Prospettive assistenziali, n. 43, luglio-settembre
1978
SITUAZIONE
DEI SERVIZI ASSISTENZIALI DI SALERNO.
RILEVAZIONI E PROPOSTE
Pubblichiamo fa drammatica relazione
compilata dalle allieve assistenti sociali (anno accademico 1977-78) della
Scuola superiore di servizio sociale di Salerno con l'assistenza delle
monitrici Enza Capasso e Rosmina
Passannanti.
La
relazione è stata presentata alla tavola rotonda del 31-5-1978
che aveva per tema
«Il decentramento istituzionale - Occasione storica
per una diversa politica dei servizi sociali. Ruoli
degli enti locali territoriali».
Cogliamo
l'occasione per informare il lettore che a Salerno si è recentemente costituita
una Sezione dell'Unione per la lotta contro l'emarginazione sociale che ha
svolto e sta svolgendo una intensa attività
promozionale.
Coloro
che desiderano informazioni possono rivolgersi alla Segreteria c/o Passannanti, Via Pietro del Pezzo 53/C, Salerno.
Premessa generale
Come allieve della Scuola di
servizio sociale abbiamo voluto questo incontro:
- per dare una finalità immediata al
complesso di conoscenze teoriche e di acquisizioni
pratiche apprese durante l'anno di studio;
- per portare il nostro modesto
contributo di esperienze, di idee, di impressioni, al
processo innovativo innescato dal D.P.R,
n. 616 nel settore assistenziale;
- per confrontarci con gli
amministratori pubblici e con tutte le persone comunque
interessate al rinnovamento dei servizi socio-sanitari ed educativo-ricreativi,
al decentramento amministrativo, alla promozione umana e sociale di ogni
singolo cittadino.
Abbiamo pensato, pertanto, di fare
un bilancio critico dei tirocinii effettuati
presso i vari Enti e strutture socio-assistenziali della nostra provincia. sia da noi che dalle allieve che ci hanno preceduto in
questi dieci anni di attività della Scuola, cercando di mettere in evidenza: -
lo stato attuale dei servizi;
- le modificazioni avvenute;
- i segni di rinnovamento notati;
- le possibilità di trasformazione riscontrate, ecc.
Sappiamo di non dire nulla di nuovo,
perché queste stesse cose gli operatori del settore le
vanno ripetendo da anni, ma poiché il nostro discorso di oggi è rivolto agli
amministratori pubblici, più che agli operatori sociali, ci teniamo a far
sentire anche la nostra voce nella speranza che, unita alle altre, possa
finalmente provocare quell'auspicato mutamento di rotta nell'organizzazione e
nella gestione locale dei servizi sociali e sanitari.
Prima di passare alla disamina
particolare dei singoli settori nei quali abbiamo operato, ci sono da fare
alcune considerazioni generali.
Al contrario di quanto avvenuto in
altre città italiane (specie del Centro-Nord) dove le Amministrazioni
comunali, provinciali e regionali, gli stessi Enti di categoria, molti istituti
di assistenza, a volte anche organi giudiziari quali
il Tribunale per i minorenni, hanno dato vita da tempo a servizi decentrati nei
quartieri, a interventi alternativi all'istituzionalizzazione, ad iniziative
comunitarie pubbliche, a comitati di coordinamento fra gli Enti, a gruppi
cittadini di autogestione e controllo della cosa pubblica, la situazione salernitana si caratterizza negativamente per:
- la sua assoluta staticità;
- la più completa mancanza di
programmazione e di coordinamento;
- la totale assenza di iniziative alternative, specie pubbliche;
- l'enorme distacco fra i vari Enti
ed i loro rappresentanti e i cittadini;
- il profondo
divario fra í servizi socio-assistenziali offerti ed i reali bisogni della
cittadinanza;
- la disinformazione imperante e il
disinteresse reciproco fra amministratori e amministrati;
- la colpevole
ignoranza dell'urgenza e della necessità dell'inserimento e del corretto utilizzo
del servizio sociale a livello di tutte le strutture sociali, sanitarie, scolastiche, ecc. esistenti.
A riprova di quanto asserito in
quest'ultimo punto, basterà far notare:
- che né l'Amministrazione comunale
di Salerno, né alcuno dei 156 Comuni della nostra provincia dispone
di assistenti sociali o di altri operatori sociali;
- che altrettanto si può dire per
gli oramai disciolti E.C.A. e per gli istituti assistenziali
da essi dipendenti;
- che l'Amministrazione
provinciale ha due sole assistenti sociali per ben quattromila assistiti,
sparsi oltretutto su una vasta area territoriale, e che esse sono considerate
più delle impiegate che delle operatrici sociali con compiti ben definiti;
- che, tranne il Consorzio
antitubercolare, che annovera fra i suoi burocrati anche un'assistente
sociale, tutti gli altri Centri dipendenti dall'Amministrazione provinciale,
malgrado la delicatezza dei loro compiti, sono privi di tale categoria di
personale, e citiamo: l'istituto provinciale per l'infanzia ex brefotrofio, il
Centro malattie sociali, l'orfanotrofio femminile di Marina di Vietri, il Centro igiene mentale, il Preventorio marino di
Torre Angellara, e qui ci fermiamo.
Come aspettarci, poi, che altri
Enti, pubblici o privati; gli istituti per minori o per anziani; le Scuole
statali o parificate; le cliniche e le infinite altre strutture, che operano
in tali settori, possano avvertire l'esigenza di istituire un proprio servizio
sociale o, per lo meno, di usufruire dell'opera
gratuita di allieve e volontari?
