Prospettive assistenziali, n. 47, luglio - settembre 1979

 

 

DOPO IL 616 E L'833: UNA PROPOSTA PER L'INTEGRAZIONE TRA "SOCIALE" E "SANITARIO"

CARLO TREVISAN

 

 

Di integrazione tra servizi sanitari e servizi so­ciali (assistenziali, educativi, ricreativi, ecc.) si è fatto un gran parlare nell'ambito delle elabora­zioni culturali e politiche a partire da metà degli anni sessanta (specie in sede di programmazione nazionale) e nelle sedi di valutazione critica del sistema esistente (a partire dal '68 nei gruppi del­la «contestazione» ed in alcuni servizi televisivi e giornalistici relativi soprattutto alla condizione della terza età e della malattia mentale).

Ma soprattutto l'impegno per una ricerca di contenuti e di modalità per una concreta integra­zione delle diverse prestazioni professionali nel quadro di progetti-obiettivo riferiti alla condizio­ne esistenziale (l'area dei problemi della fami­glia, della maternità ed infanzia - la lotta all'emar­ginazione ed all'istituzionalizzazione degli anziani poveri, degli handicappati, dei tossicodipendenti, dei malati mentali, dei «diversi» in genere - la politica per la salute ambientale, riferita ai luo­ghi di lavoro, agli abitati ed all'ecologia in genere) lo si è avuto in alcune Regioni dal 1972 quando hanno cominciato a gestire i pochi poteri, allora trasmessi in campo di sicurezza sociale, nella lo­gica della prevenzione, della riabilitazione (e re­cupero sociale), dell'organizzazione decentrata dei servizi sul territorio.

Proprio una nuova organizzazione dei servizi sul territorio - che portasse al riequilibrio nella localizzazione dei presidi di tutela della salute, al superamento della concentrazione degli operatori e dei servizi nelle aree urbane a detrimento di quelle vieppiù emarginate, al rifiuto del burocra­ticismo nelle prestazioni ed al corporativismo pro­fessionale ed al loro superamento nella gestione sociale partecipata e nella preferenza per i ser­vizi itineranti specie nelle zone ad insediamenti sparsi, alla destrutturazione dei servizi stessi sia dal punto di vista della prevaricazione degli aspetti edilizi e burocratici (uffici di enti), sia dal punto di vista del ribaltamento della vecchia pras­si ridando priorità ai bisogni, ai rischi ed alle con­seguenti prestazioni spesso interprofessionali ed interdisciplinari - proprio questo modo nuovo di concepire l'intervento sanitario, assistenziale, formativo, cioè sociale sul territorio (delle spe­rimentali Unità locali appunto socio-sanitarie o dei servizi, e soprattutto dei loro distretti di base) ha verificato la possibilità e la necessità di una integrazione.

Infatti la settorialità - per quanto qui più di­rettamente ci interessa, tra «sanitario» e «so­ciale» o «socio-assistenziale» - era di esclu­siva derivazione non da esigenze del cittadino (persona, famiglia, gruppi sociali), bensì da esi­genze istituzionali dei molteplici enti preposti ai settori ed in particolare dall'attribuzione a Mini­steri diversi del patrocinio vuoi per la politica sa­nitaria, vuoi per quella socio-assistenziale o sco­lastica o socio-culturale o socio-giudiziaria. Su questa teoria della netta demarcazione dei campi di competenza (anche se la prassi poi, come av­viene nella logica «nazionalista», portava spesso a tentativi di sconfinamento ed allo sforzo di oc­cupare le aree imprecisate o miste: per tutte si veda la medicina scolastica e l'intervento medico-­psico-pedagogico) si sono abbarbicate le esigen­ze corporative e di quieto vivere delle professio­ni, specie di quelle non subalterne. Il richiamo alle specifiche metodologie professionali, al se­greto professionale ed alla riservatezza di un esclusivo rapporto individuale, e comunque il pre­valere delle esigenze anche esistenziali dell'ope­ratore (in fatto, ad esempio, di orari, di sovrappo­sizione di molteplici incarichi di lavoro) hanno chiuso in genere l'intervento nella logica di «una professione - un servizio», con il conseguente proliferare negli anni sessanta di nuovi servizi specialistici (ovviamente collocati esclusivamen­te nei centri urbani).

