Prospettive assistenziali, n. 46, aprile
- giugno 1979
Tutto
il lavoro fatto dal '62 ad oggi per assicurare una idonea
sistemazione familiare dei bambini in situazione di abbandono è stato travolto
dalla sentenza della Corte di Cassazione che pubblichiamo insieme con il
comunicato stampa dell'Associazione nazionale famiglie adottive e la
cronistoria della vicenda della piccola Stefania.
Per
la Cassazione, infatti, i bambini abbandonati sono fanciulli
di serie B. Non sono delle persone con propri diritti,
ma degli oggetti. Oggetti che possono essere preda delle
coppie o dei singoli che, non avendo figli, si sentono frustrati e vogliono
colmare questa loro lacuna. A questi predatori di bambini (non importa
se vecchi, se incapaci ad educare, se cercano di risolvere con l'adozione loro
patologie personali o familiari), la Corte di Cassazione riconosce il diritto di accaparrarsi dei bambini indifesi.
È
una sentenza che, al di là delle rituali celebrazioni
dell'Anno internazionale del fanciullo, dimostra quanto sia ancora arretrata
la mentalità di certi giudici. Dimostra inoltre che, quando cade la pressione
della base, le forze reazionarie possono annullare le conquiste raggiunte,
comprese quelle che avevano avuto ed hanno il pieno appoggio
dell'opinione pubblica, degli Enti locali, degli operatori sociali e dei
magistrati che operano a diretto contatto con i minori.
COMUNICATO
STAMPA DELL'ASSOCIAZIONE NAZIONALE FAMIGLIE ADOTTIVE E AFFIDATARIE
In merito alla vicenda della piccola
Stefania, venduta dalla madre a una coppia di persone
a lei sconosciute per L. 250.000, l'Associazione nazionale
famiglie adottive e affidatarie (ANFAA) esprime le più vive preoccupazioni nei
riguardi della recente sentenza della Corte di Cassazione.
Infatti la sentenza sancisce un
pericolosissimo principio: qualsiasi persona può adottare con adozione
ordinaria bambini in situazione di abbandono e sottrarli alla procedura
prevista dalla legge del 1967 sull'adozione speciale.
Per la Cassazione sono indifferenti
le modalità con cui le persone entrano in possesso dei bambini, magari
pagandoli. Nessuna importanza viene data all'età di
chi adotta con adozione ordinaria, per cui un ottantenne potrebbe adottare un
bambino di pochi mesi. Nessun accertamento viene fatto
sulle capacità educative degli adottanti, che possono essere marito e moglie o
anche una persona sola.
Inoltre l'ANFAA giudica molto strani
i provvedimenti della Corte di Appello di Palermo e della
Cassazione a favore dell'adozione ordinaria. Infatti
essi sono stati pronunciati modificando, in modo diametralmente opposto,
sentenze precedentemente emesse dagli organi sopraindicati e senza che fossero
intervenuti cambiamenti della situazione della bambina.
Questo è possibile anche perché in
Italia esistono ancora, malauguratamente, due forme di adozione,
quella ordinaria e quella speciale.
L'ANFAA si è sempre opposta e si
oppone all'adozione ordinaria dei bambini abbandonati, perché
solo l'adozione speciale garantisce al bambino l'inserimento in una famiglia completa,
la presenza di genitori idonei sul piano educativo e con un'età adeguata.
L'intervento del Tribunale per i
minorenni e dei servizi sociali in tutte le fasi dell'adozione speciale assicura una completa tutela del bambino e dei suoi diritti,
tutela assolutamente non prevista per l'adozione ordinaria.
In merito alla situazione della
piccola Stefania, l'ANFAA confida che la Corte di Appello
di Torino, che esaminerà il caso nelle prossime settimane, lasci la bambina
alla famiglia cui è stata data in adozione speciale con un responsabile
provvedimento del Tribunale per i minorenni di Torino.
La Corte di Appello
di Torino non dovrebbe accettare la richiesta dei coniugi che l'hanno comprata
e adottata con l'adozione ordinaria, tenendo conto sia dei motivi di principio
sopra indicati, sia del fatto che la piccola Stefania è felicemente inserita da
più di due anni nella famiglia che l'ha adottata con adozione speciale.
CRONISTORIA DI STEFANIA (3 ANNI)
21
gennaio 1976.
Stefania nasce all'Ospedale Sant'Anna di Torino. La
madre non intende riconoscere la bambina, che viene
registrata come figlia di ignoti e viene portata il 2 febbraio all'Istituto
Provinciale per l'infanzia e la Maternità (IPIM) con l'intesa che verrà data in
adozione speciale.
17
febbraio 1976. Si
presenta all'IPIM di Torino la madre dicendo di aver riconosciuto la figlia
(esibisce l'attestazione relativa) e di volerla affidare a degli zii residenti
in Puglia insieme all'altro figlio nato nel 1974 e
ricoverato anch'esso all'IPIM.
18
febbraio 1976.
L'IPIM, dopo aver accertato l'effettiva disponibilità degli zii, consegna la
bambina alla madre.
18
febbraio 1976. La
madre, che era stata contattata precedentemente da
un'infermiera dell'Ospedale Sant'Anna e da un
avvocato di Palermo, parte in aereo per Palermo con la bambina, l'infermiera e
i coniugi cui verrà affidata la bambina.
19
febbraio 1976. La
madre presta davanti al Tribunale per i minorenni di Palermo
il proprio consenso all'adozione ordinaria da parte dei signori Marino
(il marito è deputato dell'Assemblea siciliana) che la compensano con L. 250.000.