In una realtà locale come la nostra
dove, alle soglie del duemila, non si conosce altra soluzione
all'infuori del ricovero in istituto; si parla e si agisce ancora in
termini di assistenza e di beneficenza e non di servizi sociali; si crede ancora
di poter allietare i bambini rimasti da soli in istituto anche durante le
festività natalizie, costringendoli ad ascoltare lunghi discorsi gonfi di
retorica e di commiserazione prima di distribuire loro qualche giocattolo. In una simile situazione sembra addirittura avveniristico
parlare di centri sociali di quartiere, di servizi aperti, di soluzioni
alternative come l'affidamento familiare, l'assistenza domiciliare, le
comunità alloggio, le case-famiglia, ecc.
Ecco quindi come le nostre
possibilità di fare tirocinio pratico siano state sempre molto esigue e poco
soddisfacenti e come esse, con il trascorrere degli anni, anziché moltiplicarsi
e migliorare, siano invece andate progressivamente
assottigliandosi e peggiorando.
L'assenza di una mentalità
progressista e riformatrice, di una intraprendenza
accorta e recisa determina ancor oggi, nei nostri confronti, da parte delle
tradizionali strutture assistenziali, un atteggiamento ora paternalistico, ora
insofferente ed ostacolante, ora apertamente tollerante, solo di rado
spontaneamente collaborante e sinceramente interessato e preoccupato della
idonea preparazione di un personale che domani dovrà pure essere utilizzato.
D'altronde, in sostituzione degli
Enti soppressi o in via di estinzione, non sono sorte
iniziative alternative e decentrate; accanto ad istituti che sempre più temono
le intromissioni esterne, non sono stati creati centri aperti e servizi di
quartiere.
L'unica esperienza di lavoro sul
territorio è stata effettuata un paio di anni fa,
nelle due condotte sociali del centro storico e di Mariconda,
le uniche aperte delle nove deliberate dalla Giunta comunale fin dal 1973.
Purtroppo mancava la volontà
politica di farle funzionare davvero: furono infatti
dotate solo di qualche locale con poche suppellettili e di personale precario e
numericamente insufficiente. Senza mezzi finanziari, senza
idonee strutture, senza la possibilità di attuare programmi innovativi,
esse dopo tre anni di stentata sopravvivenza, cessarono ogni attività.
Attualmente, sulle esigenze reali di un servizio
sociale di quartiere, si sono innestate iniziative parrocchiali nelle quali
ugualmente ci siamo inserite, ma che presentano, a nostro avviso, tutti i
limiti di un'esperienza privata e confessionale. Eppure il quartiere è il
luogo ideale per attuare, a vari livelli socio-sanitari, una
politica di prevenzione e di individuazione precoce dei bisogni
individuali e collettivi, tanto più che tale azione non viene ancora esplicata
da alcuna delle strutture esistenti.
Non si può dire
che non se ne avverta la necessità: sia a Salerno che in provincia stiamo
assistendo, indifferenti o impotenti, al dilagare di fenomeni di disadattamento
giovanile quali la delinquenza, la prostituzione e la droga.
Non si può neanche dire che manchino le disposizioni legislative in merito:
già da qualche anno il Parlamento ha fatto obbligo agli Enti territoriali di
istituire consultori familiari e centri antidroga.
Malgrado Salerno offra in questi due
settori un panorama quanto mai vuoto e squallido, ancora
non si nota da parte del Comune e della Provincia, rispettivamente competenti a
tal riguardo, né impegni programmatici, né fervore di iniziative. Così, per
l'estesa gamma delle problematiche familiari, abbiamo attualmente
solo due consultori, impropriamente definiti tali, gestiti da privati con
opposte tendenze e che offrono una serie limitata di prestazioni.
Si rende quindi urgente
l'istituzione di strutture comunali qualificate nel
personale, nell'organizzazione, nella serietà della programmazione, in grado
di soddisfare pienamente le diverse esigenze di una vasta popolazione e di
consentire il controllo e la partecipazione anche dei gruppi di base.
Per i gravi e scottanti
problemi legati alla prevenzione ed alla cura delle tossicodipendenze non vi
sono che comitati pubblici di studio e qualche estemporanea iniziativa privata.
Mentre i numerosi tossicomani salernitani hanno
recentemente perso l'unico punto di riferimento, per quanto discutibile,
costituito dal reparto neurologico degli Ospedali riuniti, Regione e Provincia
da più di un anno, per divergenze burocratiche, rimandano l'apertura di un
centro antidroga che dovrebbe essere gestito dal centro di igiene
mentale, speriamo con criteri e metodi più funzionali ed incisivi rispetto a
quelli messi in atto per la prevenzione e la cura delle malattie mentali.
Uopo queste osservazioni di
carattere generale, passiamo all'analisi delle esperienze effettuate nei
campi principali dell'assistenza iniziando dal settore più vario, più ampio,
più foriero di deleterie conseguenze sociali e cioè
quello dei minori.
Settore minorile
Disadattamento
minorile
Vorremmo parlare per primo di tre
organi che non si occupano di assistenza materiale ai
minori ma della loro tutela morale e giuridica, e cioè:
- il Giudice tutelare;
- il Tribunale per i minorenni;
- il Servizio sociale per i
minorenni. Ebbene, presso il primo di essi abbiamo dovuto
rinunciare a svolgere tirocinio dato che l'attività prevalente di
quell'ufficio è imperniata non sui problemi dei minori ma sulle cause civili e
di sfratto.
Il Tribunale per i minorenni ci ha
permesso solo di assistere, quali muti testimoni, alla fase finale dei processi
penali.
