanto molti minori,
attraverso l'adozione, hanno avuto assicurato un ambiente carico di affetti e
valido sul piano educativo che ha evitato loro carenze ulteriori e magari
l'avvio verso forme di irregolarità e di disadattamento, non può negarsi che si
siano incontrate notevoli difficoltà.
In particolare da parte
dell'opinione corrente e anche all'interno della magistratura, soprattutto a
livello delle Sezioni minorenni delle Corti di
appello, si è continuato a dare eccessivo rilievo ai legami del sangue e si è
posto a volte più l'accento sui diritti e gli interessi dei genitori naturali
che su quelli del minore. A volte è stato ritenuto che la stessa opposizione proposta avverso il decreto di adottabilità
fosse sufficiente a dimostrare l'interesse dei genitori naturali nei
confronti del figlio, trascurando tutte le carenze precedenti dei genitori che
avevano fatto vivere al minore uno stato di abbandono. Inoltre sul piano degli
affidamenti adottivi, a volte, si è guardato più all'interesse della coppia
adottiva che a quello del minore, trascurando di guardare con atteggiamento
critico a richieste nominative e a orientamenti
espressi dalle coppie adottive in ordine a preferenze dei minori da accogliere
in affidamento.
Fortunatamente nella Regione Umbra
non si sono verificati casi di minori affidati da genitori naturali a coppie
che hanno poi richiesto l'adozione speciale, per cui
tutti gli affidamenti e le successive adozioni sono avvenuti tramite il Tribunale
per i minorenni. Va però anche sottolineato che forse la legge sull'adozione
speciale è stata caricata di eccessive aspettative,
nel senso che si è ritenuto che attraverso di essa potesse ovviarsi in
maniera totale o almeno massiccia alla istituzionalizzazione dei minori e ad
assicurare ad essi un idoneo ambiente familiare.
Invece si è rilevato che in molti
casi non poteva ravvisarsi nella
istituzionalizzazione di per sé una situazione di vero e proprio abbandono del
minore in quanto il ricovero del minore in istituto non poteva farsi risalire
in via esclusiva al comportamento e agli atteggiamenti dei genitori naturali.
È noto, infatti, come spesso la istituzionalizzazione
sia la conseguenza delle carenze del sistema assistenziale, nonché delle altre
carenze più generali sul piano della occupazione, della mancanza di alloggi e
dello sviluppo economico del paese. In certi casi un intervento sul piano
dell'adozione speciale, con la conseguente rottura del rapporto fra figli e genitori
naturali, avrebbe significato un'ulteriore
emarginazione e colpevolizzazione di famiglie, le cui
carenze dovevano invece farsi risalire a responsabilità che non erano le loro.
Pertanto appare sempre più evidente la necessità di operare,
prima di pensare a interventi sul piano dell'adozione speciale, per sostenere
le famiglie di origine e per aiutare le stesse a risolvere quei problemi che
sono la causa del loro scarso interesse e del loro ridotto impegno nei
riguardi dei figli.
2) Dopo
dieci anni dal l'introduzione della legge sull'adozione speciale, sono apparse
evidenti anche alcune carenze della stessa sul piano
normativo e applicativo per cui può apparire opportuna una riforma della
legge stessa, sia pur limitata ad alcuni aspetti. In questo senso sono da
salutare con favore le proposte di legge presentate dalla D.C. e dal P.C.I.
concernenti l'adozione speciale e ordinaria, l'affiliazione, e l'affidamento
dei minori, anche se esse appaiono a volte andare al di là
di una semplice riforma di alcune norme della legge sull'adozione
speciale.
In particolare la riforma della
normativa, alla luce dell'esperienza compiuta in questi anni, dovrebbe
riguardare i seguenti aspetti che generalmente sono presi in esame dalle due
proposte di legge suindicate: l'elevazione dell'età
per l'applicazione della legge sull'adozione speciale da otto a diciotto anni,
l'abolizione dell'istituto della affiliazione, la
riduzione dello spazio di applicazione della legge sull'adozione ordinaria che
dovrebbe essere limitato ai soli casi nei quali non è possibile procedere
all'adozione speciale, la presa in considerazione della forza maggiore
giustificativa della mancata assistenza del minore solo quando questa sia di
carattere temporaneo, una semplificazione della procedura per giungere alla
pronuncia dello stato di adottabilità (modifica
dell'art. 314/9 C.C. con eliminazione della pubblicazione dell'avviso di
ricerca dei genitori e dei parenti sui giornali; procedimento di opposizione
allo stato di adottabilità in camera di consiglio ecc.); previsione della ricorribilità della sentenza che rigetta l'opposizione
allo stato di adottabilità solo per Cassazione; previsione di una normativa
rivolta ad impedire gli affidamenti da parte dei genitori naturali fuori dal
controllo del Tribunale per i minorenni anche con sanzioni di natura penale;
revisione della normativa in materia di atti dello stato civile per quanta
riguarda i minori adottati, onde evitare possibili ricerche da parte dei
genitori naturali e la individuazione da parte loro dell'inserimento adottivo
del figlio.
Le proposte di legge sopra ricordate
si prestano però ad alcune, anche rilevanti osservazioni
critiche.
Innanzitutto nella proposta di legge del P.C.I.
è stato conservato l'istituto della affiliazione e è stato conservato un largo
spazio a quello dell'adozione ordinaria, istituti che potrebbero servire a
facilitare gli affidamenti di minori da parte dei genitori naturali senza il
necessario controllo dei Tribunali per i minorenni. L'istituto dell'affiliazione
in particolare sembra del tutto esaurito di fronte alla legge dell'adozione
speciale e alla pratica degli affidamenti a scopo educativo e rispondente ad
un'ottica assistenziale del tutto inadeguata e non più
accettabile.
In secondo luogo nelle proposte di
legge e, soprattutto, in quella del P.C.I. sono contenute varie norme che
potrebbero favorire un trasferimento dei minori dalle famiglie naturali alle famiglie adottive senza il controllo del Tribunale per i
minorenni o, per lo meno, facendo trovare il Tribunale di fronte a situazioni
di fatto già consolidate o irreversibili. Così all'art.
D'altra parte non sempre sembrano
sufficientemente tutelati i genitori naturali come, ad esempio, all'art. 15
della proposta del P.C.I.,
allorché viene dato rilievo ai fini dello stato di adottabilità anche alle
situazioni di mero abbandono morale.
Va ancora osservato che non sembrano
convincenti alcune scelte soprattutto contenute nella proposta del P.C.I. per
quanto riguarda i requisiti degli adottanti e le situazioni familiari prese in considerazione per pronunciare l'adozione.
Così sembra eccessivo prevedere la
possibilità di adozione da parte di adottanti che non
abbiano superato l'età di cinquanta anni: infatti i Tribunali per i minorenni
si sono sempre più orientati a pronunciare affidamenti nei confronti di coppie
il più possibile giovani. Sembra anche riduttiva la previsione di una
convivenza degli adottanti di due anni e non di cinque
anni come stabilisce la vigente legge.
Può consentirsi can la previsione
contenuta nella proposta di legge del P.C.I. per cui
la possibilità di adozione viene aperta anche alle cosiddette famiglie di
fatto, però anche in tale caso sarebbe opportuno prevedere una convivenza più
stabile e superiore ai due anni indicati nella proposta e, in ogni caso,
sarebbe necessario stabilire quale «status» verrebbe ad assumere il minore
adottato da una famiglia di fatto.
Infine le previsioni contenute
nell'art. 36 della proposta del P.C.I. lasciano perplessi perché sembra che
non sempre ci si ponga l'obiettivo di assicurare al
minore adottato la presenza di entrambi i genitori. Ora, senza enfatizzare
l'importanza della famiglia, legittima o di fatto,
non può sottacersi che i moderni orientamenti pedagogici e psicologici
insistono stilla necessità per il minore di poter fare riferimento il più possibile
per la sua educazione ad entrambe le figure parentali, maschile e femminile.
