Prospettive assistenziali, n. 43, luglio-settembre 1978

 

 

ANALISI DI UN SERVIZIO DI ASSISTENZA DOMICILIARE (*)

MIRIAM MARIOTTI

 

 

Premessa

Il servizio in analisi fu costituito circa 5 anni or sono. L'assessore che ne fu il promotore ha ritenuto necessario sottoporre ad analisi il ser­vizio in quanto questo non ha avuto lo sviluppo e quelle implicazioni sugli altri servizi che la giunta si era posta.

L'assessore aveva, fin dall'inizio, messo a di­sposizione del servizio risorse consistenti; at­tualmente il gruppo di lavoro è così composto:

- personale n. 90 persone: 1 direttore lau­reato in sociologia, 3 infermiere diplomate, 4 as­sistenti domiciliari, 2 uomini;

- mezzi: n. 2 furgoncini;

- attrezzature varie, per rilevare la pressio­ne, siringhe, elettrocardiografi, biancheria, ecc.;

- alimentazione: la Casa di riposo fornisce i pasti già confezionati che uno dei corrieri con furgoncino porta a domicilio.

La città sede del servizio ha circa 100.000 abi­tanti. All'inizio dell'analisi, il sociologo, che ave­va iniziato il servizio domiciliare, era passato ad altre attività da circa tre-quattro mesi ed era stato sostituito da altro sociologo, sempre pre­parato all'Università di Trento.

 

Metodo

Furono tenute due riunioni alla presenza dell'assessore, del direttore del servizio (alla se­conda riunione partecipò anche il primo diret­tore), di alcuni operatori e interessati al pro­blema (Ospedale, O.N.P.I.) e, sempre alla se­conda riunione, di tutti gli operatori del servizio.

 

Tema delle due riunioni

- definizione del servizio;

- obbiettivi da raggiungere;

- campo di intervento.

Furono sottoposte le seguenti proposizioni:

1) «Un servizio è un organismo mediante il quale la collettività intende far arrivare al citta­dino una prestazione che lo fa partecipe del con­sumo, del benessere, del tenore di vita medio della popolazione tutta».

2) «Il servizio domiciliare per la popolazione in età senile, fa parte, con altri strumenti, di un settore emanazione dell'assessorato ai servizi per la sicurezza sociale, che ha come scopo la difesa della salute, la sicurezza sociale dei cit­tadini; pertanto questo settore deve riferire ogni sua azione ad una fascia di obbiettivi rispetto ai quali le decisioni, le attività, le azioni devono determinare un cambiamento, il superamento cioè di una situazione che rende l'uomo "di­pendente"».

3) «Per soddisfare questi obbiettivi il "set­tore" mette in moto delle forze fisiche (operato­ri), adopera delle risorse (quella parte di risorse finanziarie che la collettività mette a disposizio­ne per i problemi inerenti alla sicurezza socia­le), appronta strumenti adatti per dare inizio al superamento della situazione esistente, nel ca­so della popolazione anziana, la non autosuffi­cienza sia fisica sia economica».

Sottoporre al giudizio degli operatori le defi­nizioni del servizio aveva lo scopo di indurli a esprimere il loro disaccordo, o comunque a contrapporre l'idea che loro si erano fatti del servizio.

Infatti quando il lavoro permette una certa autonomia, l'operatore può costruirsi (senza a­verne chiara coscienza) un modello di servizio che tenga conto delle sue difficoltà, della sua vita privata. Anzi se la sua preparazione profes­sionale è solo un ricordo, o non ha lasciato traccia, il lavoro diventa solo un mezzo di gua­dagno (anche se modesto); pertanto il giudizio sull'organizzazione di cui fa parte è un compro­messo fra i suoi bisogni privati e la paura di perdere i piccoli privilegi che è riuscito a carpi­re all'interno del lavoro.

L'attività assistenziale è svolta da una perso­na o più persone che copre o coprono, nell'or­ganizzazione del servizio, «una posizione» e espleta o espletano una «funzione»; quindi l'in­terazione che è alla base dell'attività assisten­ziale non è spontanea ma è un impiego delle risorse culturali di conoscenza umana di chi assiste.