Con il Servizio sociale per i
minorenni c'è la volontà e la possibilità di collaborare, tanto è vero che sia
il dirigente che le assistenti sociali di esso hanno
accettato più volte di partecipare a incontri e dibattiti organizzati da
questa Scuola, ma un'effettiva collaborazione non si è ancora realizzata per i
seguenti motivi:
- l'anno scarso l'ufficio era appena
stato istituito ed era quindi ancora in fase di organizzazione;
- quest'anno, poi, l'applicazione
del D.P.R. 616 con il conseguente passaggio delle competenze civili ed
amministrative del Ministero di grazia e giustizia, che ancora non le ha cedute
completamente, al Comune di Salerno, che tuttora non le ha ancora assunte, ha
reso molto difficile e precaria l'attività dell'ufficio.
Tuttavia non ci è
stato difficile notare che ognuno di questi tre organismi opera per proprio
conto e senza alcun collegamento o collaborazione con
Sulle infauste conseguenze di un
tale «modus operandi» è inutile soffermarsi.
Minori in stato di
bisogno
Passando al campo più specifico
dell'assistenza ai minori, la prima osservazione da fare è che tale settore,
più degli altri, è caratterizzato dal ricorso massiccio, sistematico,
indiscriminato all'istituzionalizzazione, qualunque siano le cause del
disagio: familiare, fisico, psichico, sociale,
ambientale. Se cento anni fa questa soluzione poteva essere
accettabile perché rivestiva una sua funzionalità, oggi essa, più che assurda
ed anacronistica, appare deleteria e rischiosa. Eppure qui a Salerno, malgrado le positive esperienze alternative messe in atto
in altre città, nulla si è fatto o si è tentato di fare per offrire ai minori
risposte più adeguate ai loro bisogni.
Esaminando le cause del ricovero di
circa 200 minori ospiti di alcuni istituti della
città, abbiamo constatato che esse sono tutte riconducibili a difficoltà e
carenze del nucleo familiare, ed era su queste quindi che bisognava operare:
con aiuti economici, con interventi di sostegno psicologico, con servizi
domiciliari e di quartiere ed a livello più generale, predisponendo abitazioni
più adeguate, lavori più stabili, scuole ed asili a tempo pieno, ambulatori
efficienti, centri sportivi e ricreativi, ecc.
Solo in tal modo si possono ottenere
risultati effettivi e migliori. Intanto si risolve veramente la situazione di
bisogno anziché perpetuarla ed aggravarla; si evita lo smembramento di una famiglia
(figli sparsi in vari istituti, suddivisi per sesso e per età; genitori e nonni
chiusi in ospedali psichiatrici, in case di cura, in cronicari); non si
esaspera lo stato di emarginazione e di dipendenza dei
singoli; soprattutto la collettività si sobbarca ad un minore peso finanziario
in cambio di un più positivo risultato sociale.
Cosa offriamo noi invece a Salerno? Istituti: grandi, piccoli e medi, vicini o lontani, religiosi o
laici, efficienti e decrepiti, pubblici e privati, ma sempre e solo istituti.
In tutta la nostra provincia ce ne sono circa 80 di cui più di un quarto
accolgono dagli 80 ai 200 e più minori (basta citare l'Umberto
I, qua a Salerno e «la casa dei bimbi irpini» a Castiglione di Ravello).
Secondo dati piuttosto
approssimativi, ricavati da informazioni varie, il totale dei minori ricoverati
ammonta a circa 1400 unità, dei quali, mediamente,
È molto difficile avere cifre esatte
perché chi potrebbe fare un censimento preciso non lo fa
e chi vorrebbe non lo può.
Crediamo che Salerno sia rimasta una
delle poche città che ancora ricovera in istituto bambini piccolissimi e
perfino i neonati; se a questo aggiungiamo che il Brefotrofio provinciale è concepito
esclusivamente come una struttura medico-sanitaria
senza nessuna concessione al sociale, senza nessuna apertura al territorio,
senza neppure uno spazio (fisico ed umano) per le stesse madri dei bambini,
pensiamo di aver detto proprio tutto.
Come sono
organizzati, cosa si fa in questi istituti? Le nostre esperienze a proposito
sono molto limitate: abbiamo già accennato infatti
all'assenza in essi di operatori sociali ed alle resistenze frapposte alla
penetrazione di persone estranee.
Su 14 istituti di Salerno e dintorni
solo il «Montevergine» ed il «S. Leonardo» ci hanno
permesso quest'anno di stabilire rapporti diretti e continuati con i loro
bambini; l'anno scorso, invece, potemmo solo consultare, presso altri istituti
(lo stesso «Montevergine», il «Barbato»
di Raito ed il «S. Giuseppe» di Torre Angellara) tutte o parte delle cartelle dei minori ivi ricoverati
mentre all'«Umberto I», con pretesti vari, tale lavoro
non ci fu reso possibile.
Più ancora dell'assenza del
personale specialistico (medico - sociale - psicopedagogico)
quello che ci sembra più grave è la mancanza assoluta di personale, anche
minimamente qualificato, addetto alla cura ed all'educazione (o dovremmo
forse dire alla «custodia») dei bambini; a tali delicati e importanti compiti
sono infatti addetti: o suore, spesso anziane e con idee retrive, o istitutori
senza alcuna preparazione specifica e privi,
oltretutto, di qualsiasi motivazione psicologica e umana. Inoltre questo personale è spesso numericamente insufficiente: al «Montevergine», per esempio, per 38 bambine dai 3 ai 18 anni
ci sono solo 6 suore che però devono provvedere anche
all'organizzazione ed al buon andamento di tutto l'istituto, oltre ad assolvere
ai doveri religiosi del loro stato; al «S. Leonardo» (sembra quasi
impossibile!) si danno il turno due soli istitutori (oltre gli inservienti)
per ben 82 bambini dai 6 ai 15 anni.