Ignorante in un arcipelago sempre più comples­so di enti, servizi ed operatori, di competenze e di prassi, divenuto un «pacco» da spostare e da collocare in qualche modo (entro la logica di una «pratica» burocratica e nell'obiettivo di un sus­sidio o meglio di un ricovero), il povero cittadino - anche se, cosiddetto, colto - era ed è spae­sato, angosciato di orientarsi e di non sbagliare (a scrivere una domanda, a presentare dei docu­menti, a bussare ad un ufficio, a sollecitare una pratica, a trovare una raccomandazione ed una protezione): colpito da questa ulteriore angoscia e da questi nuovi, artificiali bisogni organizzativi nel momento in cui è costretto a cercare dei ser­vizi che diano risposta ai suoi bisogni esisten­ziali, reali. La concentrazione delle sedi dei ser­vizi, degli uffici e degli enti nei centri urbani ed ancor più nelle grandi città accentua e spesso rende drammatico l'ulteriore bisogno organizza­tivo del cittadino, o peggio del nucleo familiare, costringendolo a viaggi, a code e ritorni, a ricoveri impropri e prolungati, a cambio talora di re­sidenza.

Nella stessa persona, ed ancor più nello stesso nucleo familiare, oltretutto i bisogni (di minimo vitale, di tutela della salute, di aiuto sociale, di formazione, di socializzazione) sono tra loro stret­tamente correlati ed aggrovigliati nelle loro manifestazioni di «domanda». Il vivisezionarli a fini non di studio, bensì di operatività è illogico, spes­so impossibile, sempre dannoso. Basti ricordare, e per grandi e noti fenomeni, i traumi psichici da ospedalizzazione infantile ed i ritardi psico-fisico-culturali da brefotrofio, l'alto indice di mor­talità degli anziani nei primi mesi di ricovero in casa di riposo, i risvolti della povertà e della di­soccupazione nella malattia mentale.

 

Integrazione fra DPR 616 e legge 833

Si dirà, magari con sufficienza, che tutto ciò è fin troppo noto e ripetuto. Ben più seriamente gli amministratori locali e gli operatori dei servizi socio-sanitari sul territorio, che hanno tentato in questi anni la via dell'integrazione, ci sapranno dire le molte difficoltà, gli equivoci, i risultati ot­tenuti o intravvisti, i problemi aperti. È sul loro apporto, sulla verifica ed il confronto delle spe­rimentazioni, sui modelli di intervento che se ne ricavano che si può cominciare a costruire la «cultura» e la «prassi» nuove dell'integrazione tra «sanitario» e «sociale».

Le riforme approvate dal Parlamento (il DPR 616 e la legge 833) sono ormai presenti per dirci che la fase dei profeti, dei pionieri, degli esperimenti è ormai chiusa.

Intendiamoci però su questo passato prossimo che ci lasciamo alle spalle (così entusiasmante e sofferto per chi vi è stato coinvolto): esso è superato nel senso di «anticipazione delle rifor­me», di forzatura delle disposizioni di legge, di prova laddove ci fosse volontà politica e condi­zioni per cimentarsi nel nuovo. Ma sappiamo bene che non bastano le leggi nuove per fare una nuova cultura e (con buona pace di coloro che distin­guono, se non contrappongono, «teoria» e «pras­si») per reggere nell'operatività quotidiana e dif­fusa le nuove metodologie organizzative e pro­fessionali. Il pericolo di innovazioni puramente di facciata, nominalistiche, gattopardesche (da cui ne trarrebbe vantaggio solo l'industria del marmo e gli scalpellini) non è scontato, il rigurgito re­stauratore è sempre da temere sull'onda delle inadempienze locali e delle difficoltà obiettive nella fase di passaggio («si stava meglio quando si stava peggio»), il confronto rispettoso e preoc­cupato con «il tempo» non è nelle nostre tradi­zioni patrie (con riforme arrivate al traguardo le­gislativo dopo decenni e con le maggiori forze politiche che se ne professano da sempre fautrici accese) e le riforme impongono tutta una serie di scadenze concatenate: e niente di peggio per affossare nel nascere le riforme sarebbe di im­pantanarle nello slittamento dei tempi d'attuazio­ne (perché ora è il cittadino a pagarne le conse­guenze vistosamente).