20
febbraio 1976. Gli
zii segnalano all'Istituto provinciale per l'infanzia che madre e figlia non si
sono trasferiti presso di loro.
15
marzo 1976. Il
Tribunale per i minorenni di Torino ordina l'immediata restituzione della bambina
che è stata sottratta dalla madre e dai coniugi Marino alla procedura relativa alla dichiarazione di adottabilità e all'adozione
speciale. La bambina viene riportata all'IPIM di
Torino.
24
marzo 1976. Il
Tribunale per i minorenni di Torino dichiara lo stato di adottabilità
di Stefania poiché la cessione della bambina a sconosciuti, l'accettazione di
denaro, la dichiarazione di non aver più intenzione di vedere Stefania da parte
della madre comprovavano un'evidente situazione di abbandono.
23
marzo 1976. Il
Tribunale per i minorenni di Palermo respinge la domanda di adozione
ordinaria presentata dai coniugi Marino.
21
aprile 1976. La
Corte di Appello di Palermo respinge il ricorso dei
coniugi Marino contro il provvedimento di cui sopra del Tribunale per i
minorenni.
14
dicembre 1976. La
Corte di Appello di Torino respinge le istanze
presentate dalla madre e dai coniugi Marino e conferma la dichiarazione di
adottabilità di Stefania.
2
marzo 1977. La Corte
di Appello di Palermo riesamina il suo provvedimento
emesso un anno prima e pronuncia l'adozione ordinaria di Stefania nei riguardi
dei coniugi Marino. La procedura instaurata dalla Corte di Appello
è sorprendente in quanto mai una Corte di Appello ha riesaminato un suo
provvedimento scavalcando il Tribunale per i minorenni.
22
luglio 1977. Il
Tribunale per i minorenni di Torino dispone l'affidamento preadottivo
di Stefania ad una coppia di Torino.
13
gennaio 1978. La
Corte di Cassazione respinge il ricorso presentato dalla madre dichiarando
che nella cessione della bambina da parte della madre «deve ravvisarsi una
situazione di abbandono che giustifica la
dichiarazione di adottabilità».
3
ottobre 1978. Il
Tribunale per i minorenni di Torino pronuncia l'adozione speciale di Stefania.
3
ottobre 1978. La
Corte di Cassazione dichiara che la pronuncia dell'adozione ordinaria di Stefania da parte dei coniugi Marino fa cessare lo stato di adottabilità e ogni possibilità di adozione speciale.
SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La Corte suprema di Cassazione,
Sezione I civile, composta dai sigg. Magistrati: Dott.
Jannuzzi Angelo Michele, Presidente; Dott. Scanzano Giuseppe; Falcone Alessandro; Caturani
Giuseppe; Sensale Antonio, relatori consiglieri
ha pronunciato la seguente sentenza
nel ricorso proposto da: Marino Gioacchino e Scalia Vincenza, elett. dom. in Roma, v.le Angelico
92, presso avv. Carlo Fornario che li
rapp. e difende con l'avv.
Luigi Maniscalco Basile in virtù di procura speciale, ricorrenti contro avv.
Giuseppe Marzano nella qualità di curatore speciale
della minore Gioia Marino Stefania e il Presidente del Tribunale per i
minorenni di Torino intimati avverso il provvedimento della Corte d'Appello di
Torino - Sez. per i minorenni - in data 13-6, 27-9 e
15-10-77;
sentita la rel. del cons. dott. Antonio
Sensale; per il ricorrente l'avv. Maniscalco Basile;
sentito il P.M. dott. Serio Gennaro che
conclude per l'inammissibilità del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decreto del 24 marzo 1976 il
tribunale per i minorenni di Torino dichiarava lo stato di adottabilità
di Gioia Stefania (nata il 21 gennaio 1976 a Torino da Gioia Maria Domenica,
che l'aveva riconosciuta come figlia naturale), disponendo il ricovero della
stessa presso l'Istituto IPIM di Torino. Con sentenza del 31 luglio 1976 lo
stesso Tribunale per i minorenni di Torino respingeva la opposizione
proposta dalla madre naturale della minore avverso il decreto di adottabilità. Il gravame contro tale sentenza veniva
anch'esso rigettato dalla Corte d'appello con sentenza
esecutiva del 14 dicembre 1976, impugnata con ricorso per cassazione.
Intanto, nelle more del procedimento
di adozione speciale, la Corte d'appello di Palermo,
revocando un proprio precedente decreto del 21 aprile 1976, faceva luogo
all'adozione ordinaria della minore a favore dei coniugi Gioacchino Marino e
Vincenza Scalia con decreto del 2 marzo 1977.
In forza di tale provvedimento i
coniugi adottivi Marino-Scalia chiedevano
all'istituto IPIM di Torino la consegna della minore, che nelle more della
procedura di adozione ordinaria era stata dal
Tribunale per i minorenni di Torino prelevata dall'istituto ed affidata ad una
famiglia di Torino, a norma dell'art. 314/6 c.c.
Di fronte alle istanze
dei coniugi Marino-Scalia lo stesso Tribunale, con
decreto dell'8 aprile 1977 confermava l'ordine già dato, vietando agli stessi
di entrare in contatto con la minore. Successivamente, con decreto del 3
giugno 1977, il tribunale confermava implicitamente lo stato di adottabilità della minore,
rigettando ogni istanza di revoca e ritenendo tale stato prevalente sulla
adozione ordinaria. I coniugi Marino-Scalia proponevano
allora tre ricorsi, che però venivano rigettati tutti
dalla Corte d'appello di Torino, che con decreti del 13 giugno, del 29
settembre e del 25 ottobre 1977, confermava il divieto ai predetti coniugi di
avere in consegna la figlia adottiva.