Sembrano positive
le indicazioni contenute nella proposta di legge del P.C.I. rivolte a tener
conto della volontà del minore che ha compiuto sedici anni (art. 21, II comma e
art. 28, II comma), mentre andrebbe evitata la presenza del minore che ha
compiuto il dodicesimo anno di età nel procedimento di dichiarazione di adottabilità (art. 21, III comma).
Le proposte di legge sopraindicate
lasciano soprattutto perplessi per ciò che attiene la regolamentazione
dell'affidamento familiare, sia perché questo viene
regolato nella stessa normativa riguardante l'adozione e sia perché per disporlo
viene sempre richiesto un provvedimento del Tribunale per i minorenni.
L'affidamento familiare dovrebbe
essere visto come una forma di intervento rivolta a
tutelare il minore e a garantirne la sua educazione allorché la famiglia
naturale non sia in grado di svolgere il suo ruolo educativo e non dovrebbe
mai essere visto, tolti i casi eccezionali, come una via per giungere
all'adozione. Pertanto, l'affidamento familiare, potrebbe essere inquadrato
nella normativa dell'art.
Sembra invece necessario prevedere
quali sono i diritti e i doveri degli affidatari,
allorché si procede in qualche modo a una forma di affidamento familiare. Da
ultimo lascia perplessi la formulazione dell'art. 43 della proposta di riforma del P.C.I. che modifica l'art.
3) Per quanto riguarda
l'applicazione del D.P.R. 616 nella Regione Umbra, va rilevato che da tempo era stata instaurata una efficace collaborazione tra il
Tribunale per i minorenni,
Anche per ciò che
riguarda i provvedimenti in materia civile, il Tribunale, quando ciò era possibile,
aveva sollecitato e utilizzato la collaborazione dei servizi delle
Amministrazioni provinciali e dei Comuni. In particolare erano stati disposti
affidamenti a servizi sociali degli Enti locali a norma degli artt.
Sempre in materia di provvedimenti
civili, va rilevato che
Devesi però rilevare, che i Comuni,
ai quali con la legge regionale suindicata erano
state delegate le competenze in materia assistenziale
non sempre hanno seguito la logica antistituzionale
della legge stessa, trovando più agevole attuare ricoveri in istituto anziché
reperire soluzioni alternative alla istituzionalizzazione.
Nel frattempo
Tale azione ha
condotto alla chiusura di molti istituti e alla riduzione della popolazione
minorile presente negli istituti rimasti in funzione.
Va però rilevato, che, se, da un
lato, si è operato in tal senso, dall'altro, non avendo i Comuni, come
accennato, dato vita a concrete soluzioni alternative agli istituti e non
avendo recepito la logica della legge regionale n. 12
sopra citata, molti minori sono rimasti privi di assistenza e spesse volte gli
interventi del Tribunale per i minorenni a tutela dei minori sono rimasti privi
di efficacia.
4) Devesi ritenere che
l'applicazione del D.P.R. 616 nella Regione Umbra incontrerà notevoli difficoltà,
solo in parte attenuate dal fatto che non esistono gravi ed estesi problemi in
materia di disadattamento minorile.
Innanzitutto non sono costituiti in ogni comprensorio
i previsti consorzi socio-sanitari tra Comuni, ai quali il Tribunale per i
minorenni dovrebbe fare riferimento per gli interventi relativi a
provvedimenti adottati nell'ambito della competenza amministrativa e civile.
Inoltre in molti comprensori mancano o sono del tutto inadeguati i servizi
sociali. Operano invece sul territorio regionale con diffusione in ogni
comprensorio gli operatori sociali e i centri di igiene
mentale delle due Amministrazioni provinciali.
In secondo luogo non sono state
ancora prese iniziative e non si sono previste strutture per quanto attiene al
settore della competenza amministrativa del Tribunale, al fine cioè di rispondere ai bisogni dei minori irregolari. Non
sono state individuate famiglie disponibili per l'affidamento
di minori irregolari, non sono ancora previsti gruppi appartamento, comunità
alloggio o soluzioni affini per minori che presentino problematiche del
genere, anche se
Devesi rilevare ancora che,
soprattutto a livello dei Comuni e dei consorzi tra
di essi, difetta una reale sensibilità per i bisogni dei minori, anche se ciò
è in parte spiegabile perché gli Enti locali appaiono impreparati ai compiti
nuovi che il D.P.R. 616 e tutta la legislazione emanata dopo l'attuazione
dell'ordinamento regionale, viene loro affidando. Occorre ripensare alla caratterizzazione, alle attività, al funzionamento, alla
fisionomia dell'Ente locale comunale singolo e associato e a tal fine appare
urgente la riforma della legge comunale e provinciale. Da ultimo va osservato
che qualsiasi intervento in favore dei minori rivolto
alla tutela e alla promozione dei loro diritti risulterà vano, se nell'ambito
del territorio interessato non verranno attuate iniziative di carattere
generale, che potrebbero definirsi di «politica giovanile», a livello
scolastico, occupazionale, di tempo libero, di vita associata, ecc., idonee a
rispondere alle problematiche del mondo giovanile del nostro tempo. Non sembra
che almeno per il momento né
INTERVENTO DI IGNAZIO BAVIERA (*)
(*) Presidente del
Tribunale per i minorenni di Palermo.
1) Siamo convinti che la legge 5
giugno 1967 n.
Questa legge, e la successiva del 19
maggio 1975 n. 151, attraverso la ripetuta prescrizione di perseguire «il preminente
interesse del minore» hanno introdotto un principio
generale di diritto, che costituisce fonte di diritto esso stesso e che
dovrebbe illuminare nell'interpretazione di tutte le norme esistenti in
materia.
Purtroppo non tutti vedono queste
realtà giuridiche; tante volte sono quindi ignorate e violate.
In particolare viene
ignorato il principio, posto dall'art. 30 della Costituzione, per cui i genitori
hanno il «dovere e il diritto di mantenere, istruire ed educare i figli».
L'anteposizione del dovere sta ad indicare che in tanto esiste il diritto in
quanto il dovere sia adempiuto; tuttavia spesso viene
privilegiato il diritto prescindendo dalla constatata violazione del dovere.
È conseguenza della stessa posizione
la valutazione e l'interpretazione che si dà comunemente alle locuzioni
legislative «stato di abbandono» e «privazione dell'assistenza materiale e
morale».
Questi concetti vanno elaborati
dalla società, che ne determina il contenuto concreto. Se molte volte l'uomo
della strada si commuove alla notizia di episodi di
sconvolgente oppressione o trascuratezza di bambini, altre volte le stesse
persone - e i giudici che sono l'espressione della stessa società - sono più
portati a lacrimare sulla condizione dei genitori, che si vedono privati dei
figli.
Bisognerebbe fare opera di
divulgazione e di persuasione in ordine a tali
concetti ed alle posizioni connesse e ribadire il concetto - che dovrebbe
essere del tutto pacifico - che il minore non è un oggetto in proprietà dei
genitori, ma un autonomo soggetto di diritti, che deve ricevere la più larga
protezione, per garantirgli la realizzazione di quelli che attengono alla sua
crescita e alla sua migliore formazione fisica, psichica e sociale.
In conclusione la legge
sull'adozione speciale deve essere solo meglio intesa e puntualmente applicata.
Se vi sono storture e lacune, queste sono ascrivibili agli
operatori e non alla legge.
2) Conosciamo solo la proposta di
legge presentata alla Camera il 17 agosto 1972 dall'On. Cassanmagnago
e altri sull'affidamento familiare di minori a scopo educativo e la proposta di
legge n. 1911 presentata alla Camera dei deputati
dalla stessa On. Cassanmagnago e altri il 22 marzo
1973, su modifiche alle norme sull'adozione.
a) Quanto alla prima si deve
informare che una commissione di studio costituita presso il Centro di
prevenzione e difesa sociale di Milano ha elaborato uno schema di progetto di
legge sulla materia.