 

L'operatore unico

Ne deriva che l'organizzazione del servizio, anche se composta da più unità, deve avere un'unica professionalità in quanto l'attività assi­stenziale non può essere somministrata a setto­ri, cioè una persona va a domicilio per fare l'a­namnesi (si indica generalmente una assistente sociale per fare questo che non è altro che il banale e vessatorio «rapportino» per avere as­sistenza). Un'altra, l'infermiera o l'ostetrica, fa l'iniezione; un'altra ancora, l'assistente domici­liare, provvede a spazzare, spolverare, l'uomo a portare i pasti. Un'organizzazione così fatta co­sta almeno il 50% in più di ciò che realmente deve costare, isola l'assistito, non si mette a completa disposizione di esso, per cui non rie­sce a ricostruire per la persona in stato di bi­sogno dei momenti di normalità di vita, che sono il fine del servizio.

Il servizio è autoritario perché scimmiotta l'organizzazione piramidale ospedaliera ai cui vertici si ha il primario (direttore) e ai gradini immediatamente inferiori i medici, gli infermie­ri diplomati, gli infermieri generici. Ogni funzio­ne inferiore è sotto controllo di chi occupa la posizione superiore.

All'interno della piramide si creano rapporti diversi tra gruppo e gruppo a seconda di come il «controllo» sarà esercitato in linea gerarchi­ca sull'esecuzione, molte volte ciò è un para­vento per la pochezza del comando.

La trasmissione mediante il gruppo infermie­ristico dei trattamenti da somministrare al pa­ziente crea una catena gerarchica di cui la ca­posala è un anello importante, perché dà l'ini­zio alle deleghe di mansioni (cioè assunzione di compiti che non riguardano l'assistenza diretta al paziente, ma mansioni che spettano al perso­nale amministrativo o a quello medico), che porta alla degenerazione dell'attività terapeuti­ca ed assistenziale.

Se l'organizzazione piramidale degenera in un contesto ospedaliero, in un «servizio», deter­mina l'immobilità e l'isolamento della popola­zione. Infatti l'alto costo del servizio seleziona l'utente; l'espletamento del servizio solo per al­cune fasce di sottoproletarizzazione isola il ser­vizio dalla popolazione tutta; si forma un circo­lo chiuso per cui i costi salgono sempre più e l'isolamento diviene sempre più grande.

 

Risultati del dibattito nelle due riunioni

Il dibattito si soffermò su tre problemi:

1. la negazione dell'operatore unico median­te motivazioni di ordine pseudo-legali (l'assi­stente domiciliare non può fare le iniezioni).

L'ex direttore disse che era limitativo dire di no a una professionalità; ad esempio, lui non escludeva che anche le assistenti sociali non potessero inventarsi un ruolo utile per la po­polazione.

Una persona che coordini il lavoro è necessa­ria, altrimenti l'assessorato non sa chi chiama­re a rispondere delle eventuali mancanze del servizio;

2. il lavoro faticoso: quasi tutto il personale si espresse per l'assunzione di nuovo personale perché il lavoro era faticoso e non «ce la face­vamo più». Il bisogno di personale e che que­sto fosse personale tecnico fu espresso più o meno da tutti;

3. indifferenza per le «scelte». Non erano loro che dovevano decidere per l'operatore uni­co o come si doveva fare; a loro il direttore di­ceva di fare un determinato lavoro, di andare in una casa, e loro eseguivano.

Il dibattito si animò quando fu messo in evi­denza che l'operatore unico era una salvaguar­dia affinché il servizio non fosse il pretesto per pagare stipendi parassitari, cioè persone che non producono. Questo argomento fu ragione di accusa per il personale pagato dal servizio, ma dislocato altrove. Ma l'accusa non fu legata all'organizzazione del lavoro che ne veniva a sof­frire (aumento di lavoro), o ai costi che risul­tavano più alti, né al disagio del paziente, che avrebbe avuto un quoziente inferiore di assi­stenza, mancando il personale preposto al la­voro. Il personale quindi non si sentiva respon­sabile del servizio, né verso il paziente. Gli in­terventi mettevano in evidenza le posizioni di difesa e la incapacità, da parte degli operatori, di prefigurare un servizio nuovo, di accettare i necessari cambiamenti.

 

Colloqui personali

I colloqui personali tendevano a prospettare come l'eventualità di cambiamento non fosse legata alla necessità di lavorare di più, o di mo­dificare il loro comportamento di lavoro.