Ma la situazione non migliora
(almeno per i minori) dove il personale è adeguato alle esigenze, in quanto i
diritti contrattuali dei lavoratori prevalgono sui bisogni primari dei bambini
(identificazione, senso di sicurezza, necessità di affetto).
Nel predetto istituto di Ravello, per esempio, dove
l'anno scorso siamo state ospiti per un'intera giornata, l'estrema
diversificazione dei ruoli e delle incombenze provoca
un continuo alternarsi di figure intorno ai bambini; inoltre il cambio dei
turni avviene nei momenti meno adatti: o durante il risveglio o nelle ore dei
pasti.
A completamento di questo quadro
così poco esemplare e confortante, bisogna accennare anche alle carenze strutturali, organizzative ed ambientali degli
edifici che ospitano questi minori: stanze anguste e squallide o camerate
vaste ed impersonali; insufficienza di bagni e docce; impianto di riscaldamento
mancante o poco funzionale; carenza di giochi, libri e riviste, attrezzi vari
per il tempo libero; assenza di verde e di luoghi per giocare e per fare sport;
e ancora rigida organizzazione degli orari, distanza notevole dai centri
abitati, mancanza di rapporti con l'esterno aggravata a volte dalla presenza
della scuola all'interno dell'istituto e via di questo passo.
Questo per quanto riguarda la
situazione oggettiva; passiamo ora ad esaminare quella soggettiva del minore.
Omettiamo di parlare della sua
permanenza in istituto perché supponiamo che tutti conoscano
le problematiche, le complicazioni, le conseguenze ad essa inerenti. Vorremmo
solo far notare che qui nessun organismo si preoccupa di limitare al minimo
indispensabile questo periodo di soggiorno (o di detenzione?) per cui il momento delle dimissioni coincide sempre con il
compimento della maggior età.
Ed il minore, dopo
aver trascorso chiuso in Istituto quelli che dovrebbero essere gli anni più
belli e formativi della sua vita, rimane da solo ad affrontare la vita, senza
appoggi ed affetti familiari, spesso allentati a causa della sua lunga
mancanza da casa; senza un'adeguata preparazione scolastica malgrado possegga,
in genere, almeno la licenza di scuola media; senza una specifica
qualificazione professionale (specie le ragazze); senza una neppur modesta capacità d'inserimento sociale.
Succede così, come ci è capitato di constatare, di ritrovare quegli stessi
minori fra gli ospiti di un ospedale psichiatrico (anche qui con una forte
prevalenza femminile), oppure nelle fila della prostituzione e della
delinquenza organizzata o, nella migliore delle ipotesi, fra le inservienti e
gli «educatori» (fra virgolette) del medesimo istituto nel quale hanno trascorso
l'infanzia e la gioventù (come, per esempio, al «Regina Margherita» di Marina
di Vietri e al solito «Umberto I»).
Se ne deduce, se ancora vi fosse
stato bisogno di dimostrazioni, che è assolutamente
inutile e controproducente pensare di migliorare gli istituti ma bisogna
adottare al più presto adeguate soluzioni alternative quali:
- precoce ricorso all'adozione
speciale, dopo attenta disamina dei singoli casi;
- affidamenti familiari per i minori
al di sotto dei 14 anni;
- comunità-alloggio per gli
adolescenti ed i giovani in difficoltà.
Per quanto riguarda il primo punto,
una recente indagine pubblicata da Prospettive
assistenziali sull'andamento delle adozioni in questi 10 anni di applicazione della legge n. 431 nelle 26 sedi italiane di
Tribunali per i minorenni, ha evidenziato che Salerno è fra le città con la
media più bassa di provvedimenti adottivi e di affidamenti preadottivi.
Sapendo, come ben sappiamo, che non
sono le domande degli aspiranti adottanti a scarseggiare, né mancano, negli
istituti, i bambini da adottare, non resta da pensare
che ad una interpretazione piuttosto restrittiva della suddetta legge
accoppiata ad una carenza di controlli e di indagini sulle situazioni effettive
di abbandono morale e materiale dei minori.
Rispetto al secondo punto, ci risulta che attualmente a Salerno gli affidamenti familiari
vengono effettuati solo dall'ENAOLI. Questo Ente, però, non dispone
di un'apposita équipe di operatori sociali per
la ricerca e la valutazione delle famiglie affidatarie in quanto esso cerca di
affidare i suoi assistiti prevalentemente nell'ambito della parentela
dell'orfano.
Prima del suo scioglimento, anche
l'ONMI effettuava gli affidamenti limitatamente ai bambini al
di sotto dei 5 anni di età. Con il suo passaggio alla Provincia, esso
ha dovuto limitare tale pratica in attesa di una
effettiva unificazione del personale e degli interventi assistenziali.
Di fatto, l'Amministrazione
provinciale non ha utilizzato tale occasione per modificare i suoi tradizionali
sistemi di assistenza tanto è vero che continua ad
erogare alle madri nubili un sussidio di lire 6.000 mensili, corrisposto oltretutto
con notevole ritardo.