A prescindere dalla normativa di
dettaglio, l'istituto dell'affidamento familiare è certamente capace di risolvere
pressanti problemi di numerosi minori, che vivono in situazioni dolorose e
pericolose di carenze educative e di ogni altro
genere. Se finora è possibile realizzare un rimedio
applicando le norme degli artt. 330, 333 e 403 cod.
civ. è tuttavia auspicabile una espressa normativa
sulla materia.
b) La seconda proposta di legge
tende a sopprimere l'istituto dell'adozione ordinaria, e a disciplinare con
norme più idonee l'attuale adozione speciale denominata «filiazione adottiva».
Noi saremmo contrari all'abrogazione
dell'istituto dell'adozione ordinaria, che ha sempre un suo campo di applicazione e fattispecie per le quali è idonea e
congeniale. Purtroppo, però, se ne è fatto un uso
indiscriminato, che ha spesso soppiantato l'istituto dell'adozione speciale, là
dove questo doveva trovare applicazione.
Non si è visto che per i principi
della successione delle leggi nel tempo, le norme degli articoli 291 e sgg.
cod. civile, sono state tacitamente abrogate dalla
più recente legge n. 431 per tutti i casi che rientrano nella normativa di
quest'ultima (art. 15 delle preleggi).
Questa realtà ne giustificherebbe la
soppressione. Si potrebbe però sancire, con espressa disposizione legislativa che «l'adozione ordinaria non può trovare
applicazione per tutti i casi in cui sia iniziato o possa iniziare un procedimento
per dichiarazione dello stato di adottabilità,
qualunque sia l'esito di tale procedimento».
3) La legge 382 e il decreto 616 non
si applicano (finora) alle Regioni a statuto speciale. Abbiamo poca fiducia in
un miglioramento della situazione attuale, estremamente
lacunosa e carente sotto tutti gli aspetti.
Strutture pubbliche sono inesistenti
o quasi; l'ente pubblico si limita a deliberare sull'ammissione di minori in
istituti privati. L'assistenza consiste nel pagamento di una retta, assolutamente
inadeguata alle odierne necessità. Anche per questo
motivo manca del tutto un controllo sulle modalità del ricovero e addirittura
sulla reale permanenza di questo in istituto.
L'opera educativa, l'azione di
sostegno, la comunicazione di principi morali e sociali sono
quasi sconosciuti.
4) Nessuno.
INTERVENTO DI FRANCESCO MARZANO (*)
(*) Presidente del
Tribunale per i minorenni di Campobasso.
1.2.) La legge n. 431 del 1967
sull'adozione speciale non ha in via generale tradito le attese, essendo
innegabile che la sua decennale applicazione abbia dato risultati positivissimi. La lunga esperienza in tale campo mi ha infatti dato la possibilità di constatare in tutti i casi
trattati l'esito favorevole dell'affidamento preadottivo
con ottimo inserimento dei minori in nuclei familiari sani ed idonei.
Si è reso
necessario talvolta lo sforzo del giudice per adattare
l'interpretazione delle norme sull'adozione speciale alle varie e sempre disparate
fattispecie concrete. Così ad esempio non si è avuto difficoltà ad attribuire
in un primo tempo al provvedimento di dichiarazione
dello stato di adottabilità un carattere punitivo nei confronti dei genitori
legittimi o naturali. Senonché,
in tempo successivo (ed al fine palese di eliminare talvolta il grave ostacolo
della forza maggiore) il carattere suddetto è stato escluso. Si è così
pervenuti all'affermazione che sussiste stato di abbandono
non discriminato e giustificato da forza maggiore nel caso di malattia cronica
ed irreversibile con ricovero in casa di cura (in particolare, nel caso di
infermità mentale) del genitore.
La soluzione dev'essere
accettata se si condivide l'opinione che l'adozione speciale è prevista dalla
legge nell'esclusivo interesse del minore con totale obliterazione
dei diritti derivanti dal rapporto di sangue.
Per quanto riguarda l'adozione
ordinaria sembra che possa con sicurezza e decisione essere esclusa, con
riferimento ai minori degli anni
Allo stato della legislazione la coesistenza dei due istituti appare certa, nella
considerazione che con l'andar del tempo ed alla luce dei principi sanciti
dalla Costituzione anche l'adozione tradizionale ha quale finalità primaria
l'inserimento del minore in un nucleo familiare rispondente alle esigenze
psico-fisiche della sua personalità.
Va da sé, comunque,
che in caso di accertato abbandono del minore l'adozione speciale, in difetto
di eccezionali esigenze, debba essere privilegiata rispetto all'adozione
tradizionale.
In conclusione, in tema di adozioni ed in particolare di dichiarazione di stato di
adottabilità, non possono essere aprioristicamente fissate regole assolute, ma
la decisione del giudice deve conseguire al l'approfondito, sereno esame delle
circostanze del caso concreto per il conseguimento del fine precipuo del bene
del minore. Non può disconoscersi che talora il ricorso all'adozione ordinaria
vale ad eludere l'applicazione (per difetto di età
negli aspiranti o per altri motivi) dell'adozione speciale. In casi siffatti
non vi è dubbio che il giudice debba drasticamente intervenire ed impedire che
la legge sia violata. Ciò può tranquillamente effettuarsi
allorché la situazione (come esige la legge) sia subito conosciuta
dall'Autorità.
Quando invece l'affidamento di un
minore (comunque verificatosi) rimonti ad un non breve lasso
di tempo e quando cioè fra affidatari e minore si sono radicati validi
rapporti affettivi (la cui improvvisa rottura sarebbe certamente dannosa sul
piano psicologico al minore), si ritiene che possa essere eccezionalmente
utilizzato l'istituto dell'adozione ordinaria, che consente fra l'altro di
conciliare l'interesse del minore con il desiderio (pur meritevole di
comprensione benevola) dei genitori naturali, spesso incolpevoli, a continuare
ad avere la possibilità di seguire da vicino il figlio. Al riguardo ha pregio
il rilievo che quattro genitori (due naturali e due
adottivi) costituiscono non una situazione dannosa, ma accrescono il patrimonio
affettivo del minore.
È pur vero che l'avversione
all'adozione ordinaria trae giusta causa dalla preoccupazione di stroncare il
cosiddetto mercato dei bambini. Ma tale pur nobile
intento, che va beninteso perseguito con tutti i mezzi, non deve condurre all'inaccettabile
conclusione che il minore degli anni otto, all'infuori dell'ambito della stessa
famiglia, non possa essere adottato in via ordinaria.
Invero, a ben vedere per tale strada si
giunge all'aberrante conseguenza che lo stesso giudice il quale ha cura in modo
scrupoloso (e ben a ragione) di impedire che un minore degli anni otto sia
ceduto dai genitori a scopo di lucro a coniugi senza prole, assista d'altro
canto indifferente a1 pur gravissimo mercato di ragazzi che abbiano compiuto
gli anni otto. E la validità di tale considerazione non può venir meno sul
solo, reale riflesso che i casi di adozione di minori
di anni otto sono di gran lunga in numero maggiore di quelli riguardanti gli
ultraottenni.
Non può perciò non trovare favore
l'innovazione contenuta nella proposta di legge
tendente ad innalzare il limite massimo di età per la dichiarazione dello
stato di adottabilità. È auspicabile pure che, ad evitare contrasti e
disparità di interpretazioni (derivanti spesso dalla
valutazione di condizioni culturali, ambientali ed economiche innegabilmente
diverse fra regione e regione), si provveda, in caso di rielaborazione
legislativa della materia delle adozioni, a fissare bene i limiti fra i due
istituti dell'adozione ordinaria e speciale, se si riterrà che non sia opportuno
e prudente addivenire, come pure è richiesto da taluni, alla radicale
soluzione della soppressione dell'adozione ordinaria per potenziare
l'affidamento familiare e l'affiliazione.
3.4.) Il decentramento delle
attribuzioni amministrative in tema di assistenza
minorile, nella valutazione dei primi non esaltanti risultati, non induce a
previsioni ottimistiche, essendo stato assai caro lo scotto pagato per motivi
di improvvisazione, di non adeguata preparazione e di mancanza pressoché
assoluta di strutture.
Si spera nel buon funzionamento dei
Consorzi comunali, in particolare per quanto concerne la creazione di funzionali
ed attrezzati centri di osservazione e di assistenza.
