Prospettive assistenziali, n. 45,
gennaio - marzo 1979
VERIFICA E
PROSPETTIVE DELLE COMUNITA' ALLOGGIO PER MINORI DELLA
AMMINISTRAZIONE PROVINCIALE DI MODENA
Nel
A
tal fine l'Amministrazione provinciale assumeva i seguenti impegni, operando
unitamente ai Comuni della provincia:
a) potenziamento dell'assistenza al nucleo d'origine
del minore, sia tramite contributi economici integrativi del reddito, sia
tramite priorità d'accesso a servizi gratuiti,
sia tramite il sostegno delle équipes decentrate per
l'età evolutiva;
b)
istituzione del servizio di affidamento familiare a
scopo educativo, ad integrazione di quello già svolto per le adozioni. Ciò
rendeva possibile il superamento dell'I.P.A.I. nel
1975 e della «Casa del sole» O.N.M.I. di Pievepelago,
nonché della stessa sezione notturna operante dal 1975
sino al 1976, presso un nido comunale, con 6 posti letto, per rispondere ad
eventuali improvvisi stati d'abbandono. In quegli anni complessivamente
cessavano d'operare nel nostro territorio provinciale ben 12 istituti pubblici
e privati, mentre altri riducevano e ristrutturavano l'attività.
Nell'autunno
del
L'Educatorio provinciale «S. Paolo» (IPAB con Consiglio
d'amministrazione nominato per statuto dal Consiglio provinciale) accoglieva la
proposta dell'Assessorato per la costituzione di comunità-alloggio, in
sostituzione della attività di ricovero praticata. A
seguito di un proficuo lavoro di deistituzionalizzazione,
che ha realizzato il reinserimento familiare di 70 minori del territorio
provinciale, al giugno 1973, attraverso l'operare congiunto di
operatori dell'Assessorato provinciale, educatori dell'istituto ed équipes di territorio, iniziava la prima esperienza di comunità
a Modena Est, nel gennaio del 1974, con 5 operatori e 5 minori in età compresa
tra i 6 e i 10 anni.
Nel
maggio e nel novembre dello stesso anno seguivano l'avvio delle esperienze,
rispettivamente della comunità S. Lazzaro, con 6 operatori e 7 minori in età
compresa tra gli 8 e i 12 anni, e della comunità Don Minzoni,
con 4 operatori e 5 ragazze tra i 16 e i 18 anni di età.
Tali
minori avevano alle spalle un complesso iter di istituzionalizzazione,
spesso presso istituti «medico-psicopedagogici».
Nella
previsione del trasferimento, a decorrere dal 1° gennaio 1979, dell'I.P.A.B. «S. Paolo»
alla Regione, in attuazione del D.P.R. n. 616, gli operatori hanno
avuto una serie di incontri di verifica presso
l'Assessorato provinciale, da cui è scaturito il seguente documento.
RELAZIONE CONCLUSIVA DELLE GIORNATE
DI VERIFICA SULLA ATTIVITÀ SVOLTA DALLE TRE COMUNITÀ «S. PAOLO»
Il documento che presentiamo è la
sintesi dei contenuti emersi dalla discussione e dal confronto
tra le esperienze degli operatori delle tre Comunità alloggio del «San Paolo»,
che hanno avvertito l'esigenza di un momento di verifica delle
stesse, dal quale fare scaturire nuove proposte e prospettive d'intervento. Determinante nel fare avvertire questa esigenza è la legge
382 e relativo D.P.R. 616, con le scadenze indicate per lo scioglimento degli «enti
inutili» e il passaggio delle competenze ai Comuni, scadenze che ribadiscono
il bisogno di una riorganizzazione dell'assistenza pubblica in ambiti territorialmente
definiti.
È nostro intento coinvolgere in tale
lavoro di verifica e di riorganizzazione relativa ai
nostri servizi sia gli organismi politici sia gli altri servizi sociali
presenti nel territorio in cui operiamo, per, in tal modo, dare un contributo
al processo di superamento della settorialità degli
interventi, nella prospettiva di una organizzazione e gestione unitaria dei vari
momenti in cui si articola il servizio di assistenza all'età evolutiva, come da
legge regionale n. 22 del 10-6-1976.