Sempre a proposito di affidamenti ed a puro titolo di cronaca, vorremmo
riferire che, dalla tesi di un'ex allieva di questa Scuola, abbiamo appreso che
cinque anni fa era stata avviata privatamente (ma con l'avallo del Tribunale
per i minorenni) una iniziativa particolare di affidamento familiare a
part-time, limitato cioè ai fine settimana ed ai periodi festivi.
La rispondenza delle famiglie salernitane fu generosa ed entusiastica; purtroppo venne a
mancare, da parte degli Enti territoriali ai quali era stato sollecitato,
l'appoggio tecnico di una équipe psico-pedagogica
indispensabile per seguire i minori in quel delicato momento e per consigliare
le famiglie nel difficile compito che si erano assunte.
Pertanto il Comitato promotore, malgrado le continue offerte di persone e famiglie pronte a
mettere a disposizione dei minori in istituto e che si trovavano in particolari
situazioni familiari, la loro casa, il loro cuore, il loro tempo, molto
responsabilmente decise di non continuare in quell'opera con tanto successo
intrapresa. L'affido educativo-assistenziale,
infatti, è solo apparentemente un'iniziativa semplice ed agevole; in verità
richiede, a chi la attua, più precauzioni e maggior perizia della stessa
adozione, ed alle famiglie più impegno e maggiore disponibilità.
Non era quindi un timore infondato
quello del Comitato promotore di poter recare ai minori più danni che benefici
se gli affidi avessero continuato ad essere
avventatamente realizzati ed insufficientemente seguiti.
Da una recente trasmissione di Radio
Alfa abbiamo tuttavia appreso che alcuni di quei primi affidi
sono tuttora felicemente in corso, con reciproca soddisfazione degli
affidatari, dei minori e delle famiglie naturali di questi.
Per quanto concerne, infine, la
comunità-alloggio c'è da far notare che a Salerno ne esistono
solo due, entrambe riservate ai ragazzi, entrambe di iniziativa pubblica,
entrambe sorte da pochi anni. La prima in ordine di tempo è la «Comunità
giovanile» di Pastena, riservata esclusivamente a
ragazzi cosiddetti «deviati», provenienti dalla Casa di rieducazione di Eboli, e dove oggi vivono
appena 6 minori e due educatori.
La discutibile etichetta applicata
ai suoi ospiti, gli scarsi appoggi forniti dall'autorità giudiziaria dalla
quale dipendeva, la mancanza di collaborazione da
parte del Comune e della popolazione del quartiere, ha reso molto difficile la
vita e l'opera della comunità che solo in parte ha potuto realizzare il suo
obiettivo, e cioè l'effettivo reinserimento sociale dei minori ad essa
affidati.
L'applicazione del decreto 616, con
la conseguente chiusura delle case di rieducazione, avrebbe dovuto provocare
il passaggio di detta struttura al Comune, ma di fatto
L'altra realizzazione
alternativa del genere è la «Piccola Comunità» di via dei
Principati, aperta dall'ENAOLI per i suoi assistiti poco più di un anno fa.
Essa accoglie fino a 12 ragazzi,
sotto l'alterna guida di quattro educatori ed usufruisce della collaborazione
esterna di personale specialistico. Anch'essa, con il
ventilato scioglimento dell'Ente da cui dipende, dovrebbe essere assorbita
dall'Amministrazione comunale.
Ci si augura che quest'ultima non
solo non si lasci sfuggire tale preziosa occasione di imprimere
una svolta decisiva alla propria politica assistenziale, ma si impegni a creare
le altre di cui si avverte l'impellente necessità: comunità per ragazze, per
anziani, per handicappati adulti, fisici e mentali, curando però, per evitare
l'attuale settorializzazione ed ovviare agli errori
nei quali si è già incorsi ed agli inconvenienti sopra accennati, che esse
accolgano insieme minori (o adulti) con esperienze e problematiche diverse e
che siano effettivamente delle strutture aperte e decentrate, in grado di
accogliere chiunque si trovi temporaneamente in difficoltà.
Minori handicappati
Un ultimo cenno vogliamo dedicarlo
alla situazione assistenziale dei minori affetti da
handicap fisici, mentali e sensoriali. Qui il problema é ancora più grave se
si considera che l'intervento pubblico è completamente assente e che ha
provocato quindi:
- da una parte, la mobilitazione
delle famiglie dei bambini handicappati che, costituitesi in associazioni
varie (ANFFaS, AIAS, Unione italiana lotta distrofia
muscolare, ecc.) hanno creato strutture medico-psico-pedagogiche
di semiconvitto e ambulatoriali, escludendo deliberatamente ogni forma di
ricovero totale. Esse, però, possono occuparsi della cura e della riabilitazione
dei soggetti ma non del loro inserimento sociale-scolastico
e lavorativo e neppure della prevenzione delle cause e dell'individuazione e
del trattamento precoce degli handicap;
- dall'altra, ha favorito
l'iniziativa di privati, spesso poco qualificati e massi prevalentemente da
interessi economici, i quali anche quando hanno creato strutture idonee (tipo
Villa Silvia e Roccapiemonte), hanno dato vita solo e sempre a istituti chiusi, perché meno
impegnativi e più redditizi.
Come esempio eclatante ed indicativo di
tale situazione, basterà parlare dell'«Elaion» di Eboli. Questo centro, tre anni fa, fu chiuso dalla sua
proprietaria e direttrice perché le entrate (cioè le
rette erogate dagli Enti pubblici e dallo stesso Ministero della sanità) non
riuscivano a coprire le spese necessarie ad assicurare agli assistiti un certo
standard qualitativo di prestazioni psico-medico-scolastico-riabilitative.