INTERVENTO DI FRANCO OCCHIOGROSSO (*)
(*) Giudice del
Tribunale per i minorenni di Bari.
1) La presentazione in Parlamento di
due progetti (n. 1552 del 17 giugno 1977 presentato dalla D.C. alla Camera e
n. 968 del 27 ottobre 1977 presentato dal P.C.I. al Senato) di revisione delle norme sull'adozione e sull'affiliazione e di
introduzione dell'affidamento familiare ha riportato l'attenzione
dell'opinione pubblica su questi temi. Oltre alla stampa, se ne sono occupate
associazioni qualificate: ciascuna norma dei due progetti è stata accuratamente
esaminata e ne sono stati posti nel dovuto risvolto
gli aspetti positivi e negativi.
A me sembra, a questo punto,
opportuno piuttosto che un riesame contenutistico dei due progetti, tentare
di fornire un contributo in una prospettiva diversa, partendo dalla legge
5-6-1967 n. 431, riprendendone alcuni principi qualificanti e verificando sia se gli spazi di intervento che essa consentiva sono
stati occupati interamente dall'interpretazione giurisprudenziale della legge,
sia se la successiva legislazione sia stata pienamente aderente a tali principi
e, quindi, coordinata con la legge sull'adozione speciale. Questa analisi
permetterà alcune osservazioni sui progetti di legge, in modo da cogliere la logica, a cui rispondono, e la portata di alcune norme.
Un principio molto
importante della legge 1967/431, forse il principio-cardine, è - com'è noto - quello del
superamento del vincolo di sangue, del concetto di «appartenenza» del figlio
ai genitori, del padre-padrone. Al di là della
possibilità di «togliere il figlio» definitivamente ai genitori per darlo in
adozione speciale, affermazione limitata al solo discorso dell'adozione e,
quindi, settoriale, questo principio introduceva il concetto generale - che
aveva enormi capacità potenziali di incidenza sociale - che ogni genitore è
solo uno strumento, una presenza necessaria in funzione del figlio, l'unico
modo che consenta al figlio di realizzare il pieno sviluppo della sua
personalità.
Questo principio - ed era questa
un'altra novità interessante - non era una mera affermazione astratta, ma
riceveva concretezza da due norme operative, che davano la possibilità di incidere sulla realtà sociale, sì da farlo gradualmente
divenire patrimonio di tutta la comunità.
Una è l'art. 314/5 Cod. Civ.,
che impone alle istituzioni assistenziali di trasmettere l'elenco dei
ricoverati o assistiti e ai pubblici ufficiali e agli organi scolastici di
riferire sulle condizioni dei minori in situazione di abbandono, comunque
conosciute. L'altra é l'art. 314/8 Cod. Civ., che attribuisce al giudice
la facoltà di impartire ai genitori prescrizioni idonee a garantire l'assistenza
morale, il mantenimento, l'istruzione e l'educazione del figlio minore,
stabilendo al tempo stesso periodici accertamenti. Si trattava del primo testo
di legge diretto a tutelare il figlio come componente
più debole del nucleo familiare, del primo tentativo di guardare al rapporto
genitore-figlio non più in una prospettiva privatistica,
ma pubblicistica, di far divenire un fatto ed un valore sociale il problema
della cura dei figli, della loro educazione, del loro sviluppo fisico e
psichico.
Come è stata applicata la legge
sull'adozione speciale? I tribunali minorili hanno nel complesso realizzato un
notevole ed apprezzabile sforzo per combattere la istituzionalizzazione
dei minori, ma non sono andati oltre ciò e non hanno quindi utilizzato tutti
gli altri spazi, che pure la legge concedeva loro per proteggere i minori anche
da altre forme di emarginazione.
Così, ad esempio,
rarissime sono state le segnalazioni effettuate da organi scolastici o
da altri pubblici ufficiali in favore dei minori che non osservano l'obbligo
scolastico o per i quali sarebbe stato comunque necessario un intervento
protettivo; né i tribunali minorili hanno compiuto notevoli sforzi per
sensibilizzare tali organismi. L'effetto è stato che intere sacche di emarginazione minorile sono rimaste intatte: così l'evasione
dell'obbligo scolastico non è stato considerata in questa prospettiva, così la
c.d. tratta dei calzoni corti, cioè l'avviamento precoce di minori al lavoro, è
tranquillamente continuata.
Certo, si tratta di problemi enormi
non risolvibili né in breve tempo né con il solo intervento giudiziale, ma è
certo che nessun contributo è stato dato dai Tribunali per i minorenni, perché
essi venissero affrontati con tutta l'attenzione che
meritavano.
E, quel che non è
meno grave, non si è inciso affatto neppure su una certa mentalità generalizzata,
che continua ad intendere la potestà sui figli nella prospettiva del
padre-padrone: basta guardare all'atteggiamento di tanti genitori nei giudizi
di separazione tra coniugi ed alle modalità secondo cui cercano di contendersi
non solo l'affidamento dei figli, ma anche il numero delle visite e addirittura
le modalità di incontro con i figli stessi, per rendersi conto che questo modo
di pensare è quello sotto sotto tuttora dominante
anche nei ceti sociali abbienti ed anche presso tante persone per altri versi
molto valide.
In sostanza, le prescrizioni sono
state imposte in pochi casi, soprattutto per minori istituzionalizzati e,
quindi, sono state rivolte a genitori proletari o sottoproletari, venendo
considerate solo in funzione di una prospettiva di
adozione del minore, mai rivolte a genitori (anche borghesi) come stimolo e
sollecitazione - eventualmente svincolata della prospettiva adottiva - a
realizzare il rapporto con il figlio in modo corrispondente all'interesse di
quest'ultimo e, quindi, come crescita della comunità sul problema.
D'altro canto, anche la legislazione
in materia di famiglia ha deluso le aspettative che a
questo proposito la legge sulla adozione speciale aveva creato. La legge di
riforma del diritto di famiglia, che pure ha rivolto
un'attenzione maggiore ai figli nel rapporto interfamiliare, non ha fatto
proprie tali aspettative: se è vero, infatti, che non esiste più l'affermazione
di una gerarchia familiare, è pur vero che non è stata inserita alcuna norma
diretta a capovolgere il modo tradizionale di intendere la potestà dei genitori
ed avvicinarlo al modo di intendere il rapporto padre-figlio voluto dalla legge
sull'adozione speciale. Si può dire che la materia
dell'adozione è stata separata e ghettizzata rispetto a quella generale del
diritto di famiglia. Il principio, quindi, del superamento del vincolo di sangue, della famiglia fondata sull'amore e non sul possesso
è rimasto - in sostanza - un principio dell'azione. Non è un caso che le riforme
procedano separate: prima la legge sull'adozione speciale,
poi la riforma del diritto di famiglia, ora i progetti di legge sull'adozione.
Né si può dire che si sia trattato di un evento del
tutto contingente, dipendente dalla necessità di adeguare la normativa alla
convenzione di Strasburgo.
Questa convenzione risale al 24
aprile 1967 (precede, quindi, la stessa legge sull'adozione speciale) ed è
stata resa esecutiva con la legge 22-5-1974 n. 357, che precede di un anno la
riforma del diritto di famiglia (L. 19-5-1975 numero
151) : essa ben poteva essere tenuta presente in
quella sede.
Un altro principio molto importante
contenuto nella legge sull'adozione speciale era quello
diretto a modificare la concezione dominante in materia assistenziale. Accanto
all'art. 314/8 Cod. Civ., che attribuisce al giudice la facoltà di imporre
prescrizioni, era stato, infatti, previsto l'art. 314/4 Cod.