Con tali provvedimenti, ora gravati
di ricorso, la Corte d'appello di Torino ha, in sostanza, affermato che il
provvedimento di adozione ordinaria pronunziato nelle
more del procedimento di adozione speciale non costituisce giudicato: è sempre
revocabile e perciò non caduca lo stato di adottabilità speciale della minore,
così come la stessa opposizione dei genitori naturali non fa venir meno tale
stato, ricavandosi dal sistema della legge un evidente favor per l'adozione speciale
rispetto a quella ordinaria. La stessa revoca dello stato di adottabilità,
secondo la Corte torinese, è consentita solo quando essa sia conforme
all'interesse del minore, il che non si è ritenuto, nel caso, essendosi invece
ravvisato l'interesse della piccola Gioia Stefania nel non essere sradicata
dalla famiglia torinese, presso la quale si trova, e trapiantata in Sicilia.
In ordine, poi, alla competenza
territoriale, secondo la Corte, il Tribunale di Torino era
pienamente competente, essendo Torino il luogo di residenza della
minore.
Infine, con l'ultimo decreto in data
25 ottobre 1977, la Corte ha ritenuto improponibile l'appello contro il decreto
del 3 giugno 1977 del Tribunale sul presupposto che i coniugi Marino-Scalia avevano già proposto reclamo avverso lo
stesso in sede camerale, escludendo con ciò stesso l'appellabilità
del decreto in sede contenziosa.
Contro i decreti della Corte
d'appello del 13 giugno, del 29 settembre e 25 ottobre 1977, depositati
rispettivamente il 18 giugno, il 6 ottobre ed il 2 novembre 1977, propongono
separati ricorsi i coniugi Marino-Scalia,
fondati, il primo, su quattro, il secondo, su tre; ed il terzo, su due motivi
di annullamento ed illustrato con memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
In via preliminare deve procedersi alla riunione dei
ricorsi proposti dai coniugi Marino-Scalia contro i
provvedimenti della Corte d'appello di Torino, sezione per i minorenni,
pronunziati il 13 giugno, il 27 settembre e il 25 ottobre 1977 e depositati,
rispettivamente, il 18 giugno, il 6 ottobre ed il 2 novembre 1977.
Con il primo di essi
la Corte di merito ha respinto il reclamo dai suddetti coniugi proposto contro
il decreto dell'8 aprile 1974 pronunziato dal Tribunale per i minorenni, il
quale, ai sensi degli artt. 333 e
336, ultimo comma, c.c. e richiamati anche gli artt.
314/6 e 314/16 c.c., aveva
disposto l'affidamento della minore Gioia Stefania
ad un istituto in pendenza della impugnazione del decreto di adottabilità
della stessa, ordinando che la minore rimanesse presso il nucleo familiare ove
già si trovava e vietando ai genitori adottivi Marino-Scalia
(i quali avevano iniziato il procedimento per l'adozione ordinaria anteriormente
alla dichiarazione di adottabilità ed all'inizio stesso dell'iter ad essa
conducente) di visitare la bambina ed all'Istituto di far loro conoscere ove e
presso chi ella si trovasse. Il rigetto del reclamo muove dalla considerazione
che i coniugi Marino-Scalia, nel tentativo di ottenere la consegna della bambina in forza della
conseguita adozione ordinaria, avevano posto in essere una condotta a lei
pregiudizievole.
Con il secondo provvedimento
la Corte torinese ha rigettato il reclamo proposto dai coniugi Marino-Scalia contro il decreto del Tribunale per i
minorenni in data 3 giugno 1977, con il quale erano state respinte le istanze
dagli stessi proposte allo scopo di ottenere l'annullamento o,
subordinatamente, la revoca del precedente decreto dell'8 aprile 1977, nonché
l'accertamento dell'avvenuta cessazione dello stato di adottabilità
per effetto dell'intervenuta adozione ordinaria della minore o, gradatamente,
la revoca della dichiarazione di adottabilità. Il provvedimento impugnato
dinanzi a questa Corte ha negato che la sopravvenienza dell'adozione ordinaria
valga a caducare lo stato di adottabilità
dichiarato nel corso del procedimento di adozione speciale.
Infine, con il terzo provvedimento la Corte torinese ha dichiarato improponibile
l'appello dei Marino-Scalia contro il decreto del 3
giugno 1977 del Tribunale per i minorenni, fondato sulle stesse ragioni poste
a sostegno del reclamo, motivando la declaratoria d'improponibilità con la
considerazione della reclamabilità del decreto
impugnato (e dell'avvenuta proposizione del reclamo) col rito camerale.
Ad imporre la riunione dei ricorsi è
la essenziale unità della controversia, vista sotto
il duplice profilo processuale e sostanziale, che ne giustifica una
definizione unitaria, tenuto conto che, malgrado le sue successive
articolazioni, il contesto processuale muove da un unico provvedimento, del
Tribunale per i minorenni, quello dell'8 aprile 1977, dal quale la vicenda
processuale si è poi sviluppata per vie diverse.