A distanza di meno di due anni, il Centro venne riaperto
a cura dello stesso personale riunitosi in cooperativa, senza che alcuna
autorità pubblica, pur pronta a corrispondere rette non indifferenti, si
preoccupasse di verificare la qualità e l'efficienza dei servizi offerti.
Al momento attuale,
il Centro accoglie circa 50 soggetti (ma il loro numero aumento giorno per
giorno), tutti provenienti da Napoli e provincia, di età variabile dai 5 ai 30
anni e di ambo i sessi, con minorazioni mentali di vario grado, spesso unite ad
handicap fisici e sensoriali.
Anziché di assistenza,
sarebbe forse più corretto parlare di custodia degli handicappati vista
l'assoluta mancanza di personale qualificato addetto stabilmente alla loro
cura; delle notevoli strutture prima esistenti e funzionanti (piscina,
laboratori, serra, scuola, palestra e giardini, fattoria, ecc.) solo alcune, e
parzialmente, vengono utilizzate; diagnosi, trattamenti e terapie particolari
e diversificate sono impossibili per la mancanza di strumenti idonei e per la
saltuarietà delle prestazioni del personale specialistico (medici, psicologo,
assistente sociale, neurologo, ecc.).
E non si pensi a questa come ad una
situazione limite; certamente tale istituzione non è
la peggiore fra le numerose della nostra provincia.
Ma la colpa di tutto ciò non è dei
privati, che riempiono un pericoloso vuoto lasciato dagli organismi pubblici;
non è tutta di quelle persone, poche o molte che siano, che speculano senza
scrupoli sul dolore e sul bisogno di tanti infelici e delle loro famiglie; è
soprattutto colpa nostra che assistiamo inermi a tutto ciò avallando con il
nostro silenzio; è colpa della collettività tutta che con estrema leggerezza,
distribuisce e sperpera le proprie modeste risorse finanziarie senza neppure
predisporre un'organica programmazione ed accurati
controlli.
Settore
anziani
Se nel settore dei minori, come
abbiamo visto, sono fin troppi gli Enti e gli istituti che si occupano della
loro assistenza, nel settore degli anziani, invece, questi sono pochissimi, e
quei pochi tutti vecchissimi.
Lo Stato si è preoccupato, è vero, di assicurare a tutti gli anziani una pensione, ma non
sempre si è anziani a partire dal 65° anno di età, e spesso l'importo delle
pensioni statali è appena sufficiente ad assicurare la sopravvivenza. I
Comuni, gli ECA, e pochi altri Enti pubblici si limitano a spora-dici sussidi
economici e alimentari, umilianti sia nella loro modestia, sia per il modo in
cui vengono erogati; oppure prevedono il ricovero in
istituti.
All'anziano solo all'anziano che non vuole o non può dipendere dalla famiglia,
non viene offerto alcun servizio, né pubblico né privato per aiutarlo a
conservare la propria indipendenza, per lo meno qui nel salernitano.
Non sono stati istituiti servizi
centralizzati di quartiere (mense, lavanderia, ecc.), né di assistenza
domiciliare (infermieristica, personale, ecc.). Esistono in città due mense, ma
una è riservata agli universitari e l'altra ai poveri della parrocchia del
Carmine. Vi sono anche gruppi di volontari (appartenenti ad associazioni parrocchiali
o di soccorso pubblico) che si recano dagli anziani a far loro un po' di
compagnia, ma la loro attività sarebbe preziosa solo
nell'ambito dei predetti servizi pubblici.
Mancano inoltre piccoli alloggi (pur
contemplati dalle leggi sull'edilizia popolare); non sono
previste facilitazioni sulle tariffe telefoniche e sui mezzi pubblici (sui
quali per un anziano o per un handicappato è rischioso viaggiare ed impossibile
salire!), non vi sono isole pedonali e spazi verdi, sicché diventa pericoloso
persino transitare per le nostre strade. E queste sono
solo alcune delle piccole cose che si potevano fare (e si è ancora in tempo).
Cosa offre quindi Salerno ai suoi figli
più anziani? Solo vecchi istituti concepiti e gestiti in maniera molto
tradizionale, e cioè come parcheggio di persone
socialmente inutili, di peso a tutti, in attesa solo della morte. Il vecchio,
esaurita la sua capacità lavorativa, viene isolato,
scaricato come una cosa che non serve più.
Neppure l'iniziativa privata si è
affrettata ad affiancarsi a quella pubblica ed a colmare i vuoti lasciati da
questa, appunto perché, per la mancanza di enti
sovvenzionatori e per la modestia delle pensioni, non vi erano in tale settore
buone prospettive di guadagno.
Se vi sono case di riposo private,
esse sono:
- o per
pensionati di lusso,
- o «lager» come quello scoperto
recentemente a Roma, dove l'anziano in cambio della sua intera pensione riceve
cibi avariati e viene abbandonato in un letto o su una
sedia per il resto della giornata. (A proposito, non
sarebbe opportuno che qualche autorità competente controllasse un po' «Villa
Luisa» di Raito, sulla quale corrono voci poco
rassicuranti?);
- oppure
sono istituti gestiti da religiosi e quindi non per motivi di lucro (almeno si
spera). Nella nostra provincia, infatti, l'unica casa di riposo costruita in
tempi recenti e appositamente per gli anziani,
tenendone presente quindi le esigenze specifiche, è «Villa S. Felice» di Cava
dei Tirreni, istituita e retta dai Padri Cappuccini, i quali, da poco, vi hanno
anche annesso un «Centro aperto» per gli anziani della
zona.