In previsione di una realizzazione
dell'unità socio-sanitaria dei servizi,
Verifica del servizio
Il primo momento di discussione si è
rivolto alla verifica del servizio in relazione alle
premesse, in base alle quali le Comunità sono sorte:
a) deistituzionalizzazione
e reinserimento sociale dei minori provenienti dal «S. Paolo»;
b)
deistituzionalizzazione e reinserimento sociale di
minori, eventualmente, in seguito, provenienti da altri istituti;
c) risposte ad eventuali casi di
bisogno provenienti dal territorio.
Elemento comune di questi tre
momenti è il carattere riparatorio affidato agli interventi delle Comunità.
A) Per portare a compimento il
processo di deistituzionalizzazione del «S. Paolo»
sono sorte, in tempi diversi, tre Comunità: due, che ospitavano minori in età
scolastica elementare ed una, per adolescenti.
Per i 12 minori in età scolare,
ospiti delle due Comunità di Modena Est e di S. Lazzaro, si è individuata come
soluzione definitiva l'inserimento in ambito familiare che, per tre di essi, ha significato l'adozione, per altri sei il reinserimento
nella famiglia d'origine e per uno l'affidamento familiare, mentre due minori
sono tuttora rispettivamente: una presso Modena Est, l'altra presso Don Minzoni.
I tempi dell'intervento sono stati più o meno lunghi, in quanto determinati da diversi fattori:
1) difficoltà legate al vissuto dei
minori;
2) difficoltà nella conduzione di
rapporti col nucleo familiare originario, tale da favorire il reinserimento nei
casi in cui si valutò opportuno;
3) difficoltà a
interrompere i rapporti familiari, anche sul piano giuridico, nella misura in
cui si ritenevano pregiudizievoli al minore stesso.
Va inoltre sottolineata
la carenza di integrazione fra i servizi di Comunità da un lato e di
territorio dall'altro, carenza che ha spesso comportato la tendenza alla
delega, da parte dei servizi del territorio, delle problematiche relative ai
minori ospitati, quando invece, per
raggiungere l'obiettivo di un pieno inserimento del minore, il piano e la
realizzazione dell'intervento sempre richiedono una piena compartecipazione sia
degli operatori di Comunità sia degli operatori cui compete territorialmente
il caso.
Per quanto riguarda
le quattro adolescenti, inizialmente ospiti della Comunità Don Minzoni, l'obiettivo non poteva che essere il raggiungimento
di una progressiva autonomia dei soggetti; poiché dall'analisi dei casi e, per
le caratteristiche adolescenziali, risultavano impossibili sia l'inserimento
nella famiglia d'origine, sia l'affidamento familiare a scopo educativo.
Per tre di esse
possiamo affermare che l'obiettivo è stato raggiunto, in quanto le ragazze
vivono in modo autonomo e positivo. Per la quarta, dopo un periodo di vita
all'esterno, si è reso necessario il ritorno in
Comunità.
Anche in questo caso si è, comunque, avuto un graduale processo di crescita.
B)
Per tre bambini ospiti della
Comunità di Modena Est (uno di tre anni, proveniente
da «Mamma Nina» di Carpi, l'altro proveniente dal «Charitas», il terzo proveniente dalla sezione notturna ex
I.P.I.) è stato raggiunto l'obiettivo del reinserimento tramite l'adozione, sia
pure in tempi diversi, dovuti ai problemi e alle difficoltà dei soggetti.
Per un altro bambino, deistituzionalizzato dal «Charitas»,
con inserimento nella Comunità di S. Lazzaro, e che presentava un quadro
clinico particolarmente grave (psicosi), nonché provenienza
extra-regionale, si è rimesso l'intervento all'ente e al territorio di
competenza.
Per quanto riguarda le ragazze ospitate
dalla Comunità di Don Minzoni, con provenienza da
altri istituti, abbiamo rilevato la tendenza da parte degli stessi a delegare
alla Comunità i casi che mettevano in crisi l'istituzione.