Alla riunione non osta la previsione
dell'art. 335 c.p.c. che, per il principio della
concentrazione delle impugnazioni, obbliga alla riunione in un solo processo,
anche d'ufficio, dei gravami proposti contro la stessa sentenza. Invero, la obbligatorietà, in tal caso, della riunione non preclude
al giudice di disporla facoltativamente in ipotesi d'impugnazioni proposte
contro sentenze diverse pronunziate fra le stesse parti. Ciò è stato
implicitamente affermato da questa Corte allorché ha ritenuto non obbligatorio
per il giudice riunire d'ufficio impugnazioni proposte contro sentenze
diverse pronunziate in separati procedimenti, anche se vertenti tra le stesse persone, indirettamente riconoscendo in questo
caso la possibilità di una riunione facoltativa (Cass. sez. un. 26 maggio 1959,
n. 1604). Ed applicazione di questo principio è stata fatta con la sentenza n. 4974 del 15 novembre 1977, con la quale si è
consentita la riunione fra i ricorsi per cassazione proposti, rispettivamente,
contro la sentenza che pronunzia la separazione personale fra i coniugi e
quella che pronunzia lo scioglimento del matrimonio fra i coniugi medesimi, in
considerazione delle interferenze fra la definizione dell'una e dell'altra
causa, con particolare riguardo alla regolamentazione dei rapporti patrimoniali
per il periodo antecedente e per quello successivo al divorzio.
Riuniti i ricorsi, se ne deve
esaminare l'ammissibilità, dato che essi sono rivolti contro provvedimenti non
aventi i caratteri formali della sentenza ed emanati a chiusura di procedimenti
strutturali nelle forme proprie della volontaria giurisdizione, inidonei alla
costituzione del giudicato ed ai quali non sarebbe applicabile in via di
principio la garanzia giurisdizionale prevista dell'art. 111 della
Costituzione.
Il problema di ammissibilità
sorge in dipendenza del principio generale assunto in relazione ai
provvedimenti del giudice, secondo cui la forma esteriore ad essi data è
puramente indiziaria della loro natura, essendo decisivo al riguardo il
contenuto sostanziale dei provvedimenti stessi. Se ne deduce la
impugnabilità in cassazione per violazione e falsa applicazione di norme
di diritto, ai sensi dell'art. 111 cost., non solo
delle sentenze che siano dichiarate non impugnabili, ma anche dei provvedimenti
oggettivamente decisori contro i quali non sia dato alcun rimedio, ancorché
legittimamente emessi in forma di ordinanza o di decreto, mentre non sono
soggetti a ricorso per cassazione i provvedimenti di carattere non decisorio, salvo che la legge disponga altrimenti.
I presupposti della
impugnazione ex art. 111 cost., sono, quindi,
la definitività del provvedimento e la idoneità di
esso a dirimere conflitti tra diritti soggettivi, sì che taluno di questi possa
risultare irrimediabilmente pregiudicato da un provvedimento illegittimamente
dato.
Procedendo alla indagine
sul contenuto sostanziale dei provvedimenti impugnati (ed a tal fine si
richiama la individuazione che se n'è fatta poc'anzi
ai fini della riunione), si rileva che il primo, pronunziato il 13 giugno 1977
e depositato il 18 successivo, s'inquadra nello schema previsto dall'art. 336
c.c. in relazione all'art. 333 dello stesso codice. Ciò si desume dalla
citazione di tali norme nella motivazione del provvedimento e dal coerente
contenuto di esso nel dare atto, da un lato,
all'adozione ordinaria già pronunziata a favore dei coniugi Marino-Scalia
(indicati come «genitori adottivi») e nell'impartire, dall'altro, i
provvedimenti ritenuti convenienti per la minore già adottata, sul presupposto
del pregiudizio derivantele dalla condotta dei
genitori adottivi volta a realizzare l'esercizio della patria potestà (oggi:
potestà dei genitori, secondo il nuovo diritto di famiglia), mediante la presa
in consegna della bambina.
Nell'ambito dello schema suddetto
rimane il provvedimento della Corte d'appello, che, senza pronunziarsi sulla
compatibilità dell'esercizio della potestà dei genitori adottivi sulla minore
con la pendenza del procedimento di adozione speciale
e ritenendo superfluo l'esame del reclamo sul punto dei rapporti fra i due
tipi di adozione, si limita a rigettarlo sul presupposto (che è proprio quello
indicato nell'art. 333 c.c.) che la condotta dei Marino-Scalia
era pregiudizievole alla minore.
Ora, com'è affermato principio di
questa Corte (v. sentenze 167/75, 2177/65 e 1947/63), i provvedimenti in
materia di patria potestà adottati in camera di consiglio ed impugnabili con
reclamo non hanno natura contenziosa, perché non risolvono un conflitto di opposti interessi, ma tendono a regolare un
potere-dovere nell'unico interesse generale della famiglia. Si tratta, quindi,
di provvedimenti che non hanno contenuto oggettivamente decisorio,
in quanto non incidono definitivamente su diritti soggettivi, e per loro stessa
natura, oltre che per espressa disposizione di legge (v. art.
333, ult. comma, c.c.), sono
in qualsiasi momento revocabili e non sono perciò idonei a costituire
giudicato.
Pertanto, il ricorso n. 1122/78, proposto
dai Marino-Scalia contro il provvedimento della Corte d'appello di Torino, sezione per i minorenni,
pronunziato il 13 giugno e depositato il 18 giugno 1977, dev'essere
dichiarato inammissibile.
Ammissibile, invece, è il ricorso n.
1123/78, proposto contro il provvedimento della stessa
Corte d'appello pronunziato il 27 settembre e depositato il 6 ottobre 1977.