Detto centro, oltre a mettere a
disposizione di chi lo frequenta l'opera di medici, infermieri,
fisiocinesiterapisti, di un'assistente sociale coadiuvata da numerosi
tirocinanti, offre varie attività di tempo libero ed
importanti servizi quali il trasporto, la mensa interna e pasti a domicilio,
lavanderia, merenda pomeridiana, ecc.
Vorremmo far osservare che nulla di
simile era mai stato organizzato dalle due enormi
strutture per anziani (circa 150 assistiti in tutto) già da tempo esistenti a
Cava: «Villa Rende» gestita dall'ECA ed il pensionato dell'ONPI, che, fra
l'altro, sono privi di servizio sociale e niente affatto desiderose di
usufruire dell'opera gratuita delle tirocinanti.
A Salerno la situazione è ancora più
desolante in quanto agli anziani sono riservati solo due vecchi ed inospitali
edifici nel cuore del centro storico, le cui denominazioni
sono tutto un programma: «Pia Casa di Ricovero» e «Conservatorio Ave
Grazia Piena».
Il fabbricato destinato alla «Pia
Casa di Ricovero» risale al 1860, è lontano dal centro, in cima ad una ripida
e stretta salita, non percorsa ovviamente da mezzi pubblici,
è privo di ascensore e di riscaldamento (tranne che nei nuovi locali
aggiunti nel 1966). Accoglie attualmente 110 anziani di ambo
i sessi che pagano rette varianti dalle 90 alle 120 mila lire mensili (a
seconda se la stanza è singola o a più letti). Per coloro che non hanno
disponibilità finanziarie, la retta viene corrisposta
dal Comune di origine. Le stanze non sono dotate di propri servizi igienici, il
numero dei bagni e delle docce è quindi insufficiente
e vi difetta l'acqua calda. L'arredamento, tranne che in poche stanze, è
scarso e impersonale. I locali comunitari sono pochi, piccoli, privi di attrezzature al di fuori di radio e televisione; vi sono
degli spazi verdi ed all'aperto, ma non sono accessibili a tutti.
Il personale è costituito solo da
quattro suore (di cui una è la direttrice), 10 inservienti, un segretario, un
medico (che viene chiamato solo al momento del
bisogno), un cappellano. Manca il servizio sociale, né tantomeno
se ne avverte il bisogno.
La vita degli ospiti è organizzata
secondo un regolamento che risale al 1860, con orari rigidi ed assurdi (sveglia
alle 5,30, cena fra le 16,30 e le 17), è pertanto
profondamente squallida e monotona, limitata alla pura esplicazione delle
funzioni biologiche dell'uomo. Mancano attività ricreative e lavorative; solo
pochi uomini leggono il giornale e qualche donna lavora a maglia o
all'uncinetto. Pochi hanno ancora rapporti con la famiglia o con amici
all'esterno, pochissimi escono per qualche servizio personale (le pensioni vengono generalmente ritirate dalla superiora). Dopo pochi
mesi di permanenza in istituto, anche l'anziano più arzillo, lucido, intraprendente,
diventa un essere spento, passivo, rassegnato.
Il Conservatorio Ave Grazia Piena è ubicato a via dei Canali, in un edificio che risale forse
al 1600, come la chiesa alla quale è annesso. Anche in
questo vi sono scale ripide, camere ampie e mal riscaldate, un solo servizio
igienico per piano, assenza di locali comunitari e di servizi centralizzati.
Ospita circa 30 donne, ognuna delle quali ha una propria camera nella quale
vive tutto il giorno, cucina, lava e sbriga qualsiasi faccenda. Mobili e suppellettili sono spesso decrepiti e poco funzionali, ma
sono di loro proprietà e rappresentano tutto il loro passato ed i loro averi.
Trattandosi di una serie di alloggi indipendenti, manca qualsiasi tipo di personale
del quale, però, si avverte la necessità, specie per quanto riguarda le
pulizie, l'assistenza medico-infermieristica, il servizio sociale.
L'unico aspetto positivo
è che le anziane, dovendo provvedere da sole a tutte le proprie esigenze,
sono più vitali rispetto agli ospiti della casa di riposo precedente,
considerato però che sono tutte anziane, malate e prive di agganci familiari
(sono quasi tutte nubili e spesso neppure di Salerno) non è giusto né umano
lasciarle completamente abbandonate a se stesse.
Questa struttura, che di fatto è comunale, è attualmente gestita da un
commissario straordinario nominato dalla Regione, il quale si sta interessando
per trasformarla in cronicario, mentre sarebbe più opportuno farne un centro
aperto per gli anziani del centro storico.
La situazione in
Provincia
Anche a Siano la «Villa S. Maria delle
Grazie» si è col tempo trasformata da casa di riposo
in cronicario. Se da una parte, vista l'assenza di ospedali
diurni e di reparti geriatrici, essa assolve ad una
sua funzione in quanto accoglie quelle persone rifiutate dalle altre strutture
perché non autosufficienti per gravi menomazioni fisiche e mentali, dall'altra
però non è attrezzata ed organizzata per assolvere correttamente a tale
compito. Infatti essa è ubicata in un vecchio
edificio annesso alla chiesa arcipretale, restaurato
nel 1970, articolato in tre piani con ascensore ma con soli tre servizi
igienici per piano, con camerate previste per sei ospiti ma che ne accolgono
circa il doppio; senza stanze comuni di ritrovo eccetto il refettorio e con la
televisione come unico svago.