In ogni colloquio si cercò di stabilire che cosa intendessero per «bisogno», domandando esplicitamente se fossero d'accordo che:

a) il bisogno socio-sanitario che la popolazio­ne esprime è il prodotto di fenomeni, leggi, con­traddizioni sociali e biologiche dovute al «fun­zionamento del sistema»;

b) la povertà, la solitudine, l'offesa patologica determinano forme di bisogno che sono uguali per tutti i gruppi di popolazione colpita, anche se la condizione di sottoconsumo in una grande città è più drammatica che in un paese, anche se la popolazione anziana ha meno energie indi­viduali, meno risorse per rispondere;

c) il bisogno che una persona anziana esprime dopo una offesa patologica invalidante non è diverso da quello della popolazione giovane: in tutti e due i casi «la domanda» è un complesso di strumenti che hanno influenza sugli even­tuali residuati. Differente è però la risposta in­dividuale, la frequenza di ricadute, differenti saranno le risorse a disposizione dell'uno o dell'altro: per il vecchio le risorse cioè la fami­glia, gli amici, sono come rarefatti, e hanno una inferiore capacità di condizionare il fenomeno della solitudine e della malattia.

Le risposte furono vaghe, esprimevano in gran parte scetticismo e sfiducia verso gli assistiti: «chiedono l'assistenza ma hanno i soldi in ban­ca»; «è gente malata, non ha mai lavorato»; «ha fatto una vita!... la conoscono tutti in città».

Anche i due operatori maggiormente politiciz­zati, che teorizzavano l'emarginazione del vec­chio, non riuscivano a inquadrare gli assistiti fra gli emarginati poiché anche il loro giudizio era permeato degli stessi pregiudizi.

Il giudizio positivo del gruppo verso gli assi­stiti era sempre legato alla remissività del sog­getto «la nonna è buona, non chiede mai nul­la», «lo dice sempre che è troppo quello che si fa per lei», ecc.

 

Motivazioni

Passammo allora alle motivazioni per cui ave­vano scelto l'attività socio-assistenziale. Tranne due persone l'età del gruppo è piut­tosto basso: 24-25 anni di media.

Il direttore, laureato in sociologia, sposato con una laureata, metteva in evidenza che «do­veva lavorare» nonostante le proposte che gli venivano da ambienti universitari. Era evidente la frustrazione di dover accettare un lavoro che lui riteneva inferiore alle sue capacità. Pratica­mente per il servizio non faceva niente anche se cercava di fare modelli mensili o settima­nali di ragguaglio del servizio.

Le tre infermiere diplomate. Le motivazioni che le tre infermiere portavano come base della scelta di lavoro erano le seguenti:

- la prima non sopportava i turni ospedalie­ri. Il lavoro domiciliare le lasciava libero il po­meriggio, non le sconvolgeva i ritmi di vita (tur­ni di notte);

- la seconda aveva il marito, che doveva laurearsi, che era stato per molto tempo rico­verato ed era ancora molto debole. Il servizio permetteva a lei di accudire alla casa e al marito;

- alla terza, appena si era diplomata, era stato proposto quel lavoro, e l'aveva accettato.

Per quanto riguarda le quattro assistenti do­miciliari:

- la più anziana, che aveva fatto parte del servizio fin dall'inizio, da giovane era stata alle dipendenze di un professore che faceva attivi­tà privata oltre che ospedaliera (mi è sembra­to di capire che la signora ne avesse ricavato una grossa esperienza), ma alla morte del pro­fessore essa non aveva nessun diploma o do­cumento valido che attestasse la sua capacità infermieristico-assistenziale. Accettò di far par­te del servizio domiciliare che si stava istituen­do con piacere, sperando di poter adoperare l'e­sperienza passata;

- la più giovane: sposata, non aveva nessu­na qualificazione, ha accettato questo lavoro co­me ne avrebbe accettato un altro. Lo espletava però molto volentieri;

- la terza assistente domiciliare non ha e­spresso motivazioni particolari, accettava il ser­vizio, le piaceva, ed era preparata a fare anche altre cose (iniezioni, assistenza diretta), ma es­sendoci le tre diplomate faceva quello che le veniva detto. Si sentiva che non aveva nessuna fiducia che le cose cambiassero, parlava po­chissimo;

- la quarta assistente, l'ultima venuta; aveva lasciato il lavoro di impiegata perché, con un ri­tardo culturale di almeno tre anni, aveva cre­duto che fare l'operatrice sociale fosse anche fare attività politica. Lo slogan del '68 le era giunto distorto, portava nel lavoro una emoti­vità che, se non era peggiore dell'indifferenza o della tiepida adesione di altre, certo non era migliore.