Trattasi, infatti, di provvedimento che, per quanto legittimamente emesso in
forma di decreto e con il rito della giurisdizione volontaria, non solo è
definitivo, nel senso che contro di esso non è dato
alcun rimedio, ma ha contenuto oggettivamente decisorio,
in quanto incide su diritti soggettivi.
È vero che i decreti emessi dalla
Corte d'appello in camera di consiglio ai sensi dell'art. 739 c.p.c. in linea di massima sono stati ritenuti non
assimilabili a sentenza ai sensi e per gli effetti dell'art. 111 cost., ma
siffatto principio postula che i decreti, lungi dal risolvere contestazioni in
ordine a diritti soggettivi, abbiano natura di provvedimenti amministrativi,
cioè di provvedimenti ordinatori non contenziosi, destinati a lasciare impregiudicati gl'interessi delle parti sul piano del
diritto sostanziale. Ma non si dubita che ad escludere la natura contenziosa di
un provvedimento non è sufficiente che esso si
discosti dallo schema del processo ordinario e che sia caratterizzato da
forme particolari; poiché la natura contenziosa del procedimento può
coesistere con il rito camerale e con provvedimenti conclusivi aventi la forma
dell'ordinanza o del decreto, tipici della giurisdizione volontaria.
Tale situazione ricorre in materia
di provvedimenti concernenti lo stato di adottabilità
dei minori, provvedimenti che, ove, come nel caso concreto, se ne chieda la
revoca o l'annullamento previo accertamento della cessazione dello stato di
abbandono in conseguenza della sopravvenuta adozione ordinaria, ben possono
essere generatori di vere e proprie controversie tra parti contrapposte
relative alla pretesa ad un determinato status
o diritto, tutte le volte che si deduca l'illegittimo perdurare dello stato di
adottabilità. Questo, infatti, pone la premessa necessaria affinché possa
provvedersi alla cura del minore attraverso
l'adozione speciale, che ne determina l'inserimento in una nuova famiglia. E,
tali essendo la portata e la finalità del provvedimento dichiarativo dello
stato di adottabilità, l'istanza diretta ad ottenere
l'annullamento o la revoca o, comunque, la declaratoria di cessazione della sua
efficacia genera una controversia in ordine alla permanenza di quello «stato di
abbandono», che aveva giustificato l'emanazione del provvedimento, avente come
parti contrapposte i genitori del minore (nel caso: i genitori adottivi), il
Pubblico Ministero e le persone che in quel momento rappresentano il minore
(eventualmente, il tutore nominato ai sensi dell'art. 341/16 c.c.).
Né - come questa Corte ha avvertito
con la sentenza n. 1306 del 12 maggio 1973 - può essere negato che la
controversia anzidetta concerne veri e propri diritti, identificabili, da un
lato, nel diritto del minore a ricevere l'assistenza materiale e morale che gli
è dovuta; dall'altro, nei diritti connessi alla
potestà dei genitori, anche se nella più recente elaborazione della materia
si tende a valorizzare la natura di officium della potestà dei genitori, volto al soddisfacimento
delle esigenze materiali e morali del figlio ed a riconoscere che il relativo
potere è attribuito al genitore per la protezione non di un interesse suo
proprio, ma per la realizzazione dell'interesse del figlio su cui si fonda
l'ufficio rivestito (cfr. in
arg. la sentenza n. 156 di
questa Corte in data 13 gennaio 1978).
Il provvedimento del giudice
chiamato a risolvere siffatto conflitto, essendo destinato a
confermare o a rimuovere le premesse definitive del nuovo status familiae
della piccola Gioia Stefania, viene ad incidere sul
suo stato giuridico (cfr. in
senso analogo, per il caso di opposizione allo stato di adottabilità, Cass. 12
aprile 1972 n. 1154) ed ha contenuto oggettivamente decisorio,
per cui poteva essere proposto contro di esso il ricorso per cassazione ai
sensi dell'art, 111 cost.
Del pari ammissibile è il terzo
ricorso (n. 1124/ 78), prodotto contro il provvedimento della Corte d'appello,
con il quale fu dichiarato improponibile l'appello dei Marino-Scalia
contro il decreto del Tribunale in data 3 giugno 1976, parallelamente
impugnato col reclamo sfociato nel provvedimento
contro cui i Marino-Scalia hanno proposto il secondo
ricorso recante il n. 1123/78.
Al riguardo, basta considerare, sul
piano formale, che la Corte d'appello ha deciso su un gravame proposto, in
forma d'appello (quindi, contro un provvedimento indicato dalla parte impugnante
come sentenza), e che la decisione su un atto d'appello è formalmente una
sentenza; sul piano sostanziale, che l'oggetto dell'imputazione
era sostanzialmente identico a quello dei reclami, vertente, come s'è detto, in
materia contenziosa tale da giustificare il ricorso ex art. 111 cost. contro il
provvedimento che ha deciso sul reclamo stesso.
Passando all'esame dei motivi
proposti con il ricorso n. 1123/78, si osserva che con il primo i ricorrenti
denunziando la violazione degli artt. 147, 301, 316,
45 c.c., in relazione
all'art. 360 n. 3 c.p.c., deducendo la incompetenza
territoriale della Corte d'appello di Torino, sezione per i minorenni, a
provvedere sul reclamo proposto contro il decreto del Tribunale per i
minorenni della stessa città, in quanto il domicilio della minore era in
Palermo presso i genitori adottivi, a nulla rilevando che ella di fatto si
trovasse in un luogo diverso.