Civ., il quale - stabilendo che la situazione di
abbandono del minore sussista anche quando i minori sono ricoverati presso
pubbliche o private istituzioni di protezione ed assistenza per l'infanzia -
poneva in crisi l'istituzione totale, esigeva l'attuazione di concrete
soluzioni alternative (riconoscendo implicitamente che il pregiudizio per il
minore può derivare anche da un certo tipo di intervento assistenziale) ed un
pieno coordinamento tra enti assistenziali e tribunali per i minorenni sia in
relazione alle prospettive di adozione del minore - in quanto l'adozione deve
essere il momento ultimo di un complesso sistema tendente a tutelare il
minore, prima con interventi di sostegno alla famiglia di origine e, solo se
ogni intervento è risultato inutile, con la sua adozione - sia più in generale
per rendere praticabile un più ampio discorso di lotta contro l'emarginazione
minorile (ad esempio, nei casi di precoce avviamento di minori al lavoro,
accanto a prescrizioni da imporre al genitore è spesso indispensabile un
consistente contributo economico erogato alla famiglia dall'ente assistenziale
o un altro intervento - quale il reperimento di un alloggio ecc. - per
consentire il determinarsi delle condizioni, che permettano di ottemperare alle
prescrizioni imposte).
Viceversa, il perpetuarsi della
tradizionale distinzione tra diritto privato (a cui appartiene l'adozione) e
diritto pubblico (a cui appartengono tutte le norme del sistema assistenziale) ed il permanere del principio contenuto
nell'art. 4 della legge abrogatrice del contenzioso
amministrativo, per cui il giudice non può dare alla pubblica amministrazione
(e quindi agli enti pubblici) ordini di fare, cioè non può imporre comportamenti
positivi, ha fatto sì che la situazione di abbandono continuasse ad essere
imputata ai genitori e, quindi, a comportare la dichiarazione di adottabilità,
anche se non tutti i possibili interventi assistenziali per tutelare il minore
nell'ambito della famiglia di origine erano stati esplicati dall'ente pubblico
competente o per converso, le stesse ragioni hanno reso impossibile al giudice
di richiedere - nel singolo caso concreto - un diverso intervento operativo da
parte di un ente assistenziale, anche se, in sostanza, il pregiudizio
derivava al minore proprio dall'intervento assistenziale. Abbiamo, ad esempio, minori che continuano a rimanere in istituto per
tanti anni, perché non si sono create alternative assistenziali, ma il giudice
può rivolgere solo alla famiglia (che da sola non ce la fa) l'ordine di
riprendere con sé il figlio, non può rivolgere alcuna prescrizione all'ente
pubblico. E, per le stesse ragioni, non può imporre alcun intervento assistenziale in altri casi di emarginazione, nei quali tale
mancato intervento contribuisce notevolmente a impedire il risolversi di situazioni
gravemente dannose per i minori.
Anche qui è da rilevare che i tribunali
per i minorenni (salvo qualche eccezione) non hanno utilizzato tutti gli spazi
che la legge consentiva loro di occupare per realizzare una più adeguata tutela
del minore da parte delle istituzioni assistenziali e sanitarie con intervento
e controlli in ospedali, istituti educativi, manicomi. È quindi molto opportuna
la richiesta dell'Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie per ottenere
la modificazione degli artt. 330, 333 cod. civ. in modo da estendere l'intervento dei tribunali per i minorenni
anche nei confronti di queste istituzioni. L'effetto di questo mancato
coordinamento è stato certamente, come si è rilevato, la mancata crescita del
Paese sui problemi gravi. Su questo punto, quanto mai opportuna
è la norma dell'art. 18 del progetto democristiano che prevede la facoltà per
il giudice di imporre prescrizioni all'ente pubblico, anche se sarebbe
opportuno chiarire quali siano le conseguenze collegate ad un'eventuale
inottemperanza.
2) Concludendo
su questo punto, si può senz'altro affermare che i
principi innovatori introdotti dalla legge sull'adozione speciale sono rimasti
applicati alla sola adozione: hanno ricevuto, cioè, un'applicazione settoriale
dalla giurisprudenza, la quale ha seguito una linea di orientamento accolta
poi anche dalla successiva legislazione.
Si può anche dire
che, purtroppo, essi sono stati l'aspetto nobile di norme che - se si guarda
agli effetti assolutamente prevalenti della loro applicazione - sono servite a
togliere i figli ai poveri per darli a coppie senza figli ed a dare così una
risposta sia pure parziale al problema sempre più incombente della sterilità
coniugale. A conferma di ciò, è la circostanza che il numero di domande di adozione speciale presentate in tutta Italia da coppie
con prole è stato minimo rispetto a quello delle coppie sterili.
Inoltre, nella mia decennale
esperienza di giudice minorile, non mi è mai accaduto di dover procedere alla
dichiarazione di adottabilità di un minore di
estrazione borghese: non escludo che ciò possa essere anche avvenuto in qualche
Tribunale, ma si è trattato al più di casi eccezionali, che non scalfiscono
in alcun modo la validità dell'affermazione precedente.
Non c'è dubbio che l'adozione
speciale sia stata orientata in tal moda dal fatto che le uniche segnalazioni di abbandono di minori siano giunte dagli istituti
assistenziali (che ospitano solo i figli del proletariato e del
sottoproletariato) e, soprattutto, dall'aver richiesto per l'adottabilità la
situazione di abbandono morale e materiale, una condizione cioè in cui possono
trovarsi solo le classi più umili, perché le altre sono sempre in grado di
fornire un contributo economico per il mantenimento dei figli ed evitarne così
l'adottabilità.
Ora, in questo senso, i due progetti
di legge presentati dalla DC e dal PCI non innovano affatto rispetto alla
precedente normativa: essi perpetuano la logica della separatezza
dell'adozione e dei suoi principi da tutta la rimanente legislazione familiare
e assistenziale. Pur apprezzabili
in quelle norme che tentano di realizzare un coordinamento con altri settori
(così l'art. 43 del progetto comunista, così gli artt.
1 e 18 di quello democristiano), essi non possono
superare le difficoltà di fondo rilevate nei paragrafi che precedono e che
rimangono tutte. Certo il progetto comunista offre il fianco sia sotto il
profilo sostanziale che sotto quello formale a
maggiori critiche, che già sono state mosse e che si devono in gran parte
condividere. Tuttavia, a mio avviso, il progetto democristiano - certamente
migliore - rischia addirittura di accentuare l'attuale settorializzazione
dei principi affermati con l'effetto di una ulteriore
discriminazione dei ceti sociali più emarginati: ciò vale, ad esempio, per
l'art. 8 di quel progetto, il quale richiede per escludere che un minore sia
abbandonato e adottabile «quella diretta assistenza morale o materiale
indispensabile per un adeguato sviluppo psico-fisico». È sufficiente quindi
per il genitore non provvedere economicamente al mantenimento del figlio, o
addirittura offrire un sostentamento modesto, che non consenta
un «adeguato» sviluppo psico-fisico del figlio (anche se eventualmente esso
rappresenta il massimo possibile per il genitore), perché il minore venga
dichiarato adottabile.
A, mio avviso, sarebbe stato più
semplice fare ricorso alla formula usata dal testo della convenzione
di Strasburgo (art. 5 n. 3) e riprendere il concetto di decadenza dalla potestà
di genitore, per porlo a fondamento della dichiarazione di adottabilità: in
tal modo rientrerebbe nella categoria degli adottabili una fascia di minori più
larga dell'attuale e verrebbe a stemperarsi la marcata caratterizzazione
dell'adottabilità come punitiva dei ceti più derelitti. In tal modo si supererebbe
anche la sottile distinzione tra decadenza della potestà e situazione di abbandono morale e materiale che, malgrado le acrobazie
ermeneutiche attuate resta una delle più complesse e difficili a cogliersi e
che sul piano concreto determina duplicazione di provvedimenti e altre
difficoltà burocratiche (possibile nomina di tutori da parte del giudice
tutelare e del Tribunale per i minorenni, ecc.).
3) Passando ora più specificamente a
trattare dei singoli istituti, previsti nei due progetti in esame, ci
soffermiamo brevemente su affidamento familiare,
affiliazione e adozione ordinaria per fare poi qualche osservazione sulle
norme che modificano l'adozione speciale.
