Prospettive assistenziali, n. 45, gennaio - marzo 1979

 

 

Notiziario del Centro italiano per l'adozione internazionale

 

ADOZIONE INTERNAZIONALE; FIGLI DI SERIE «C»?

 

 

Come arriva all'adozione internazionale una coppia italiana? Nella maggioranza dei casi per­ché ha trovato difficoltà ad adottare un bambino italiano. Evidentemente, il bisogno di maternità e di paternità, non soddisfatto sul piano biologico, è così prepotente, nella coppia, da spingerla a non rassegnarsi di fronte alla impossibilità di avere un figlio che le somigli. Questo spiega perché un buon numero di coppie cerca tuttora soluzioni personali: chi ha possibilità economi­che, va in un Paese straniero, e con l'aiuto com­piacente di persone del luogo sceglie un bam­bino e se lo porta a casa, legalizzando in seguito la sua posizione anagrafica.

È stato più volte sottolineato che una simile procedura non dà alcuna garanzia: sul piano giu­ridico e sul piano umano, spesso si sconfina in una vera e propria «tratta di minori», a danno delle famiglie biologiche più indigenti; e si pos­sono anche avanzare perplessità sulla idoneità degli aspiranti genitori adottivi ad allevare un fi­glio, visto che nessun competente ha potuto va­gliarla.

Per evitare questi rischi, per tutelare i genitori biologici nei Paesi di origine e per garantire ai bambini soli l'inserimento in famiglie che li sap­piano accogliere in modo adeguato, il CIAI ha sempre richiesto in via preliminare, alle coppie che aspirano a un'adozione internazionale, il ri­conoscimento di idoneità all'adozione da parte del Tribunale per i minorenni italiano ed ha av­viato pratiche d'adozione solo per bambini che il Tribunale del paese d'origine avesse dichiarato adottabili, perché privi di ogni legame familiare.

L'esperienza di questi anni, però, ha evidenzia­to un nodo di non poco conto, proprio nel mo­mento in cui le coppie si rivolgono al Tribunale per i minorenni per fare richiesta di adozione. Data l'impossibilità di esaudire il desiderio di molte coppie, perché i bambini adottabili sono pochi, è logico che gli operatori sociali prospet­tino agli aspiranti genitori la possibilità di adot­tare anche un bambino straniero.

Non è affatto logico, però, che lo propongano come ultima risorsa; come soluzione di ripiego, quasi per togliersi da torno la coppia insistente. Si è sentito perfino dire: «Perché non vi pren­dete un bambino straniero? Purché non sia pro­prio nero, può andare benissimo!».

Se un bambino di un'altra razza viene proposto a una coppia «in mancanza di meglio», è difficile che la coppia lo accetti. E anche quando lo ac­cetta, deve poi risolvere dentro di sé - e spes­so con strumenti inadeguati - il problema dell'identificazione con questo figlio «diverso».

Tutto ciò va contro il significato che il CIAI ha sempre riconosciuto all'adozione internazionale: non una soluzione di ripiego, non l'accontentarsi di un figlio «di serie C» (visto che non si può averne uno biologico «di serie A», né uno adot­tivo italiano «di serie B»), ma una scelta signi­ficativa. Una scelta che comporta l'identificazione e la piena accettazione di «un bambino», qualun­que sia la sua origine, il suo colore, il suo volto, nella convinzione profonda che tutti i bambini sono uguali e hanno lo stesso diritto a essere amati.

Certo, in uno o due colloqui negli uffici del Tribunale per i minorenni, di fronte a una coppia che sente il bisogno di avere un figlio, è difficile addentrarsi in tanti discorsi. Parole come «tabù della razza» possono spaventare al solo pronun­ciarle, perché vanno a rovistare in profondità nelle nostre paure; mettono in dubbio troppe cer­tezze derivate da una cultura millenaria.

Eppure, se questi discorsi cominciano ad affio­rare, proprio in questa sede, con le persone che fanno una scelta di maternità e paternità che passa dal cervello e dal sentimento, non dal san­gue, forse qualcosa di concreto può essere fatto, per rinnovare la nostra mentalità, e quindi la no­stra stessa cultura.

In fondo, si tratta di tradurre nel quotidiano, accettandola e proponendola a un uomo e ad una donna, una verità in cui tutti crediamo teorica­mente e che, in quest'anno del bambino, viene riproposta alla riflessione di milioni di uomini di ogni paese: tutti i bambini sono uguali e hanno uguale diritto a crescere e ad essere amati.

Cambiare mentalità, rinnovare la nostra cultu­ra. Sono parole grosse, che suonano utopia. Ma sono nella direzione giusta e quindi non devono spaventare.

Gli operatori sociali - che di un simile rinno­vamento dovrebbero essere il pungolo, proprio perché agiscono quotidianamente a contatto con le persone - non possono ignorare questa parte del discorso sull'adozione, oggi che il DPR 616/77 affida a loro il compito di indagare, nell'ambito delle Unità locali dei servizi, sulla idoneità delle coppie alla adozione e di seguire l'affidamento preadottivo.

Questo nuovo compito che gli operatori sociali dell'Ente locale sono chiamati a gestire è impor­tante e delicato, non solo per quanto riguarda le adozioni di, bambini italiani, ma ancor più per quelle di bambini stranieri, che ovviamente pre­sentano maggiori problemi di inserimento.

Il Tribunale per i minorenni per la sua stessa organizzazione accentrata, non può seguire capil­larmente tutti i casi di adozione. Il CIAI stesso, così come è strutturato, non può adeguatamente seguire l'inserimento dei bambini stranieri per cui ha aperto la pratica di adozione, e non è nep­pure logico che sia lui a farlo.

È dunque positiva l'ottica in cui si pone il DPR citato: demandare all'Ente locale il compito di controllare e favorire il buon inserimento dei bambini nelle famiglie adottive e nel contesto sociale in cui esse vivono. Si constata d'altro canto, che gli operatori sociali non sono prepa­rati a tale compito.

Le Regioni, pertanto, dovranno promuovere stu­di, ricerche, corsi di aggiornamento per sensibi­lizzare quelli che sono chiamati a questo impe­gno nuovo. Se si vuol dare all'adozione il suo significato pieno, a vantaggio della comunità ol­tre che dei bambini soli (e quindi anche a van­taggio di tutti i bambini che saranno uomini do­mani), è indispensabile sensibilizzare gli opera­tori sociali anche al senso vero e ai problemi dell'adozione internazionale. Un primo passo può essere riflettere sui motivi che spingono una coppia a volere un figlio di razza diversa: magari proprio in una famiglia dove ci sono già altri figli biologici. E poi cercar di capire attraverso quali meccanismi psicologici la maternità e la pater­nità prendono consistenza quasi fisica, al di là delle differenze somatiche, sicché il bambino si identifica pienamente nei genitori e i genitori in lui.

È un processo affascinante e stimolante, per chi lo vive: ma comporta anche delle difficoltà che proprio gli operatori sociali, agendo nelle strutture decentrate, dovrebbero aiutare a supe­rare nel periodo di attesa dell'adozione interna­zionale e nel primo tempo dell'inserimento del bambino nel nuovo contesto familiare, sociale e culturale.

Tutto ciò porta in sé una carica di provocazio­ne, se vogliamo. Ma è una provocazione di valen­za positiva, che non può non essere costruttiva. Per questo chi ha adottato bambini stranieri si ribella quando sente dire: «Piuttosto di niente, accontentatevi di un bambino di un'altra razza!».

 

www.fondazionepromozionesociale.it