Con il secondo motivo i ricorrenti
denunziando la violazione dell'art. 314 e ss. c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c.,
dolendosi che la Corte torinese abbia qualificato la loro opposizione allo
stato di adottabilità come mera richiesta di revoca, muovendo dall'erroneo
presupposto che l'opposizione allo stato di adottabilità fosse ancora pendente
in cassazione (mentre al contrario il procedimento di adozione speciale doveva
ritenersi estinto a seguito del decreto di adozione ordinaria), e non abbia
perciò osservato il modus procedendi di cui all'art. 314/13 c.c.
Con il terzo
motivo, infine, i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 291 e 314 e ss. c.c., 29 e 30 cost.,
in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., deducendo che
la sopravvenienza dell'adozione ordinaria impedisce la pronunzia dell'adozione
speciale e non è preclusa dalla dichiarazione di adottabilità del minore, di
cui, anzi, determina la cessazione. In via graduata, i ricorrenti denunziano la illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 29 e 30 cost., della norma che stabilisce la prevalenza dell'adozione
speciale su quella ordinaria, dato che la prima, a differenza della seconda,
recide ogni rapporto del minore con la famiglia naturale.
Il ricorso, per quanto di ragione, è
fondato. A tale conclusione si perviene non alla stregua delle ragioni
prospettate con i primi due motivi, relativi alla competenza ed al rito seguito
prima dal Tribunale per i minorenni e poi dalla Corte d'appello, bensì sulla
base dell'accoglimento, nei termini che saranno precisati, della censura che
investe la questione di fondo da cui trae origine la
controversia e che si appunta sugli effetti prodotti dall'adozione ordinaria
sul procedimento in corso di adozione speciale ed in particolare sullo stato di
adottabilità del minore.
Inquadrata la istanza
dei genitori adottivi nell'ambito del procedimento di adozione speciale ed
individuatone il contenuto in una domanda diretta a far dichiarare cessato lo
stato di adottabilità del minore quale necessario
presupposto dell'adozione speciale, se ne deduce agevolmente che competente
per territorio a provvedere sulla istanza è il giudice del luogo in cui il minore
si trova e che il rito da seguire è quello camerale.
Quanto alla competenza territoriale,
le norme che regolano il procedimento di adozione speciale,
dando particolare rilievo all'interesse del minore quale oggetto e scopo della
tutela normativa, individuando il criterio di collegamento in un rapporto di
fatto più che giuridico, indicando come competente a dichiarare lo stato di adottabilità e a dare il via al procedimento di adozione
speciale «il Tribunale per i minorenni del distretto nel quale si trovano i
minori». E la legge, come questa Corte ha osservato con la sentenza n. 1428 del
15 aprile 1975, operando con l'art. 314/20 c.c., in tema di affidamento preadottivo,
un sostanziale richiamo alla competenza territoriale stabilita dall'art. 314/4
c.c. e rendendo tale richiamo esplicito nell'attribuire la competenza a
dichiarare l'adozione speciale (art. 314/24 c.c.), ha dato esclusivo rilievo al
momento iniziale della procedura quale momento della determinazione della
competenza per i provvedimenti previsti nelle successive fasi della procedura
medesima.
Quanto al rito, esattamente
qualificata la domanda degli attuali ricorrenti non
come una opposizione allo stato di adottabilità (non più proponibile), ma
come una istanza diretta a far dichiarare cessato lo stato di abbandono e,
quindi, a far dichiarare la sopravvenuta inefficacia dello stato di
adottabilità, evidente ne discende la conseguenza della legittimità del rito
seguito. Infatti, l'applicazione del procedimento stabilito per l'opposizione
allo stato di adottabilità (che, per quanto modellato
secondo criteri di maggiore concentrazione e celerità, è aderente, nei suoi
momenti fondamentali, ai principi del procedimento contenzioso ordinario) è
prevista nel procedimento di revoca soltanto nel caso in cui sia avvenuto
l'affidamento preadottivo (art. 314, 4° comma, c.c.),
mentre ogni altro provvedimento è dato con la procedura della decisione in camera
di consiglio (art. 314/18, 3° comma, c.c.), che a fortiori, deve ritenersi applicabile
negli altri casi di cessazione previsti dall'art. 317/17 c.c.
Si perviene, così, alla questione
dalla quale la controversia trae contenuto e vigore: quella dei rapporti fra le
due forme di adozione, ordinaria e speciale, entrambe
consentite nell'ambito dell'ordinamento vigente, anche dopo l'istituzione della
seconda, con riguardo alla sorte dello stato di adottabilità degli atti conseguenziali, posti in essere prima del provvedimento di
adozione speciale, allorché sopravvenga, nel corso della procedura, il
provvedimento di un altro giudice, definitivo e non impugnabile, con il quale
si sia fatto luogo all'adozione ordinaria dello stesso minore.