Circa i due uomini:

- il più giovane alternava momenti in cui diceva, per farsi forza, che era li per lo stipen­dio (aveva una moglie che non lavorava) e mo­menti in cui ricercava un suo ruolo (faceva un po' di tutto, aggiustava, curava insieme all'altro le case delle persone anziane). Anche lui avreb­be voluto che il lavoro fosse politico, ma era pronto a buttare via queste velleità pur di avere un lavoro;

- il secondo uomo lavorava al servizio per qualche ora; poi doveva occuparsi delle colonie, del lavoro del capo divisione del Comune, che era fra l'altro suo lontano parente.

Si arrangiava anche lui a fare i lavoretti, sen­za che ci fosse un indirizzo, cercava di fare del suo meglio, aveva bisogno di lavorare.

 

La mancanza di motivazioni non è preoccupante

La mancanza di motivazioni verso il «posto» che le operatrici vanno ad occupare non è preoc­cupante; sappiamo che la maggioranza di queste non ha fatto una scelta ma ha seguito degli indirizzi ed ha accettato la porta che si apriva più facilmente. Preoccupano invece alcuni feno­meni che già si possono analizzare in Inghilterra, in Francia, in America e cioè il gonfiamento del settore mediante il rilascio di una infinità di diplomi che non preparano al lavoro assisten­ziale, tutelare e sanitario, ma determinano la burocratizzazione di questi servizi. Infatti l'ope­ratore frustrato dal non sapere esattamente che cosa fare, brutalizzato da un rapporto difficile con le persone che dovrebbe assistere, si ritira su un terreno rassicurante, quello di fare i rap­porti, di compilare o inventare una scheda (que­sta vocazione è presente in tutto il gruppo che si esamina), esigendo che gli si riconosca una scala di valori formata da «il titolo», non dal­la capacità.

 

La mancanza di professionalità

È evidente che malgrado i titoli, ciò che man­ca a queste persone è la professionalità, essere cioè «brave», avere un bagaglio di conoscenze da applicare al «caso», e cioè la capacità do­vuta alla preparazione di saper interpretare il «bisogno» altrui.

Manca loro inoltre un altro requisito che dif­ferenzia l'impiegata dalla professionista, cioè organizzare da sé il lavoro, cercare da sé l'at­tività.

 

Distribuzione di materiale e richiesta di parere sui contenuti

Distribuimmo il materiale, compresa l'espe­rienza organizzativa del servizio domiciliare di una città vicina, dove erano state formate delle categorie di assistenza, i costi, i tempi di esple­tamento. Per questo documento richiesi il pare­re e il giudizio, possibilmente scritto, degli ope­ratori. Tranne la risposta del direttore non ebbi nessun scritto.

Nella risposta il direttore sbrigativamente suddivideva tutti í nominativi che il servizio a­veva avuto nelle categorie di bisogno da me formate, senza darsi la briga di leggere che co­sa si dovesse intendere, ad esempio, per biso­gno «globale» (che è la necessità, da parte della persona assistita, che l'operatore si sosti­tuisca a lei in alcune funzioni e riproduca per questa alcuni momenti di normalità di compor­tamento).

«L'azione tutelare si impernia su delle ma­nualità, su attenzioni che possono riassumersi nelle pulizie personali, nella cura (se ce ne so­no) delle piaghe da decubito, nell'attenzione e nell'aiuto nell'evacuazione (clistere) e della min­zione, nell'aiuto a vestirsi, trasferirsi, affinché la persona si senta padrona della sua casa, in­serita normalmente nel suo "territorio" fami­liare».

 

I livelli di assistenza non sono legati alla patologia pregressa

I livelli e la globalità di assistenza, non sono legati alla patologia pregressa, ma alle condi­zioni «generali» comprese quelle economiche. Una persona può avere bisogno di assistenza globale ed essere perfettamente sana; un'ar­trosi non le permette di muoversi, o un inciden­te l'ha mutilata, in più ha una casa senza alcun conforto ed è povera.

La superficialità di pareri del personale mi portò alla certezza che l'insegnamento e la di­scussione sulle modalità di lavoro non avevano senso se il gruppo di operatori non veniva mes­so di fronte alla propria produzione, a ciò che realmente facevano e a quanto costava la loro produzione, e se questa era realmente utile alle persone oggetto delle loro cure; per queste ra­gioni, mentre attendevano la continuazione del­la discussione sul lavoro e sui contenuti, iniziai senza preavviso ad uscire ogni mattina con un operatore.

 

Controllo sul campo

La mattina, come al solito, alle 8 ero in uffi­cio (mi ero già accorta che arrivavano alle 8-8,10 per firmare, ma che dopo la firma parlottavano fra loro e uscivano verso le 9).