Ciò vale per tre casi provenienti
dal S. Vincenzo e dal S.
Filippo Neri, di cui, comunque, per due si è raggiunto l'obiettivo
dell'autonomia.
Tale considerazione non vale,
invece, per altre due ragazze provenienti dal «Charitas»,
al fine di una loro reintegrazione fra i normodotati,
per le quali è stato raggiunto l'obiettivo, sin dall'inizio prefigurato, nella
stessa richiesta di ammissione.
Si evidenzia come l'obiettivo riparatorio
è proponibile, a condizione che non s'intenda
C) Premettiamo che l'esperienza
fatta, in quanto servizio di Comunità gestita da una IPAB,
non ci ha permesso una conoscenza globale e approfondita dei bisogni del
territorio. Inoltre la mancata collocazione a tutti
gli effetti tra i servizi sociali territoriali, ha determinato una visione
parziale dei casi, che pervenivano alla Comunità già filtrati e non la
coinvolgevano nel momento di analisi del bisogno.
Si richiede che la riorganizzazione dei servizi assistenziali ponga
Finora le Comunità hanno dato
risposta positiva a 14 casi provenienti del territorio:
1) situazioni di abbandono
di bambini, tramite adozione (n. 8);
2) situazioni di parziale abbandono,
tramite affidamento (n. 1);
3) situazioni di
minori con nucleo familiare gravemente carente, tramite interventi di reintegrazione
familiare (n. 4);
4) situazioni di abbandono,
tramite interventi per l'autonomia, in relazione al raggiungimento della
maggiore età (n. 1).
Per le situazioni relative
ai punti 1 e 4 (stati di. abbandono) la
provenienza da ambito extra consortile non ha costituito elemento controproducente
rispetto all'obiettivo, non essendo neppure opportuno il mantenimento di
rapporti con l'ambito di provenienza.
Relativamente ai punti 2 e 3, si è evidenziato
invece come l'intervento della Comunità
sia assai più proficuo qualora si rivolga a casi con provenienza territoriale
comunale o consortile.
Questo soprattutto per quanto
riguarda il punto 3, dovendo agire sul nucleo familiare e in stretta
collaborazione con l'équipe competente
territorialmente, oltre che con altri servizi (scuola, ecc.).
Ancora in
relazione alle richieste provenienti dal territorio, occorre qualche
ulteriore puntualizzazione relativamente alle seguenti situazioni:
a) richieste di ammissione
di adulti:
b) richieste di ammissione
di lattanti e neonati;
c) richieste di ammissione
di minori con handicap o problematiche di devianza;
d) richieste di «pronto intervento».
a) Senza sottovalutare i bisogni di
tale fascia di età, preme ribadire l'esigenza di qualificare il servizio, non solo a
favore dell'età evolutiva, anzi privilegiando
l'intervento precoce, che, in base all'esperienza fatta, è premessa indispensabile
per una soluzione positiva dei casi.
b) Si è evidenziato nel corso
dell'esperienza avuta nelle Comunità che l'età dei bambini che presentavano
situazioni di bisogno tendeva ad abbassarsi. Questo. fattore
viene valutato positivamente e si ritiene che il servizio debba riorganizzarsi
prioritariamente in funzione di questo bisogno, che richiede un intervento
precoce.
Nella Comunità di Modena Est ci si è
occupati di due casi di bambini di pochi mesi. Ciò ha
richiesto uno sforzo organizzativo non indifferente. Ha posto problemi di qualificazione specifica del personale
e una nuova riorganizzazione del servizio, alla luce
delle esigenze che il bimbo piccolo pone. (Per
esempio, il fatto che sia spesso ammalato, non sempre sia inseribile al nido e
quindi della necessità di una presenza continuativa in tutto l'arco della
giornata).