Occorre premettere che questa Corte
si è già occupata della singolare vicenda (di cui la piccola Stefania Gioia è
involontaria protagonista e che ha visto due diversi giudici procedere l'uno sulla
via dell'adozione ordinaria e l'altro su quella dell'adozione speciale) in
sede di impugnazione del decreto di adottabilità da
parte della madre naturale della minore, nel corso della quale - pendente un
parallelo procedimento di adozione ordinaria - i futuri adottanti erano intervenuti
in grado d'appello (v. sentenza n. 156 del 13 gennaio 1978). Ed ha deciso che
la sopravvenienza, nelle more del procedimento di adozione
ordinaria, non aveva fatto cessare la materia del contendere; che lo stato di
adottabilità era stato legittimamente dichiarato, malgrado la pendenza di un
procedimento di adozione ordinaria; che l'affidamento a terzi a scopo di
adozione ordinaria del figlio minore di anni otto da parte del genitore
naturale integra una situazione di abbandono giustificativa della
dichiarazione di adottabilità in vista dell'adozione
speciale, che, per coloro che non abbiano ancora raggiunto tale età, rappresenta
il mezzo ottimale di realizzazione del diritto alla famiglia, cui può derogarsi
eccezionalmente solo quando lo richiede la particolare situazione di specie;
che, tuttavia, nel caso concreto, il problema della validità ed efficacia del
provvedimento di adozione ordinaria emesso in costanza di una dichiarazione di
adottabilità restava impregiudicato.
Allo scopo di risolvere in concreto
il problema lasciato aperto dalla precedente decisione, occorre considerare
innanzi tutto che, come la Corte Costituzionale ha
avvertito (v. sentenze n. 145/69; 158/71 e 76/74), le due forme di adozione,
ordinaria e speciale, possono coesistere e che, non essendo imposta al riguardo
una disciplina unica ed unitaria, è possibile che, sia pure rivolti a finalità
concorrenti o comuni, coesistano istituti distinti, come l'affidamento o
l'affiliazione e le due diverse forme di adozione, e che la complessiva
disciplina sia variamente articolata; ed è possibile altresì che l'adozione
speciale sia consentita alle condizioni ed entro i limiti risultanti dalle
scelte discrezionali che il legislatore abbia posto in essere in modo adeguato
e razionale. Avvertita l'esigenza di tutelare anche la famiglia legittima o
naturale, la legge ha predisposto condizioni e procedimenti tali da rendere
possibile l'adozione speciale solo nei confronti dei minori, di cui, con le
opportune garanzie, sia accertata l'esistenza di una situazione di abbandono materiale e morale e - v'è da aggiungere - per
i quali tale situazione perduri, dato che lo stato di adottabilità può essere
revocato nell'interesse del minore quando sia stato pronunziato nelle forme di
cui all'art. 314/7 (non risultante esistenza di genitori legittimi e naturali,
che abbiano riconosciuto il minore o la cui paternità e maternità sia stata
dichiarata giudizialmente, e di parenti tenuti agli
alimenti o disposti ad occuparsi convenientemente del minore) e cessa per
adozione (314/17 c.c.).
Ciò premesso, affinché la possibile
coesistenza delle due forme di adozione sussista è
necessario che l'adottando sia compreso nei limiti di età previsti per
l'adozione speciale e versi in stato di abbandono, essendo evidente che -
diversamente - difetterebbero i presupposti della adozione speciale e sarebbe
possibile farsi luogo solo ad adozione ordinaria. È quando
sussistono i presupposti di entrambe le adozioni che si pone un problema di
scelta, che, come questa Corte ha avvertito con la sentenza n. 156/78, deve
operarsi tenendo conto che in astratto l'adozione speciale «rappresenta il mezzo
ottimale di realizzazione del diritto alla famiglia, cui può derogarsi solo
quando lo richieda la particolarissima situazione di specie» e - deve
aggiungersi - considerando, al fine di coordinare la tutela del minore con
quella della famiglia legittima e naturale, entrambe costituzionalmente
garantite, che l'adozione speciale assicura l'inserimento del minore in un
nuovo contesto familiare sostituto alla famiglia genetica, con la quale viene
troncato ogni rapporto (conseguenza coerente con 'sl
presupposto dello stato di abbandono), mentre l'adozione ordinaria affianca
alla famiglia genetica una famiglia effettiva e non opera, sul piano personale
e su quello patrimoniale, il distacco del minore dalla prima, sì che ad essa
legittimamente si fa luogo proprio quando i presupposti dell'adozione speciale
difettino sin dall'origine o siano venuti meno nel corso della procedura di
adozione speciale.
Ma ciò che più preme rimarcare è che
il problema di scelta postula la concorrenza dei presupposti per farsi luogo
ad entrambe le forme di adozione, sì che, nei termini
risolutivi indicati poc'anzi in astratto, esso può
porsi soltanto ex ante, cioè prima che taluno dei presupposti dell'adozione
speciale sia venuto meno, elidendo una delle alternative, nel senso di non
giustificare ulteriormente il sacrificio della tutela della famiglia naturale.
Ora, ciò che nel caso concreto deve
decidersi è se, intervenuto nelle more della procedura di adozione
speciale un provvedimento di adozione ordinaria, la potestà del giudice di
scegliere per il minore la forma più conveniente di adozione sopravviva e se,
in definitiva, possa ancora residuare una possibilità di coesistenza fra le
due forme di adozione.
Al quesito deve rispondersi
negativamente.
Se infatti,
come si è rilevato, il presupposto del procedimento di adozione speciale può
venir meno anche dopo la dichiarazione dello stato di adottabilità, con la
conseguenza che essa perde di efficacia, non può disconoscersi che quel presupposto
cessa di operare e che la necessità di assicurare la tutela del minore posto a
base del procedimento di adozione speciale più non sussiste, allorché
sopravvenga un provvedimento definitivo di adozione ordinaria, la cui
possibilità di rimozione non è prevista da nessuna norma, dato che il minore,
in tal caso, non versa in stato di abbandono ed ha visto diversamente apprezzato
e tutelato il suo interesse da un provvedimento del giudice. Ciò non vuol dire
negare prevalenza in astratto al modello dell'adozione speciale come il più
idoneo ex ante a soddisfare
l'interesse del minore, bensì prendere atto che mancano, ormai, i presupposti
normativi per la sua utilizzazione.