Chiesi il cartellone «settimanale di marcia» (avevo consigliato che una volta la settimana facessero insieme un cartellone dove giorno per giorno, ora per ora, si precisasse dove si va, che cosa si fa, il tempo medio di espletamento), ma non l'avevano. (Continuavano mattina per mattina a preparare misteriosi fogliolini dove scrivevano i nomi delle persone da assistere, ma questi fogli non risultavano fra i documenti del lavoro espletato).

Annunciai che avrei seguito la prima infer­miera diplomata. La prima reazione dell'interes­sata fu quella di dire che non era possibile, che erano già in due, e che dovevano andare da una persona molto grave (era la zia del presidente dell'ordine dei medici, viveva con la figlia agia­ta) che da soli due giorni era assistita.

Non appena fummo in macchina la pregai di darmi il foglietto per rendermi conto di cosa si doveva fare. Dalla lettura dei foglietti appare chiaro che vi sono solo dei nominativi, ma non è specificato che cosa si andasse a fare, né la durata della prestazione.

 

Prima giornata di lavoro sul campo

1ª persona. Si poteva considerare nella cate­goria di assistenza globale. L'infermiera (la per­sona esigeva molto impegno) fece il bagno a letto, tagliò le unghie ai piedi e alle mani, fece la pulizia dei capelli. La figlia aiutava, con lei fu rifatto il letto (spazzare e spolverare lo fa­ceva la figlia).

2ª persona, portatrice di esiti di ictus, vive con due sorelle che l'aiutano in tutte le cose di cui la persona ha bisogno. L'azione assistenzia­le dell'infermiera si limita ad alzarla dal letto (aiutata dalle sorelle), metterla in poltrona. Do­po di che l'infermiera lascia la casa e va a fare due iniezioni. AI ritorno dopo 30-40 minuti aiuta le sorelle a mettere la paziente a letto (il servizio ha adottato l'orario continuato, quindi l'ope­ratore non può tornare nel pomeriggio a rimet­tere a letto chi si è alzato). Il fatto di rimettere a letto la paziente dopo 45 minuti è sbagliato, perché la persona in quel piccolo spazio di tem­po doveva mangiare; inoltre avrebbe dovuto ria­bituarsi a stare a sedere, e cominciare, aiutata, la mobilizzazione.

3ª persona, portatrice di ano artificiale. Da considerare nella categoria di bisogno globale. Pulizia dell'ano artificiale: la donna viveva sola, ma la nuora veniva tutti i giorni ad assisterla. (Anche questa era assistita da pochi giorni. La signora è madre di un vigile urbano).

Le altre persone segnate sul foglietto, tutte autosufficienti (3 non furono trovate nemmeno in casa).

Nel frattempo era passato il mezzogiorno, due persone non vollero l'iniezione, né la misura­zione dei valori pressori, perché stavano man­giando. Ciò conferma che l'orario di servizio deve essere eseguito dalle 9 alle ore 12, e dalle ore 16 alle 19 perché le persone anziane amano mangiare presto, poi andare a riposare.

Di fatto: 3 servizi completi; 4 iniezioni intra­muscolari; 2 misurazioni di valori pressori; 1 somministrazione gocce.

 

Seconda giornata

Delle 16 persone segnate sul foglietto (for­se per impressionarmi):

1ª persona completamente inferma, ma già alzata, da aiutare a sistemare il busto (l'aveva già fatto l'assistente sociale);

2 andare a vedere come stavano!!!

1 domandare se voleva il bagno!!!

2 dare gocce;

3 pressione arteriosa;

1 telefonare al medico (perché non farlo dall'ufficio?).

Altre non erano in casa.

 

Terza giornata

Il foglietto riporta 12 persone da visitare, ma come mi fu detto chiaramente, ormai avevo vi­sto tutte le persone in carico:

1 portare buono di biancheria (sic);

6 pressione arteriosa (sono in gran parte quel­li degli altri giorni);

2 andare a chiedere se si poteva mandare a pulire la casa (era talmente sudicia che doman­dai perché non si puliva, mi fu risposto che l'as­sistente domiciliare si era rifiutata di andarvi; ed erano mesi che non si faceva vedere. Vivo­no in quella casa una coppia anziana, la moglie confusa, dopo che loro avevano pulito dice che «sputava per terra e faceva sporco»).