L'inserimento di un bimbo
piccolissimo ha messo in evidenza come sia particolarmente controproducente una
eccessiva rotazione di personale e di eventuali supplenti. Si ritiene
opportuno ribadire l'orientamento che, in tutti i
casi in cui sia possibile, la situazione di bisogno, relativamente al bimbo
piccolo, trovi una positiva soluzione nell'inserimento immediato in un ambito
familiare, o tramite adeguati sostegni alla famiglia d'origine, o tramite
affidi eterofamiliari, senza passaggio nelle
Comunità.
Proprio in base alle considerazioni
che ci inducono a privilegiare
la famiglia rispetto alla Comunità, riteniamo dovere escludere risposte in
termini di ospedalizzazione e di sezione notturna presso asili nido in quanto
la loro organizzazione non potrebbe che presentare aggravate le
caratteristiche individuate come limite nelle Comunità.
c) Richieste di ammissione
dal territorio, si riferiscono anche a minori con handicap. A questo proposito
va ribadito un orientamento che non esclude a priori
l'inserimento del bambino con handicap, ma va altresì sottolineata la necessità
sia di una attenta valutazione delle possibilità di sbocco dell'handicappato
sia delle difficoltà e dei problemi già esistenti all'interno del gruppo, per non dar luogo ad aggregazioni «speciali»,
nell'intento di attuare un intervento che sia davvero integrante e non
emarginante.
Analoghe considerazioni possono
farsi per la «devianza». Bisogna anche in questo caso valutare i rischi, per
non creare situazioni prive di sbocchi che finiscono col paralizzare la stessa
attività del servizio.
d) Esperienze di «pronto intervento»
presso le Comunità di Modena Est e Don Minzoni sono
state valutate controproducenti perché hanno consentito una risposta superficiale e non approfondita ai bisogni del minore
e al suo nucleo familiare. I loro problemi hanno forse continuato ad essere
trattati al di fuori di una valutazione comprendente il contributo degli operatori delle Comunità. Presso queste
i minori sono stati «parcheggiati»
per un breve periodo di tempo, che ha comportato disorientamento nel gruppo già
aggregato e sofferenza per il nuovo arrivato, senza dar luogo a nessun positivo
processo di reciproco adattamento. Per tale tipo di bisogno, in base alle
precedenti considerazioni, riteniamo sia importante cercare risposte sul territorio che escludano
sradicamenti sia pure per breve tempo.
Conduzione del
servizio
1) In rapporto ai ragazzi ospiti,
oltre alle precedenti considerazioni, le recenti giornate di verifica hanno fatto sì che unanimemente confermassimo il carattere eterogeneo delle Comunità.
L'omogeneità di fondo ci pare debba essere data dal
tipo di bisogno, per quanto invece riguarda l'età, basta una suddivisione per
grosse fasce. Riteniamo che una stretta settorializzazione per età ci restituisca alla passata
esperienza degli istituti, mentre l'esperienza comunitaria ci ha fatto
valutare gli aspetti positivi di una socializzazione
più vicina al modello familiare, in cui adulti e ragazzi di diverse età si
forniscono reciprocamente stimoli positivi di crescita.
D'altra parte ci sono servizi
scolastici e prescolastici per bisogni specifici che richiedono più strette aggregazioni anche in base al criterio dell'età.
2) In merito al rapporto con gli
altri servizi, fin dal loro sorgere le Comunità si sono proposte, assieme
all'obiettivo d'inserimento dei ragazzi, un obiettivo d'integrazione col
territorio e con tutti i momenti di servizio (équipe,
scuole, luoghi di lavoro, ecc.) e di partecipazione (quartiere, ecc.) che il
territorio è in grado di esprimere. A questo
proposito va detto che molto è ancora da fare, in quanto abbiamo verificato come
forti siano le spinte alla delega e quindi alla emarginazione sulle situazioni complesse
e sui problemi di cui sono portatori i nostri ragazzi.
Non volendo riprodurre la logica
dell'istituto, in quanto logica di separazione dalla più ampia collettività,
riteniamo importante divenga consapevolezza di tutti (enti, servizi e
cittadinanza) che l'emarginazione si
combatte assumendo le problematiche educativo assistenziali
a livello di impegno comune, senza deleghe, a specifici servizi o ad
operatori.
