Prospettive assistenziali, n. 46, aprile - giugno 1979

 

 

Libri

 

 

AURELIA FLOREA, Anziani e società industriale, Liguori ed., Napoli, pag. 183, L. 3.900.

 

Auspicare qualsiasi allungamento della durata della vita umana, senza compiere seri sforzi per anticipare e progettare l'impatto dell'aumentata longevità nella società industriale, significa es­sere completamente irresponsabili. Per questo, sotto la spinta di studiosi ed operatori sociali, il problema della condizione anziana è ormai affron­tato dai mass media: televisione, radio, settima­nali e quotidiani vi hanno dedicato interi servizi.

Ma l'approccio è pur sempre pietistico, con riferimento esclusivo alla persona anziana in quanto malata o ricoverata in istituto; oppure assistenziale, come denuncia di carenze legisla­tive e istituzionali (pericoli dell'istituzionalizza­zione, problema sanitario, adeguamento delle pensioni, servizi aperti).

Questo libro della A. Florea, un'operatrice so­ciale attenta e studiosa, cerca ora di affrontare una ricerca gerontologica operando un collega­mento tra passato, presente e futuro ai fini di individuare dove la nostra società in trasforma­zione costringa l'individuo anziano a vivere in costante conflittualità.

«La scarsa disponibilità di dati statistici - precisa l'Autrice - in qualsiasi settore, la non comparabilità, così come il ritardo della elabo­razione dimostrano la carenza e l'esiguità di ricerca gerontologica in Italia (...). La difficoltà di ricostruire non solo il reddito globale degli anziani, ma anche quello pensionistico, la man­canza di dati censitari sulle abitazioni stratificate per età, quelli sulla solitudine e sull'isolamento, sulla povertà economica e sulla povertà rela­zionale, sulla partecipazione sociale, rendono difficile una seria analisi sociologica e psico­logica».

Malgrado la premessa, questo libro è una ri­cerca attenta e documentata sulla condizione del­la terza età. La vecchiaia può essere piacevole solo per alcuni privilegiati.

«Una indagine inglese del 1950 portava la vecchiaia in testa alla classifica delle categorie in cui veniva articolata la popolazione povera...».

«In Italia se consideriamo la povertà come stato non di disuguaglianza economica, ma di insufficienza economica, di squilibrio tra risorse e bisogni, dobbiamo includere nella popolazione povera per lo meno tre quarti dei pensionati italiani»... «Quindi gli aspetti fondamentali del­la tematica della vecchiaia sono ancora frequen­temente il bisogno economico, e, strettamente legato a questo, quello sanitario. Il 64% di ti­tolari di pensioni INPS usufruisce di importi men­sili al minimo e il 9,6 di importi inferiori al mi­nimo». E ancora «l'inadeguatezza del reddito, l'assenza di adeguate strutture sanitarie, la ca­renza di servizi sociali, conducono alla croniciz­zazione delle malattie, creando lungodegenti e irrecuperabili».

È così che il bisogno economico, la ricerca di sicurezza e la garanzia di assistenza in caso di necessità, ha dirottato gli anziani verso gli isti­tuti. All'istituzione globale, sorta per i poveri come custodia autoritaria per la difesa del tes­suto sociale, è seguita in una visione più rifor­mistica la «Casa di Riposo», pur sempre in una linea passiva e deresponsabilizzante e con una apertura verso la comunità solo superficiale. In contrapposizione a questa soluzione, e in una ottica più tollerante, oggi si cercano servizi al­ternativi. Ma per rendere concreta la proposta di servizi alternativi e aperti bisogna creare l'of­ferta di case albergo, comunità alloggio, mini­appartamenti, e, soprattutto per coprire le diverse angolazioni del bisogno, servizi ausiliari di quar­tiere, mense, ristoranti, lavanderie, ecc..

Se questa è la premessa, non basta ancora: la difficoltà maggiore dell'anziano è di conservare il senso della propria identità, affinché la vec­chiaia non diventi il periodo più esposto al disa­dattamento.

Ed è partendo da questo dato di fatto, della negatività della condizione anziana, nella società industriale, che, nella seconda parte del libro, l'autrice si propone di analizzare situazioni che manifestano comportamenti devianti riconducibili alla condizione anziana.

I dati e le tabelle allegate sono i risultati di una indagine su un campione di anziani che vi­vono soli, in famiglia, in casa di riposo. Analiz­zandoli scopriamo che solo la possibilità di par­tecipare all'ambiente circostante permette all'an­ziano di raggiungere uno stato di equilibrio ri­spetto all'ambiente stesso.