Per quanto riguarda l'affidamento
familiare, entrambi i progetti ne prevedono l'introduzione con intervento del
giudice: ed i rilievi critici si sono fermati su questo solo problema, se sia
opportuna o no la giurisdizionalizzazione dell'affidamento. La linea prevalente di orientamento
è quella tendente ad escludere l'intervento del giudice, che dovrebbe essere
limitato ai soli casi, in cui tra famiglia del minore e famiglia affidataria sorgano conflitti.
Non si è pensato ad altro, né si è
considerato che vi sono vaste zone del nostro Paese,
ed in particolare il Meridione, in cui l'affidamento familiare è praticamente
sconosciuto: e non c'è dubbio che in questa zona la disciplina legislativa di
un istituto ignorato resterebbe lettera morta. Non si è pensato che, prima
della disciplina normativa o insieme ad essa, è
necessario introdurre norme promozionali dirette a fare conoscere
l'affidamento familiare ed a richiederne l'applicazione. Ritengo, invece,
essenziale la previsione di una norma specifica ed articolata come l'art. 43
del progetto comunista che imponga il ricorso all'affidamento
familiare prima di procedere alla istituzionalizzazione di un minore. Ma sono
certo necessarie anche altre norme in materia assistenziale.
Una via in questo senso è suggerita dalla convenzione di Strasburgo,
che all'art. 18 prevede la creazione di istituzioni
pubbliche o private «alle quali possano rivolgersi per aiuto e consiglio
coloro che desiderano adottare un minore» (e tale invito è stato accolto in
Italia con la legge sui consultori familiari, che tuttavia sono tuttora
inesistenti in gran parte del territorio nazionale) e all'art. 19 stabilisce
che gli aspetti sociali e giuridici dell'adozione vengano inclusi nei programmi
di formazione degli assistenti sociali. In linea con tale indicazione sarebbe
certo importante che i programmi delle scuole per assistenti sociali ed educatori prevedessero lo studio obbligatorio (non solo
teorico) dell'adozione, dell'affidamento familiare e di tutte le problematiche
annesse. Ma per fare ciò è urgente disciplinare normativamente
tutto questo settore, tanto più che negli ultimi anni stanno sorgendo
tante scuole di servizio sociale, in modo indiscriminato. Non si deve dimenticare che le scuole di servizio sociale sono
private; esse scelgono, quindi, programmi non controllabili e sono guidati da
insegnanti, che non sempre offrono adeguate garanzie professionali. Tuttavia,
il diploma che esse rilasciano - pur privo di pubblico riconoscimento almeno
ufficialmente - è di fatto considerato necessario e sufficiente per
partecipare a concorsi privati e pubblici e per essere assunti - è il caso
degli uffici distrettuali di servizio sociale - dai ministeri statali.
È divenuto indispensabile che anche
queste scuole divengano pubbliche con programmi ufficiali e controllabili e
con insegnanti abilitati o assunti con particolari garanzie (presentazione
titoli, graduatorie pubbliche ecc.), secondo i sistemi
già vigenti per i professori delle scuole statali.
È anche indispensabile ormai
prevedere l'obbligo di assunzione di almeno un
assistente sociale da parte di ogni Comune superiore ai 5.000 abitanti (e ciò
indipendentemente dal personale delle costituende Unità locali: la carenza di
tale personale - specie nelle zone depresse - è tale che qualche unità in più
non sarà certo un danno, ma costituirà piuttosto un contributo a guardare i
problemi dell'assistenza non più solo dal punto di vista burocratico del
segretario o del ragioniere comunale, come purtroppo è avvenuto finora). Non
è questa una prospettiva che debba spaventare sotto il
profilo della spesa pubblica. Basterebbe imporre l'obbligo di trasformare uno
dei posti ormai inutili previsti negli organici dei comuni (da quello di ostetrica comunale a quello di accalappiacani) per
raggiungere questo risultato senza un particolare aggravamento di spesa.
Sarebbe certo un risultato parziale, ma costituirebbe
un utile contributo per favorire la conoscenza e la diffusione di alcuni
istituti nuovi e l'acquisizione di una mentalità nuova - tuttora lenta a
formarsi - su questi temi.
Per l'affiliazione, le osservazioni
già fatte da più parti e che sottolineano sia i limiti
di questo istituto sia la sua sostanziale inutilità pratica, specialmente dopo
l'entrata in vigore del nuovo diritto di famiglia, inducono a condividere la
scelta del progetto democristiano, che ne prevede la scomparsa. D'altro canto,
per le ragioni riferite nei paragrafi precedenti, non è necessario spendere
molte parole, per esprimere il consenso anche alla scelta operata nel progetto
democristiano in relazione all'adozione ordinaria (definita
«non legittimante»), di cui è stata drasticamente e giustamente limitata
l'applicazione a pochi casi espressamente previsti.
4) Alcune osservazioni, infine,
riguardo all'adozione speciale. Ho già esposto i
motivi di perplessità relativi al concetto di
«situazione di abbandono» (morale o materiale, nel disegno democristiano)
richiesta dai due progetti per la dichiarazione di adottabilità.
Ritengo anche importante
l'estensione di questa adozione - prevista dai progetti - ai minori fino a
diciotto anni (che qualche Tribunale per i minorenni considera norma già
vigente nel nostro ordinamento in applicazione della convenzione di
Strasburgo). Considero anche opportuna la possibilità di applicare le norme
degli articoli 330-333 cod. civ. nel corso del
procedimento e condivido a questo riguardo - come ho già detto - la proposta
dell'ANFAA di estendere l'intervento dei Tribunali per i minorenni ad ospedali,
case di cura, collegi per accertare che non vengano violati i diritti
fondamentali dei minori.
Il Tribunale per i minorenni di Bari
ha già svolto molteplici interventi di questo tipo - ritenendo che già la
legislazione attuale offra spazi sufficienti per consentirli - sul piano
operativo, essi si sono dimostrati sempre opportuni ed hanno portato buoni
frutti, quando non vi sono stati risultati addirittura
clamorosi, come nel caso dell'indagine sull'istituto ortofrenico dell'ospedale
psichiatrico di Bisceglie.
Non condivido, invece, le perplessità
sulla proposta - contenuta nel progetto comunista - che anche persone sole possano richiedere l'adozione speciale. Mi sembra che il
problema non sia stato affrontato correttamente, perché è stato visto solo dal
punto di vista di chi intende adottare e non da quello del minore. Considerandolo
in quest'ultima prospettiva, il progetto democristiano dice in sostanza così:
un bambino abbandonato e dichiarato adottabile deve
trovare una coppia coniugata per essere adottato con adozione speciale. Se non
trova - malgrado ogni tentativo - una coppia, ma una persona non coniugata (o comunque sola) non può essere adottato con adozione
speciale, ma solo adottato con adozione ordinaria, dopo che sia stato dichiarato
cessato lo stato di adottabilità. Ora, questa soluzione non
mi sembra accettabile perché punisce il minore, il quale non solo trova un
solo genitore e non due, ma deve per di più essere adottato con un'adozione,
che lo tutela di meno e ciò senza una ragione plausibile. Mi pare, quindi,
più giusta la proposta comunista di consentire l'adozione speciale anche a
persone singole (il problema dei conviventi non coniugati viene
implicitamente assorbito in questo): occorre solo porre l'esplicito correttivo
che all'adozione speciale di persone non coniugate o sole debba farsi luogo,
quando sia stato esperito invano ogni tentativo di affidare il bambino ad una
coppia coniugi.
Credo poi che occorra riflettere
ancora sul discorso dei rapporti tra affidamento familiare e adozione speciale.
Non c'è dubbio che il fine dell'affidamento familiare debba essere il sostegno
alla famiglia di origine e non l'adozione. Tuttavia,
credo indispensabile tener conto delle esperienze acquisite,
anche di recente, in ordine a situazioni delicate di minori abbandonati dai genitori
per cause molto vicine alla forza maggiore e tuttavia senza valide prospettive
per il futuro. In tali casi, la gradualità dell'allontanamento del bambino con
il suo iniziale affidamento ad una coppia disposta ad avere incontri con la famiglia di origine (e poi adottarlo) ha rasserenato
quest'ultima - che si è resa conto delle condizioni in cui il bambino viveva e
anche del fatto che non era svanito nel nulla come avviene per lo più dopo la
dichiarazione di adottabilità - le ha fatto man mano accettare la prospettiva
della perdita del figlio, ha evitato traumi o reazioni violente al momento
dell'adozione. D'altro canto, la mancata interruzione totale di tali rapporti
ha evitato specie nei bambini più grandicelli il
crearsi falsi ricordi, quasi una mitizzazione della famiglia
di origine, che talora si sono invece avuti.