Questa la popolazione che tre infermiere di­plomate seguivano, però era anche la popolazio­ne seguita dalle assistenti domiciliari (quattro) e dai due uomini.

È stato inoltre rilevato l'andazzo di andare in due persone dalla stessa assistita, e magari questa ha solo bisogno di essere messa a let­to, o un familiare aiuta le due infermiere o c'è da fare una sola iniezione.

Si seguita a mettere in lista di lavoro ciò che non è lavoro (telefonate al medico e altre pic­cole cose, o addirittura persone che non si tro­vano in casa).

 

Il lavoro delle assistenti domiciliari

Il lavoro delle assistenti domiciliari va un po' meglio, sebbene che anche in questo si notino delle cecità, cioè non si vede il lavoro, non si vede il danno che si deve riparare. Ad esempio l'infermiera va a dare le gocce e l'assistente domiciliare va a spazzare. Non si va dove è ve­ramente necessario (vedi la coppia di vecchi che vivono soli in una unica stanza sudicia oltre i li­miti di sopportazione). Ciò denota che non si ca­pisce che lo sporco, la mancanza di ogni tipo di benessere fa scendere i livelli di socialità e peggiora lo stato confusionale della donna, ren­dendo più penosa la mutilazione di un braccio dell'uomo.

Come è visibile dall'orario praticato, la vocazione a rimanere in ufficio è una costante. Si noti inoltre, che, anche se si firma alle 8, fino alle 9 non si è dagli assistiti, e si finisce alle 12. Non impressioni la lista dei nominativi: per la maggioranza dei casi si tratta solo di rior­dinare una stanza, tirare su o rifare un letto, manualità che non superano i tre quarti d'ora di impegno.

 

Si tende ad evitare l'ambiente degradato

Inoltre si è creata una grossa stortura nel la­voro, per cui si fa solo attività domestica (spaz­zare, rifare il letto), si privilegia chi ha una casa passabile mentre si evita l'ambiente de­gradato. Ne deriva che la persona che lo abita vive molto al di sotto delle condizioni igienico-­sanitarie minime, è esposta al rischio di malat­tie e di infezioni di cui si può fare portatore, è al di sotto delle condizioni ambientali che favo­riscono le condotte e il comportamento sociale nella normalità.

In questi casi, che oltretutto sono pochissimi, la presenza nel servizio dei due uomini, facilite­rebbe l'intervento in quanto essi avrebbero il compito di riportare l'ambiente alla normalità, mentre il personale femminile, in un secondo tempo, provvederebbe a mantenere i livelli di normalità ambientale ottenuti.

Ogni assistente domiciliare visita in media quattro persone ogni mattina.

Ho seguito nel loro lavoro anche le assistenti sociali, andando un giorno con ciascuna di loro. Così per i due uomini.

Sono rimasta inoltre tre mattine nell'ufficio insieme al direttore per constatare il volume di lavoro (il direttore chiedeva per l'ufficio una impiegata); inutile dire che non ho visto mai più di una persona al giorno.

 

Tipologia della popolazione assistita

Dall'esame delle prestazioni scaturisce un e­lemento importante: la popolazione in stato di «bisogno» non chiama il servizio, non lo cono­sce. Infatti chiama il presidente dell'ordine dei medici per una sua parente non per i suoi assi­stiti, chiama un figlio vigile urbano, gli altri so­no tutti elementi che ruotano intorno all'ECA, as­sistiti dall'ECA in qualche modo.

La padrona della pensione, alla quale si va a fare «la iniezione» (è super autosufficiente), ha rapporti con il dipartimento perché nella pen­sione (a me pare malfamata) si mandano anche dei vecchi pagati dal Comune.

La madre di un funzionario di banca, alla qua­le si va a fare le pulizie, ha legami con il dipar­timento perché la banca ha dei rapporti di lavoro con l'ECA, ecc.

 

La popolazione non conosce il servizio

Poi c'è tutto il grosso delle persone in stato di insufficienza economica: prima di tutti le ve­dove, le nubili alle quali pur lavorando non è stata garantita una pensione, le separate perché lasciate dal marito con 3-4 mobili come unica ricchezza, qualche vedovo; poi uomini con pen­sioni minime, che hanno lavorato specialmente in agricoltura, magari sono anche andati all'e­stero, ma la pensione è irrisoria, sono soli, vec­chi. Ma così... manca la popolazione vera: il vecchio che è in famiglia o che ha una pensione che gli basta fintanto che non si ammala. Man­ca insomma la popolazione; si opera su casi già considerati, e forse arbitrariamente già archi­viati, ma non sul bisogno di tutta la popolazio­ne. Un servizio che la comunità esprime non può essere per un numero chiuso e talvolta discu­tibile (e nel bisogno che esprime) ma per tutta la popolazione.