Tale convincimento trova il suo
supporto normativo negli artt. 314/17, 314/18 e
314/10 c.c. Il primo prevede la cessazione dello stato di adottabilità
«per adozione» e limitarne l'applicazione all'ipotesi di sopravvenuta adozione
speciale svuoterebbe di significato la norma (che risulterebbe perciò
superflua), dato che il procedimento disciplinato dagli artt.
314/2 e ss. è, appunto, finalizzato al provvedimento di adozione
speciale, che lo conclude, sulla base della preesistenza e della persistenza
dei presupposti voluti dalla legge. Per contro, la diversa e più estesa
interpretazione della norma s'inquadra nei principi che presiedono alla
disciplina della adozione speciale, tesa a rimediare
allo stato di abbandono del minore, fin quando questo sussiste, ed è coerente
alla premessa della coesistenza delle due discipline, che risulterebbe negata
dalla irrilevanza, peraltro non giustificata sul piano giuridico, del provvedimento
di adozione ordinaria.
Le altre norme citate, oltre a
confermare la logica, comune e giuridica, del sistema, per
cui il procedimento di adozione speciale non è più giustificato quando
lo stato di abbandono venga meno nel corso di esso, negano rilievo alla possibile
obiezione che lo stato anzidetto debba riguardarsi, quale sia stato
inizialmente accertato, nei rapporti con i genitori naturali. Il coordinamento
dell'art. 314/18 e 314/7 c.c. fa sì che lo stato di
abbandono legale (in quanto normativamente affermato), sussistente nelle
ipotesi di cui all'art. 314/7 c.c., può cessare non
solo quando si venga a conoscenza della esistenza dei genitori legittimi o
naturali (e, nel caso previsto dall'art. 314/10 c.c.,
può sospendersi la efficacia della dichiarazione di adottabilità), ma anche
quando si accerti l'esistenza di parenti tenuti agli alimenti o disposti ad
occuparsi del minore, cioè quando lo stato di abbandono viene meno grazie all'intervento
di persone diverse dai genitori. Ed il limite, posto dall'art. 314/18
dell'interesse del minore a giustificazione della revoca, si spiega con la
considerazione che la scoperta dell'esistenza dei soggetti indicati nell'art.
314/7 c.c. non equivale alla certezza che in concreto lo stato di abbandono, in quanto posto in essere da quegli stessi
soggetti, non persista e cioè che quei soggetti siano effettivamente disposti
ad occuparsi del minore. Tale limite non sussiste (ed infatti
non è previsto dall'art. 314/18) nella ipotesi di sopravvenienza di genitori
adottivi, poiché lo stato di abbandono in precedenza accertato non è loro
riferibile e conseguentemente non può configurarsi un loro recesso da un abbandono
che precedentemente non hanno posto in essere. L'abbandono dai genitori
adottivi può, quindi, venire in considerazione soltanto in un momento
successivo e può essere oggetto di un nuovo accertamento con la conseguenza dell'apertura di un nuovo procedimento di adozione
speciale.
Il provvedimento impugnato è,
quindi, errato nella parte in cui afferma che l'intervenuta adozione ordinaria
della minore Gioia Stefania non vale a determinare la cessazione dello stato di adottabilità della stessa, dichiarato nel corso del
procedimento di adozione speciale. Tale provvedimento va, quindi, cassato, in relazione al punto suddetto, con rinvio alla stessa Corte
d'appello di Torino, sezione per i minorenni, quale giudice funzionalmente
competente, la quale dovrà riesaminare il ricorso proposto dai coniugi Marino-Scalia, uniformandosi al principio di diritto, secondo
cui la dichiarazione definitiva di adozione ordinaria di un minore nel corso di
un procedimento di adozione speciale, cui lo stesso sia sottoposto, determina
la cessazione dello stato di adottabilità già dichiarato e preclude l'ulteriore
corso del procedimento.
L'accoglimento del ricorso, nei
termini anzidetti, rende irrilevante la questione di illegittimità
costituzionale, peraltro sollevata in via gradata ed
in torma ipotetica in relazione alla norma in cui si ravvisa l'affermazione
della prevalenza dell'adozione speciale su quella ordinaria.
In conseguenza della decisione sul
ricorso n. 1123/78, il terzo ricorso, recante il n.
1124/78, in quanto volto ad ottenere la medesima pronuncia, resta assorbito.
Ricorrono giusti motivi per
dichiarare compensate le spese del giudizio di cassazione, relative a tutti i
ricorsi proposti:
P.Q.M.
La Corte di Cassazione riunisce i
ricorsi n. 1122, 1123 e 1124/78, proposti rispettivamente contro i provvedimenti
della Corte d'appello di Torino, sezione per i minorenni, resi in data 13
giugno 1977, 29 settembre 1977 e 25 ottobre 1977 e depositati il 18 giugno, il
6 ottobre ed il 2 novembre dello stesso anno. Dichiara inammissibile il
ricorso n. 1122/78; accoglie, per quanto di ragione, il ricorso n. 1123/78, in relazione al quale cassa il provvedimento impugnato e
rinvia alla stessa Corte d'appello di Torino, sezione per i minorenni; dichiara
assorbito il ricorso n. 1124/ 78.
Dichiara
compensate le
spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma il 3 ottobre 1978.
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