Pertanto, non escluderei
rigorosamente la possibilità che talora l'affidamento familiare possa trasformarsi in adozione speciale, ma credo che il
punto richieda approfondimento e che, in previsione di una tale eventualità,
l'affidamento familiare debba essere gestito in questi casi sin dall'inizio
dal giudice.
Ancora, suscita perplessità la
scelta contenuta in entrambi i progetti di evitare il giudizio presso la corte
di appello in caso di opposizione al provvedimento di
adottabilità e di fare ricorso ad altre impugnazioni. Pur comprendendo le motivazioni
di fondo di tale orientamento, collegato alle scelte
retrive di gran parte delle corti, mi sembra assurdo che, mentre la possibilità
di reclamo alla corte di appello sia prevista per tutte le altre decisioni dei
Tribunali per i minorenni e dei tribunali in genere, solo in questo caso si
debba prevedere una deroga, che è una esplicita conferma della «separatezza», in cui la materia dell'adozione viene vista
rispetto a tutte le altre.
Il problema di
fondo che si nasconde dietro questa proposta si articola in due punti:
il primo è che, mentre l'accesso dei magistrati ai Tribunali per i minorenni è
stato in qualche modo legislativamente disciplinato,
nessuna particolare disciplina vi è stata per i magistrati delle sezioni
minorili delle corti di appello. È avvenuto, quindi, che, mentre nei Tribunali
per i minorenni vi sono più spesso giudici che
partecipano direttamente ai problemi dei giovani e sono sufficientemente
qualificati, i magistrati delle corti di appello sono stati del tutto assenti
dal dibattito su questi temi e continuano a vederli in un'ottica tradizionale.
Occorrerebbe, quindi, che il giudizio di appello
venisse attribuito a giudici qualificati: o qualificando le corti di appello o
prevedendo che giudici di appello siano altri (ad esempio, quelli del
Tribunale per i minorenni -più Vicino). Il secondo punto è che non
basta una soluzione semplicistica o settoriale.
Occorre che l'argomento venga esaminato nella prospettiva
corretta che è quella generale della riforma dell'ordinamento giudiziario.
Anche in materia minorile, non vi è
alcuna ragione di insistere nella prospettiva del
Tribunale della famiglia o, comunque, di un giudice accentrato con vasta
competenza territoriale. Anche qui è necessario
accogliere - specie dopo il D.P.R. n. 616 - la scelta ormai dominante per ogni
altra materia, quella cioè che prevede la istituzione
del giudice unico di primo grado, monocratico e
decentrato sul territorio. Anche qui l'appello deve essere considerato non più una istituzione (la corte di appello) ma una funzione,
esplicabile quindi da ogni giudice (o collegio di giudici), che vi sia delegato
in conformità della legge. Il giudice minorile potrebbe, quindi, in futuro essere istituito sull'esempio dell'attuale giudice
del lavoro e criterio analogo potrebbe essere utilizzato anche per il giudice
che debba decidere sull'appello in tema di opposizione al decreto di
adottabilità ed in genere su ogni impugnazione contro i provvedimenti del
giudice minorile. Mi sembra anche importante, per rendere più snello il
procedimento, consentire espressamente la possibilità di impugnazione
di quelli definitivi. Sarebbe anche opportuno prevedere espressamente la
possibilità che il Tribunale per i minorenni affidi provvisoriamente il bambino
di fatto abbandonato agli adottanti, in attesa del
completamento del procedimento di adottabilità e di adozione speciale, allo
scopo di evitare i danni derivanti dalla prolungata istituzionalizzazione.
Non c'è dubbio, infine, che sia
doverosa, anche per dare attuazione alla precisa richiesta contenuta nella
convenzione di Strasburgo, la previsione di una sanzione penale che punisca i mercanti di bambini.
5) Per concludere,
mi sembra che l'ottica da seguire in una riforma dell'adozione sia quella del
progetto democristiano, sia pure con consistenti correttivi. Resta tuttavia il
dubbio se l'adozione - nelle condizioni in cui è oggi per la settorializzazione, in cui continuano a rimanere i principi
più importanti, di cui è portatrice - resti oggi un istituto così importante e
così attuale dal punto di vista del minore da giustificare addirittura due
progetti di legge e tutto questo impiego di energie o
se non potevano bastare alcuni correttivi (applicabili già con la legge di
riforma del diritto di famiglia) per adeguarla alla convenzione di Strasburgo.
INTERVENTO DI CAMILLO LOSANA (*)
(*) Giudice del
Tribunale per i minorenni di Torino.
1) Nei primi dieci anni dalla sua
entrata in vigore la legge n. 431 sulla adozione
speciale ha dato indubbiamente risultati positivi. L'adozione di un minore è
un fatto ormai ritenuto «normale»; almeno in parte certe remore sono state
superate e la «cultura» attuale accetta l'inserimento di un «estraneo» nel
nucleo familiare come un positivo e fisiologico
allargamento degli orizzonti della famiglia e non più come una azzardata
impresa di pochi fanatici. Altro fatto positivo è che
l'intervento del Tribunale minorile a favore del bambino viene sempre più
capito, anche quando si tratta di tagliare completamente i rapporti con la
famiglia naturale. C'è indubbiamente una crescita culturale circa il fatto che
il minore non è « proprietà » dei genitori che l'hanno messo al mondo. Senza
contare poi che la grandissima maggioranza delle adozioni pronunciate sono perfettamente riuscite. Le revoche di
affidamenti preadottivi sono dell'ordine di
una su cento; adozioni definitive fallite ne conosciamo, ma nella quasi
totalità l'esito è stato soddisfacente per il bambino e probabilmente è stato
evitato con l'adozione un caso di grave disadattamento sociale. Le procedure di adottabilità, infine, hanno dato ai Giudici l'occasione
di stimolare nuclei familiari troppo debolmente impegnati verso i figli: di
fronte al concreto rischio dell'adozione alcuni genitori si sono davvero
attivati.
Gli aspetti negativi sono stati:
innanzi tutto la difficoltà del reperimento degli
stati di abbandono data anche la difficoltà per i Giudici tutelari di essere
di fatto i propulsori dell'iniziativa (come invece vorrebbe la legge); in
secondo luogo (in parte dipendente dal primo) il basso numero di adozioni
speciali pronunciate rispetto all'altissimo numero di bambini ricoverati negli
istituti; in terzo luogo certe lungaggini procedurali che portano i tempi per
arrivare alla adottabilità definitiva a dimensioni
incompatibili con l'esigenza del bambino di conoscere subito la sua sorte;
infine: il permanere, nelle numerosissime coppie che aspirano alla adozione,
di una mentalità «privatistica» tutte tesa ad «avere
un certo tipo di bambino» e non aperta a soluzioni diverse, impreviste,
problematiche, impegnative.
Vorrei poi ricordare il fenomeno del
«mercato dei bambini» che dipende in parte da carenze
normative (anche di carattere penale) ed in parte da un radicato malcostume.
La ricerca «privata» del bambino, le mediazioni, talvolta i falsi negli atti
dello stato civile, sono fenomeni intollerabili e che esigono unità di azione da parte di tutti i Tribunali per i minorenni, ed
una corretta informazione da parte degli organi di comunicazione di massa
(giornali, radio, riviste) : cosa che purtroppo ancora non avviene.