 

Produzione del servizio

Ruotano intorno al servizio dalle 40 alle 50 persone (sono state riesumate anche le vecchie schede, ma non sono stati raggiunti visibili mi­glioramenti numerici).

Nella settimana il servizio produce 35-38 pre­stazioni, molte volte, come si è notato è una stessa persona che assomma la prestazione dell'infermiera diplomata, dell'assistente domicilia­re, dell'uomo che magari porta il pranzo o che accompagna sempre in macchina le persone dal medico o altro.

Ecco il dettaglio:

- 3 infermiere diplomate: n. 5 persone rice­vono assistenza globale ogni giorno. n. 12 per­sone, ogni giorno, non le stesse, ricevono inie­zioni intramuscolari (a giorni alterni) o la misu­razione dei valori pressori; ogni settimana od ogni 10-12 giorni;

- 4 assistenti domiciliari: 12-14 persone al giorno ricevono il servizio domiciliare per la pulizia della casa (a giorni alterni) o il riordino di questa;

- autista: 5-6 pasti al giorno. Accompagna qualche persona dal dottore o alla fisioterapi­sta. Aiuto nella manutenzione delle case dove vivono gli anziani.

 

Costi del servizio

L'esame della produzione di un servizio porta all'esame dei costi del servizio stesso.

Anche se i «costi» vanno valutati politica­mente e socialmente, certo occorre partire sem­pre dal costo reale. Nel caso del servizio che si prende in esame, il costo reale corrisponde al monte salari degli operatori, ad alcune spese generali (luce, telefono, posta, benzina, manu­tenzione macchine, cartoleria), all'ammortizza­mento degli strumenti (aspirapolvere, macchine per scrivere).

Monte salari e stipendi mensili. Senza i con­tributi previdenziali il monte salari risulta:

 

1 direttore                                      L.         244.000

3 infermiere diplomate                                           

  180.000

  233.000                              L.         646.000

  233.000                                                     

4 assistenti domiciliari                    L.         740.000

1 assistente domiciliare                  L.         170.000

1 autista (tempo parz.)                   L.         100.000

Totale     L.       1.900.000

 

L'ufficio amministrativo del Comune ha preci­sato che nel 1976, per coprire gli stipendi degli operatori del servizio domiciliare, sono usciti L. 39.810.000.

 

Costo per ogni prestazione. Per stabilire il co­sto di ogni prestazione dobbiamo far pesare su ogni stipendio il valore della tredicesima men­silità, dei contributi previdenziali, della quota parte delle spese generali e degli ammortizza­menti delle apparecchiature.           

Monte spese annue:                               

Stipendi più 13ª mensilità                         L.       24.700.000

Contributi previdenziali                             L.       10.000.000

Spese generali (luce, telef., posta,           

benzina, manutenzione macchi­                

ne, ecc.)                                                 L.         2.440.000

Ammortiz. spese apparecchiature             L.            500.000

Farmacia, disinfettanti, pulizia,                

spese straordinarie                                  L.         1.000.000

Totale                    L.       38.640.000

 

Assistenza a domicilio

Assistenti domiciliari:

Stipendio L. 180.000 + 13ª = pa­ga oraria   L.               1.460

Oneri previdenziali                                   L.                  580

Spese generali, ammortizz., ecc.              L.                  210

Totale                    L.               2.250

Costo della coordinazione                        L.                  145

Totale                    L.               2.395

 

Assistenza domiciliare generale

Attualmente vengono segnate 300 ore per questo genere di assistenza. L'ho viste pratica­te in tre soli casi.

L'assistente domiciliare riordina:

la camera: rifare il letto, pulire il pavimento, spolverare i mobili;

la cucina: lava i piatti, pulisce il pavimento, se necessario prepara il cibo;

il gabinetto: pulizia del water, delle cose ne­cessarie alla toilette, pulizie del pavimento.

Da una persona il tempo è di 1 ora e 20 minuti.

Poiché le case delle persone anziane non han­no molte stanze, massimo due, il riordino non può superare l'ora e mezzo di tempo.

Ci sarebbe un altro tipo di assistenza domi­ciliare, che non ho visto praticare dal gruppo in esame, e cioè l'assistenza ai confusi: alzare, aiuto nel vestire e nelle pulizie personali, scal­dare il caffè, preparare qualche cosa per il mezzogiorno.