Nel processo di disadattamento dell'anziano che vive in famiglia, si scopre l'incapacità della famiglia di assolvere ai compiti che derivano dal­la convivenza, come ad esempio il compito di assistenza (da qui la necessità di un maggior ricorso all'ospedale da parte di anziani in fami­glia), ma anche quello di risolvere il problema relazionale con l'anziano. Mentre è indubbio che l'istituto nella sua struttura è ancor meno capace di offrire stimolo e sostegno per una integrazione più ampia nella vita comunitaria.

Il problema dell'anziano non è quindi soltanto un problema di servizi sociali e tanto meno di soli interventi assistenziali: è un problema di promozione umana che riguarda il nostro intero sistema di vita.

GIULIANA LATTES

 

 

AA.VV., Prospettive ed ipotesi per lo sviluppo delle comunità territoriali - Partecipazione ed informazioni, a cura della Fondazione Zancan, Padova, 1977, pagg. 172, L. 5.000.

 

La Fondazione «Zancan» con questa pubblica­zione ha dato un grosso contributo al dibattito su un tema molto noto: partecipazione e infor­mazione.

L'approccio interdisciplinare dei due temi ha mosso a confronto giuristi, sociologi, pedagogi­sti, operatori sociali che con i loro interventi han­no anche indicato un metodo di lavoro interdi­sciplinare ed interprofessionale di particolare interesse.

I due temi, partecipazione e informazione, sono stati analizzati dai partecipanti ad un seminario a livello teorico come componenti essenziali di comunità democratiche, con riferimento alle cir­coscrizioni comunali riferite alla legge 278/76, come obiettivo primario nella prassi delle forze sociali, come applicazione nella nuova legisla­zione scolastica.

L'accento è stato posto soprattutto sul fatto che partecipazione e informazioni sono strumen­ti per lo sviluppo del territorio, quindi strumenti propri di una politica dei servizi sociali nel mo­mento in cui si calano sul territorio. L'obiettivo pertanto diventa la promozione della partecipa­zione dei cittadini alla programmazione e al con­trollo dei servizi.

Il decentramento dei servizi sociali - come è stato ribadito dai partecipanti al seminario - e le molte esperienze di partecipazione, anche solo formale, hanno evidenziato la necessità, per una partecipazione reale, di avere a disposizione una informazione precisa che contribuisca alla pro­grammazione dei servizi ed una possibilità reale di controllo sulla gestione degli stessi. La parte­cipazione, secondo la legge 278/76, diviene so­prattutto partecipazione «amministrativa», cioè collaborazione al potere decisionale degli orga­nismi politico-amministrativi della politica dei servizi sul territorio; e diviene anche partecipa­zione utenziale nel senso che i cittadini ne sono coinvolti come potenziali utenti dei servizi ter­ritoriali. Gli operatori dei servizi possono offrire una informazione di tipo tecnico-professionale che deriva loro dalla posizione istituzionale all'interno dell'Ente locale, come l'aggiornamento sulle leggi, sulla prassi amministrativa, sulle li­nee di politica sociale dell'ente locale, sul bi­lancio.

Il servizio sociale, all'interno del canale am­ministrativo, dovrebbe completare le informazio­ni che gli vengano passate in termini politici da gruppi o partiti, verificando le possibilità che han­no le decisioni di essere praticabili ed attuabili.

La stessa azione informativa si esplica nel mo­mento gestionale di determinati servizi (fornire dati sul numero e la tipologia dell'utenza, sulle loro esigenze, aspettative, sui gruppi di volonta­riato da coinvolgere, sulle risorse disponibili).

Da qui la necessità della partecipazione ai ser­vizi per dare voce ai circuiti naturali dell'informa­zione sociale, perché le informazioni dalla base possano giungere ai centri decisionali e vice­versa.

La circolazione delle informazioni - conclu­dono i vari autori di questa documentazione - è tanto più efficace quanto più diventa autonoma, cioè parta da interessi concreti e diretti di grup­pi organizzati, forze organizzate, singoli cittadini ed abbia presente una strategia di interventi suc­cessivi. L'invenzione degli strumenti per far cir­colare informazioni, e quindi avere più parteci­pazione, deve nascere dall'esperienza; la loro utilizzazione deve sempre essere in rapporto alla realtà in cui ci si colloca ed agli obiettivi che si vogliono raggiungere. Gli strumenti tecnici in­vece devono servire solo per far giungere in modo sintetico e capillare le informazioni che nascono dall'alto in modo da favorire più la par­tecipazione che il consenso.