Vogliamo perciò sottolineare
come la sollecita possibilità di fruire di servizi pubblici gratuiti (asili
nido, scuole materne, consultori, ecc.) sottrae le comunità a una dimensione di lavoro privatistica
e garantisce al minore l'inserimento nel tessuto sociale.
Questo nodo è rilevante anche per
quanto riguarda i costi dell'intervento, che aumenta proprio anche in
considerazione delle difficoltà che le comunità hanno incontrato nel cercare di evitare una risposta in proprio ai vari bisogni di volta
in volta emersi (sanitari, ecc.).
Pesa ancora sui costi la mancanza di
un adeguato collegamento per un utilizzo più corretto da parte dei Comuni del
Consorzio di Modena del servizio offerto dalla
Comunità.
Bisogna evitare l'attuale
sperequazione tra i posti vuoti in comunità e le rette pagate presso istituti a
volte addirittura fuori provincia.
3) A quattro anni dall'inizio
dell'esperienza c'è l'esigenza di rivedere anche il problema del
personale, in considerazione di alcuni importanti fattori:
a)
limiti della qualificazione del personale utilizzato, insiti nella sua stessa
provenienza (istituti e relativi ruoli);
b) il logorio che ha comportato
l'assunzione delle responsabilità relative al tipo di
esperienza;
c)
la necessità di una mobilità del personale che tenga conto dell'esistenza del
«collettivo» là dove questo si è costituito e opera in quanto tale; che
contribuisca al suo formarsi, là dove non c'è finora stata sufficiente
continuità educativa;
d) esigenza di consolidare una identità professionale in direzione educativa, tramite
l'individuazione di personale già qualificato in tal senso e tramite garanzie
di aggiornamento periodico;
e)
esigenza di rivedere l'organizzazione di una parte del lavoro domestico, in
modo da liberare più energie in direzione educativa e per il lavoro di territorio.
Conclusioni
Ci pare dover richiamare la validità
e l'attualità di quanto già proposto nella sintesi di un documento del marzo
1977, comune agli operatori di tutte le Comunità:
- progressiva trasformazione delle
Comunità alloggio in Comunità territorialmente
definite, per essere in grado di limitare l'emarginazione dei ragazzi temporaneamente
ospitati;
- evoluzione degli
interventi forniti dagli operatori della Comunità, al fine di rendere prevalenti
gli interventi preventivi (rispetto al ricovero) su quelli collocativi.
I tempi ci paiono maturi, anche in
considerazione del D.P.R. 616 e delle prossime riforme dei settori
socio-sanitario e assistenziale, per prefigurare, in ambito consortile e nel contesto degli interventi
previsti dalla legge regionale n. 22 per la tutela della maternità e infanzia,
un momento unitario per gli interventi integrativi e sostitutivi della
famiglia.
Tale servizio consortile dovrebbe
collegare tutte le forze, attualmente disperse in
interventi separati per singole IPAB o Ente di categoria, consentendo una
riorganizzazione che salvaguardi sia l'esigenza di unitarietà sia l'esigenza
di articolare risposte specifiche in base a specifici bisogni e ambiti
territoriali. Nel quadro degli interventi da
collegarsi in tale servizio unitario, a nostro avviso vanno sin d'ora previsti:
a) interventi sul minore, sulla
famiglia di origine, sulle istituzioni cointeressate
al processo di crescita, per il pieno inserimento nel tessuto sociale,
comprensivi di quelli che richiedono collaborazione con la struttura
giudiziaria che tutela i minori;
b) interventi di attuazione
e sostegno di affidamenti eterofamiliari, di
segnalazione dello stato d'abbandono di minore, di sostegno a nuclei adottivi;
c) interventi che richiedono un
momento residenziale in tempi più o meno lunghi, per
la individuazione e la realizzazione di sbocchi familiari, o autonomi per
soggetti prossimi alla maggiore età.
Fiduciosi che la definizione di
quanto individuato e proposto trovi da parte degli enti interessati i
necessari momenti di ulteriore discussione e
approfondimento, rimettiamo il presente documento affinché possa costituire una
base di ulteriore lavoro.
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