 

Analisi delle prestazioni

L'analisi di queste prestazioni conferma che non è possibile che il lavoro sia suddiviso in due professionalità; è fin troppo facile dimo­strare che mentre si fanno alcune pulizie, si può aiutare la persona anziana a vestirsi, o a prepa­rare il cibo o si può somministrare una terapia o una iniezione intramuscolare, senza che il tem­po debba aumentare.

1) Il costo di una iniezione è troppo alto, non è neppure motivato dall'utilità. Infatti sono per lo più iniezioni ricostituenti, date a persone per lo più autosufficienti, che potrebbero averle al poliambulatorio o dalla persona che va a fare le pulizie, cioè l'assistente domiciliare.

2) Il costo dell'assistenza globale non è com­petitivo con il «ricovero». Il risparmio appa­rente è dovuto al fatto che gli alti costi, il vitto, la durata dell'assistenza oltre le ore del servi­zio domiciliare sono sostenuti dai familiari.

 

Servizio non competitivo con le case di riposo

Pierre Naville nel suo famoso trattato sul la­voro dell'uomo, dimostra che nelle società capitalistiche, quando un servizio costa troppo lo si trasforma in autoservizio, lo si scarica cioè sui familiari o sulla persona stessa.

 

Orario di lavoro

Poiché non si riesce mai ad uscire dall'uffi­cio prima dei 20 minuti alle 9, talvolta anche 10 minuti alle 9, non è possibile lavorare al mat­tino più di 4 ore.

Le operatrici dicono che rientrano due pome­riggi alla settimana per i «recuperi». In realtà:

- il lavoro del pomeriggio non si riesce a controllare;

- si dovrebbero recuperare 9 ore, quindi i due pomeriggi dovrebbero essere di 4 ore e 30 minuti, mentre non superano mai le 2 ore e 30 minuti;

- è indispensabile rientrare 3 pomeriggi alla settimana.

Se alla produzione reale del servizio si ag­giunge il costo di queste 9 ore settimanali, noi vedremo aumentare il costo di ogni prestazione del 16 per cento in più. Pertanto il Comune (la collettività) paga per il solo servizio domicilia­re L. 21.200 al giorno senza che vi sia un adegua­to corrispettivo di lavoro.

È evidente che si deve fare l'orario spezzato con 6 ore di lavoro per ciascun operatore al giorno.

Si può concedere un pomeriggio la settimana, libero per tutti, in maniera che ritrovandosi in «sede» si discuta il lavoro, si faccia il cartel­lone per la settimana seguente.

Il portare i pasti è inaccettabile: al costo del pranzo si deve aggiungere il costo della benzina e della persona che guida il furgoncino. Per­tanto dovrà essere l'assistente domiciliare a pre­parare, in casa dell'assistito magari, un giorno o due la settimana rimanendo un tempo più lun­go per preparare il sugo o le cotture per le qua­li occorre maggior tempo, mentre per il pranzo giornaliero lo farà mentre riordina le stanze.

Se il servizio «miglioramento ambiente» de­ve restare, io sarei per il sì, si deve fare un pia­no piuttosto lungo per circa tre mesi e tranne qualche urgenza portare avanti sistematicamen­te il piano di bonifica delle casa in maniera da rendersi conto se ai fini della popolazione an­ziana questo servizio è utile o meno.

 

I costi sociali

Fino a questo momento sono stati discussi i costi reali, cioè quanto vale una reale presta­zione in costo moneta. Per un servizio, special­mente se erogato dal Comune, occorre valutare l'utilità sociale del servizio rispetto al costo monetario.

Si intende dire con questo che se la presta­zione è importante, nel nostro caso per un vec­chio, tanto da fargli raggiungere i livelli medi di tenore di vita, garantirgli i legami con gli amici, l'inserimento nel suo terreno sociale, eb­bene anche se il costo della prestazione risulta alto lo si deve valutare rispetto ai risultati eco­nomici e sociali che la prestazione favorisce. Questo concetto può essere pericoloso se vie­ne svisato; si è visto come la costituzione di servizi, in nome di un sociale vago, costi alla collettività senza dare risultati tangibili alla per­sona in stato di bisogno.

 

 

 

(*) Questo studio fa parte dell'attività di ricerca esple­tata da Miriam Mariotti presso l'istituto di Gerontologia dell'Università di Firenze.

 

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