JOLE MEO

 

 

M. DAVID e G. APPEL, 0-3 anni, Un'educazione in­solita, Edizioni Emme, Milano, 1978, pagg. 165, L. 3.800.

 

È inutile e mistificante affrontare il problema della fame e del sottosviluppo dei bambini nel mondo, se poi non ci preoccupiamo di analizzare i loro bisogni per aiutarli a vivere in modo sod­disfacente qui e ora. L'infanzia non è infatti qual­cosa che sta a sé, ma un momento dell'uomo totale cui si deve assicurare dignità, sicurezza e umanità.

Crediamo perciò sia più rigoroso ed utile af­frontare il problema del bambino, ridiscutendo ciò che in questi ultimi anni si è fatto nel nostro paese (quasi nulla) e in altri paesi (poco), riser­vando una attenzione particolare all'educazione dei primi anni di vita considerati momento fon­damentale per la formazione della persona adulta.

Presentando questo libro che, come succede spesso in Italia, esce sulla scena editoriale cin­que anni dopo la sua stesura, riteniamo utile proporre alla discussione un modello di educa­zione dei bambini senza famiglia. Per essi già sappiamo che la prima soluzione è l'adozione, ma molti sono ancora i bambini che, separati per varie ragioni dalla famiglia, non sono adottabili. Per essi molte volte l'elemento emotivo fa pren­dere decisioni sbagliate, sia che si mantenga a qualsiasi costo un bambino vicino ad una madre, che finirà di separarsene lo stesso, sia che si cerchi un affidamento, in modo semplicistico, in condizioni mediocri da tutti i punti di vista, con difficoltà di reinserimento in famiglia, ripetersi di affidamenti e aggravarsi di turbe nel bambino.

Giova quindi ridiscutere e riproporre nuovi modelli: è quello che fanno le due Autrici, una pedagogista psichiatra e una psicologa, due fran­cesi specialiste di problemi della prima infanzia, presentando in questo libro un modello di istitu­to dai 0-3 anni, da loro visitato a Budapest.

È un modello «non per adottarlo né per rifiu­tarlo in blocco», ma per controllarlo con coloro che in altri paesi hanno esperienze in corso sui problemi della prima infanzia.

L'istituto di Lóczy accoglie (nel 1971 anno cui si riferisce l'indagine) 51 bambini dai primi giorni di vita ai 3-4 anni, a cui i genitori per morte, ma­lattia, difficoltà di vita non possono assicurare la cura. Essi vi vivono di giorno e di notte sino a quando la famiglia può riprenderli o possono es­sere adottati. Solo per due di essi (sempre per l'anno cui si riferisce la ricerca) non era stato possibile trovare soluzione ed erano passati ad un istituto per bambini più grandi.

Sessanta persone lavorano a Lóczy: 23 edu­catrici, 23 persone addette all'economato (se­gretarie, cuciniere, giardinieri, autisti), 5 medici, 6 psicologi, 2 infermiere, una maestra d'asilo. Lavorano a tempo pieno, ma molte di loro, oltre che con i bambini sono occupate in lavori scien­tifici e con responsabilità di formazione e di ispe­zione di altre case d'infanzia. Così che l'istituto diventa non solo un luogo di terapia o custodia, ma un centro di ricerca dove convalidare le ipo­tesi di lavoro ed arrivare ad individuare gli errori di indirizzo sul problema dell'educazione all'in­fanzia.

Ma quello che alle Autrici e anche a noi preme sottolineare è che la preoccupazione per la salute dei bambini non ha minimamente condotto que­sta organizzazione (che è diretta da medici) ver­so un sistema di tipo ospedaliero. Infatti pur prendendo precauzioni contro le infezioni e le epidemie, non si arriva mai a pratiche tali da minacciare la sicurezza affettiva dei bambini che devono sentirsi come a casa loro. Per questo, tutto il personale ha accettato una routine quo­tidiana che viene modificata dai bisogni del bam­bino e concepita in funzione di essi e non dell'istituzione.

Certamente è un modello relazionale diverso da quella interazione che si osserva tra madre e figlio, diversa è infatti la situazione tra educa­trice e bambino, ma che, appunto per questo, necessita di una organizzazione complessa e ar­ticolata che richiede sorveglianza e controllo co­stante. Così questa organizzazione nasce e si esplica in base ad una profonda tenerezza da parte di coloro che l'hanno ideata, trasmettendosi a tutto il personale.