Quanto alla situazione più specifica
del nostro Tribunale ricordo che a partire dal 1977 i
collocamenti adottivi dei figli di ignoti sono stati di molto accelerati tanto
che è ormai normale il caso del bambino che viene inserito nella famiglia
adottiva entro i primi tre mesi di vita. Da qualcuno si dice
che la nostra giurisprudenza si è fatta più incerta, ovvero più favorevole alle
famiglie naturali dei bambini. Ritengo che la cosa stia in termini diversi: infatti i servizi sociali sono sempre più (e giustamente)
orientati verso l'aiuto alla famiglia; l'apertura della procedura di
adottabilità è proprio la «estrema ratio». E poiché, d'altro canto, i figli di ignoti vanno rapidamente diminuendo, ne deriva che i
casi che si prospettano al Tribunale sono (in media) obbiettivamente più
complessi, più incerti, più problematici. In altre parole: nei primi tempi di applicazione della legge vi erano più situazioni di
abbandono «macroscopico»; oggi vi è prevalenza di situazioni «al limite», che
esigono talvolta tempi lunghi per saggiare le reali capacità della famiglia di
origine o esperimenti per metterne alla prova la disponibilità. Sta di fatto, però, che con numerose discussioni, abbiamo
cercato di individuare dei «criteri base» per la dichiarazione di adottabilità,
facendone partecipi gli «operatori sociali» dei servizi locali. Altro
problema è la difficoltà di «maturare» e utilizzare al meglio la disponibilità delle numerosissime domande di adozione speciale. Siamo
costretti a fare un lavoro più di «selezione» che di «aiuto alla crescita». E
molti sono i frustrati, coloro che «vivono un nuovo aborto», o che si sentono
vittime di ingiustizie solo perché non scelti per
l'adozione alla quale tanto aspiravano. Cercheremo di «ripensare» anche a questo impegno con una migliore utilizzazione (ma solo quando
ciò sarà in concreto possibile) dei servizi sociali locali.
2) Sui due progetti di riforma della
legge sull'adozione speciale, i Giudici minorili del Nord
Italia hanno fatto tre riunioni a Milano. L'opinione
quasi unanime è stata che il progetto del PCI presenta troppi aspetti
criticabili per cui non può costituire un «testo di partenza» per una
discussione. Invece il progetto DC rappresenta un idoneo punto di partenza ed
anzi è, a grandi linee, accettabile.
I punti criticati sono: a) la «giurisdizionalizzazione» degli affidamenti familiari. Si è
detto che è meglio lasciare ai servizi sociali
dell'Ente locale la possibilità di usare l'affidamento come un qualsiasi altro
strumento di aiuto al minore, senza che necessariamente debba intervenire il
Giudice quando le parti sono d'accordo per una certa soluzione. L'affidamento
potrà e dovrà essere disciplinato, ma solo nel senso di meglio chiarire i
«poteri-doveri» dell'affidatario. Esso dovrebbe
essere attuato dai servizi sociali dell'Ente locale con l'accordo dei genitori
o del tutore del minore (e solo in caso di disaccordo dovrebbe intervenire il
Tribunale per i minorenni). Ogni affidamento dovrebbe però essere segnalato
al Tribunale per i minorenni per dare la possibilità di un controllo e per
evitare quello che resta il pericolo maggiore: che cioè
l'affidamento venga usato come mezzo per «aggirare» la normale procedura per
gli affidamenti preadottivi.
b) La definizione di «stato di abbandono» (troppo analitica e suscettibile di
interpretazioni estensive pericolose). È meglio restare alla formula attuale
per la quale la giurisprudenza ha ormai elaborato interpretazioni accettabili
(anche a livello della Suprema Corte).
c) Il silenzio del
progetto circa le adozioni internazionali e la delibazione dei provvedimenti
stranieri.
Sembra invece doveroso disciplinare la materia prevedendo sanzioni per il
«traffico illecito» di bambini; delimitando bene l'ambito della delibazione (e
forse dandone la competenza, almeno per le adozioni speciali, al Tribunale per
i minorenni), chiarendo i criteri della legislazione applicabile qualora coniugi
e bambino appartengano a nazionalità diverse (i criteri possono essere quelli
già dettati dalla Convenzione dell'Aia).
d) Sembra, infine, opinabile, che
per dichiarare lo «stato di abbandono» debba essere
sempre valutato il comportamento, non solo dei genitori, ma anche dei parenti
entro un certo grado. La logica, e le esigenze di rapidità e snellezza, postulano secondo me che si tenga conto solo dei genitori.
Il giudice potrebbe eccezionalmente «non dichiarare l'adottabilità» (pur
essendoci abbandono da parte dei genitori) quando parenti entro il terzo grado
(fratelli, zii, ecc.), avendo già avuto in precedenza rapporti col minore, ed
essendo riconosciuti come persone capaci e valide, si assumessero la piena e continuativa responsabilità del bambino,
sottoscrivendo un impegno-adesione ad un affidamento
a tempo indeterminato ovvero ad una adozione non legittimante. Con questa
soluzione si salverebbe quella solidarietà familiare che è ancor oggi un fatto
di costume e di cultura notevolissimo.
Quanto agli istituti della adozione «ordinaria» e della «affiliazione», essi
trovano poca giustificazione in un contesto che preveda e disciplini
analiticamente l'affidamento familiare (anche a tempo indeterminato) e che dia
la possibilità dell'adozione speciale per tutti i minori fino a 18 anni. Forse
una forma di «adozione non legittimante» potrebbe avere ancora qualche utilità
per affidamenti nell'ambito parentale o (per motivi
vari) fatti a persone singole. Ma soltanto per «dare dignità
giuridica» a situazioni già da tempo costituitesi.
3) Il passaggio delle competenze
«assistenziali» agli Enti locali esige un radicale cambiamento di mentalità e
di modo di agire, anche da parte del Tribunale per i minorenni. Questo ci ha
indotto a ripartire le competenze dei Giudici non più «per materia» bensì «per
territorio». Si tratta di essere in collegamento con i servizi di zona. Il
Tribunale non può non utilizzarli sia perché la legge lo esige, sia perché sono
questi servizi a rappresentare quella realtà locale sulla quale il
provvedimento del Giudice dovrà incidere. Il Tribunale non deve avere una sua
« polizia »; attraverso i servizi decentrati deve «entrare»
nella realtà locale per assumere decisioni penetranti, incisive, e davvero
conformi all'interesse dei minori. D'altra parte i servizi si sono subito resi
conto che non possono fare a meno del Tribunale perché soventissimo è proprio
l'utente-famiglia a rifiutare e ad opporsi ad una «offerta di
aiuto» che sarebbe indispensabile per tutelare i bambini o i ragazzi.
E solo il Tribunale può forzare i
cittadini ad accettare l'intervento di organi
assistenziali. Anche gli stati di adottabilità, che
qualche operatore immaginava come provvedimenti sempre «repressivi», si
rivelano nel concreto come strumenti indispensabili per far uscire un minore
da una situazione di cronica sofferenza. Ma anche qui
occorre il Tribunale.
Dunque, bisogna collaborare, ciascuno restando fedele (e anzi chiarendolo bene) al suo
ruolo. Di fatto i rapporti e la collaborazione (salvo rare eccezioni) sono
buoni. È tuttavia assolutamente urgente che si formino i Consorzi tra i Comuni.
Non è possibile che il piccolo Comune possa assolvere alle
richieste del Tribunale di indagini complesse, o di interventi sui minori.
Attualmente
4) Oggi si deve denunciare la carenza di servizi preventivi e di assistenza alternativa.
Salvo il rinnovo delle convenzioni, fatto dalla Regione, e salvo lo sforzo
della Regione stessa per arrivare ad una definizione
di criteri-guida per i servizi che dovranno essere creati o che già esistono;
nulla di specifico è stato realizzato. Il discorso sugli
affidamenti familiari è assai vago e poco coordinato (ogni zona fa a modo suo,
empiricamente, senza collegamenti più vasti); le comunità-alloggio sono ancora
sulla carta; per i ragazzi «disadattati» (competenza cosiddetta amministrativa
del Tribunale) non c'è assolutamente nulla. Il rischio gravissimo è che
i ragazzi, non essendovi altre strutture per accoglierli, finiscano in
carcere.
Noi Giudici chiediamo uno sforzo
prioritario ed immediato per questi servizi. Chiediamo che
www.fondazionepromozionesociale.it