I medici sono quattro, ma svolgono
solo turni diurni, vi è una sola infermiera
professionale che presta servizio dalle 6 alle 14 e che è coadiuvata da due
vigilanti geriatriche i cui compiti sarebbero altri. Solo i dodici inservienti prestano turni anche notturni. Manca un servizio sociale, anche se il regolamento ne prevede l'inserimento;
da due anni accettano ]'opera di noi tirocinanti, però possiamo fare ben poco.
Come si nota, il personale
specializzato è insufficiente specie se consideriamo che gli ospiti sono
quasi 90, la maggior parte dei quali immobilizzata a letto o su una sedia o
non completamente responsabili delle proprie azioni. La situazione appare
ancora più desolante se si pensa che un buon quarto degli ospiti ha un'età
variabile fra i 35 ed i 55 anni ed avrebbe quindi bisogno di terapie
riabilitative ed occupazionali particolari; che il restante degli ospiti, molti
dei quali in età avanzata (85-96 anni), richiederebbe non solo cure mediche ma soprattutto un maggior contatto con il mondo
esterno per rallentare il processo degenerativo fisico e mentale.
Per completare il quadro
dell'assistenza agli anziani nell'ambito della nostra provincia, basterà
aggiungere che oltre quelli sopra citati, esistono
solo altri due istituti, a Baronissi e ad Acerno, simili nell'aspetto esteriore e nell'organizzazione
interna, alla Pia Casa di ricovero.
C'è quindi solo da augurarsi di
morire, senza diventare vecchi, oppure trasferirsi in più ospitali lidi.
Situazione ospedaliera
La carenza
di idonee soluzioni per il problema degli anziani si ripercuote negativamente
sull'assistenza ospedaliera; infatti ospedali pubblici, case di cura private,
manicomi, cliniche psichiatriche traboccano di anziani i cui unici mali sono
gli anni e la solitudine, il disinteresse dei familiari.
Tutto ciò provoca alla collettività
un doppio danno:
- diminuisce la già scarsa disponibilità dei posti letto e sottrae prezioso
tempo ed energie al già insufficiente personale paramedico;
- aggrava non indifferentemente la
già dissestata spesa pubblica dato che la retta giornaliera per queste strutture medico-specialistiche si aggira dalle
30 alle 60 mila lire.
Sull'organizzazione e sul
funzionamento di ospedali e cliniche avremmo molto da
dire avendo esplicato il nostro tirocinio sia in case di cura private che in
quasi tutti gli Enti ospedalieri della nostra provincia: altre che a Salerno
siamo state ad Eboli, Nocera,
Oliveto C., Mercato San Severino, Polla e perfino ad Avellino.
Essendo prossimo, però, il varo
della riforma sanitaria ed essendo stata approvata proprio in questi giorni la
legge sulla chiusura degli ospedali psichiatrici, ci asteniamo dal fare
considerazioni che non avrebbero più alcuna validità. Tuttavia non possiamo
fare a meno di ricordare a chi di dovere che finché
gli ospedali saranno considerati solo dei presidi sanitari e non anche delle
strutture sociali, essi non potranno mai raggiungere completamente il loro
scopo che non è esclusivamente quello di prestare delle cure specifiche ad un
organismo ammalato ma è soprattutto quello di occuparsi di un individuo nella
sua interezza fisica e psichica e di lottare per la prevenzione delle malattie.
Malgrado tutto quello che da anni si scrive e si
afferma sul collegamento del sanitario al sociale, sulla disponibilità e
sull'apertura dell'ospedale alle esigenze del territorio, noi non siamo
riuscite a riscontrare alcun segno di rinnovamento nelle nostre strutture
sanitarie, né a livello di organizzazione né di preparazione del personale.
Tanto per cominciare, vi sono ancora
diversi ospedali senza assistenza sociale (a Cava, per esempio) ed in
moltissimi altri il loro numero è ridicolmente sproporzionato al numero dei reparti
e degli utenti (i Riuniti di Salerno hanno solo due assistenti sociali tale e
quale come a Eboli). In
tutti gli ospedali, poi, il ruolo dell'assistente sociale è sconosciuto, o
disprezzato, o sopportato od ostacolato: abbiamo trovato nostre colleghe
addette alla distribuzione dei medicinali, o al reparto accettazioni, nella
migliore delle ipotesi utilizzate come segretarie nella direzione sanitaria.
Ovunque, inoltre, esse non sono tenute al corrente di
quanto avviene nei reparti e subiscono quotidianamente la mancanza di
collaborazione e di collegamento con il personale sanitario, infermieristico ed
amministrativo.
Ad onor del vero, dobbiamo anche dire che spesso parte della responsabilità di tale situazione,
come di altre analoghe che si verificano negli altri settori dei quali abbiamo
parlato, è addebitabile anche agli stessi operatori sociali che poco o nulla
fanno per modificare la propria posizione, per meglio far conoscere ed apprezzare
il proprio ruolo, per intervenire più incisivamente e positivamente nella
realtà sociale.
Tale passivo e negativo
atteggiamento è a sua volta causato da una molteplicità di motivi che vanno da una insufficiente preparazione professionale alla mancanza
di stabilità dell'impiego, da una deficienza di motivazioni sociali e personali,
all'inesistenza di uno status giuridico, dalla modestia della retribuzione, al
desiderio di un lavoro tranquillo e via dicendo.
A questo punto, bisognerebbe
introdurre il discorso della qualificazione professionale, dell'aggiornamento
e della riconversione del personale socio-sanitario,
della programmazione di questi settori, del controllo didattico ed organizzativo
delle varie scuole di formazione, ma ciò ci porterebbe troppo lontano e
ripeteremmo discorsi ovvi e risaputi.
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