È un desiderio divenuto collettivo che «questi bambini siano sani, belli e forti», uno sforzo ot­tenuto da parte delle educatrici e di tutti in un continuo mantenersi a disposizione, e attraverso una costante comunicazione verbale, così da con­sentire al bambino di padroneggiare la realtà, e di esprimersi in attività autonome.

Quali le riserve e quali i rischi? La stesse Au­trici ce lo indicano. Malgrado gli sforzi che ven­gono fatti allo scopo di limitare l'alienazione del­la vita in istituto permangono certi aspetti che sembrano impossibili da eliminare, manca loro la complessa relazione affettiva della coppia e le loro possibilità di identificarsi con l'adulto riman­gono poche.

Ciò nonostante data l'ampiezza del problema posto dall'educazione dei bambini senza famiglia, bisogna insistere sulla necessità di cercare tutti i sistemi che possono aiutare ad abbreviare i periodi d'attesa vissuti da questi bambini.

Riflettiamo quindi su questa ricerca per con­cludere che: «tutta una serie di sistemi di assi­stenza in ogni quartiere urbano e in ogni zona rurale, dovrebbe potere evitare l'attuale flagello che sono le permanenze nei "depositi", i grandi nidi per l'infanzia, gli spostamenti di un bambino in vari luoghi, il suo trasferimento in regioni lon­tane».

GIULIANA LATTES

 

 

F. DE FIORE, Meglio un malato in meno che cento letti in più (Otto anni di lotta per la salute in Italia), Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1977, pagg. 137, L. 3.000.

 

L'Autore ha voluto, con il titolo di questo libro, richiamare l'attenzione sugli ospedali che dovreb­bero essere centri per la salute invece che «in­dustrie della medicina».

Il libro è un diario di un non medico che si è trovato a vivere tra i medici ed i problemi della salute, ed ha voluto affidare le sue riflessioni e le sue speranze ai lettori, perché tutti si sentano coinvolti in questa grossa questione e affinché la propria e l'altrui salute diventino problemi propri e di tutti per una soluzione adeguata.

Vengono evidenziati tutti i nodi della questione all'interno della riforma sanitaria: ospedali, uni­versità, istituzioni psichiatriche, formazione dei medici e degli infermieri, stampa medica, uso dei farmaci.

Gli obiettivi sono la riaffermazione del diritto del singolo e della collettività alla salute, il do­vere da parte degli addetti alla tutela di tale di­ritto di coinvolgere il cittadino nelle lotte per una coscienza ed una educazione sanitaria, la prevenzione e non solo la cura della malattia pri­vilegiando la dimensione umana e sociale e met­tendo al giusto posto il momento tecnico.

L'approvazione della riforma sanitaria è stato un grosso passo avanti anche per le norme inno­vative riguardanti la partecipazione e la respon­sabilizzazione del cittadino alla gestione della salute.

Certo ora resta il problema di calare nella prassi quotidiana la gestione e la conduzione del­la riforma.

Non altrettanto è successo per la riforma uni­versitaria: la formazione dei medici continua ad essere effettuata privilegiando gli aspetti tera­peutici e mercantili invece di puntare su un me­dico e una medicina maggiormente inseriti nella società in modo impegnato e creativo. La legge 132/68 sull'assistenza ospedaliera è stata attuata secondo una logica efficientistica ed è aumentato il divario Nord-Sud.

Problematico anche il bilancio sulla psichiatria nonostante che la legge 180 abbia sancito defini­tivamente la chiusura dei manicomi, la creazione dei reparti nei comuni ospedali e la priorità degli interventi sul territorio: resta tuttavia l'interro­gativo che poneva Jervis «può uno psichiatra operare nella società senza integrare il malato? Può essere qualcosa di più e di meglio di un buon rieducatore?».

Tuttavia, conclude F. De Fiore, si sta andando avanti: bisognerà perciò individuare i ritardi, i compromessi, le omissioni per iniziare a dare una corretta attuazione operativa alla riforma sani­taria.

Questi problemi vanno individuati non solo dai «tecnici della salute», ma dai cittadini tutti che dovranno battersi per favorire una maggiore co­municazione con i tecnici ed i politici, e per un impegno sempre più concreto sulla salute indi­viduale e collettiva.

JOLE MEO

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