Per fortuna il legislatore nazionale è stato coe­rente sulla linea dell'integrazione nelle disposi­zioni di legge sia del 616 sia della 833. Ma ha creato le condizioni perché il legislatore regio­nale la persegua chiaramente e decisamente, non l'ha però imposta compiutamente (trattandosi di riforme per settori e non di riforma delle auto­nomie locali). Sarà essenziale perciò il dibattito, il pungolo, la verifica di quanto farà il legislatore regionale in questo 1979 (ed in tutte le Regioni, aprendo la 833 lo spazio alla eventuale volontà politica anche nelle Regioni a statuto speciale, che potevano sentirsi non coinvolte dal 616).

 

Un unico territorio

Il primo traguardo (primo, perché preliminare, come il dibattito e la sperimentazione di questi anni hanno dimostrato) è la zonizzazione onni­comprensiva. E, senza addentrarci nello spinoso problema dei comprensori o dell'unico livello in­termedio tra Regione e Comune (sul quale som­messamente facciamo notare l'estremo divario di situazioni oggettive e quindi di esigenze tra le varie Regioni, ed il conseguente pericolo di una soluzione «nazionale» di un problema pretta­mente «regionale», se le Regioni hanno un sen­so), attestiamoci per lo meno nella considerazio­ne delle prestazioni e dei servizi rivolti alla tu­tela della salute (salvo servizi «rari», altamente specializzati), alla istruzione e formazione (salvo quella universitaria), all'aiuto sociale ed alla so­cializzazione. Al di là di rigide demarcazioni uni­versali tra quello che è «di livello locale» ovvero sovrazonale, si tratta di riportare ad un unico «contenitore» territoriale ed istituzionale - ap­punto l'Unità locale senza aggettivi - il massimo di potere nel far politica sociale: unitaria, glo­bale, programmata, partecipata.

In alcune poche Regioni questo obiettivo è già stato raggiunto nella fase pre-riforme. In altre, che pure hanno realizzate le Unità locali socio­sanitarie, è da completare per riferimento ad al­tre zonizzazioni (Distretti scolastici, talora Comu­nità montane, altri servizi ed ove possibile i ba­cini di traffico). Nella circa metà delle Regioni italiane dove questo sforzo legislativo di territo­rializzazione non è stato fatto, c'è l'urgenza di attuarlo.

È un traguardo non facile per chi parta tardi. È un traguardo da «riabilitare» anche per le Re­gioni che lo abbiano formalizzato. Infatti la tanto conclamata «partecipazione» può essere verifi­cata anche su quest'operazione che quasi sem­pre è stata di vertice, e che ha coinvolto i Con­sigli comunali e tutt'al più i direttivi delle or­ganizzazioni sindacali e dell'associazionismo. Il «darsi un territorio» per la politica dei servizi è un tema che comunque dovrebbe interessare tut­ta la popolazione non solo sul piano politico e culturale (etnìe, campanilismo, collegamenti), ma anche nella organizzazione della propria vita. Al di là delle raffinatezze tecnologiche (che interes­sano solo le industrie multinazionali dell'informa­tica) il «sistema informativo locale» lo si co­struisce partendo anche e soprattutto da questa esigenza di avviare le riforme assieme (per e con) la popolazione in quanto tale (e non solo mediata dalle sue organizzazioni).

 

Un unico «governo» locale

Il secondo traguardo è - conseguentemente, e secondo l'ottica «un territorio - un governo» - di promuovere, e sempre con legge regionale (così che siano tutte costituite entro il 31 di­cembre 1979), le Unità locali senza nessun agget­tivo, o se volete di tutti i servizi, con organi poli­tici unici. Nonostante questo sia sempre stato un punto controverso, e sino all'ultimo, è chiara la netta scelta del legislatore per non creare nessun ente ad hoc, con relativi organi settoriali, bensì di far riappropriare alle autonomie locali (Comu­ni, loro Circoscrizioni o associazioni, Comunità montane, a seconda delle coincidenze territoriali) i poteri in fatto di politica ed organizzazione dei servizi sociali (intesi nell'ampia accezione che qui si è data).

È evidente all'opposto che una zonizzazione coincidente, ma con organi politici (e, come poi si dirà, tecnici e partecipativi) diversificati: 1) non crea le vere premesse per una politica «integra­ta»; 2) svuota ulteriormente di potere le auto­nomie locali, piuttosto che rafforzarle, in quanto le divarica in direzioni politiche settoriali ed im­pedisce di realizzare una sede politica unitaria che sia in grado di indirizzare e coordinare i vari interventi sul territorio e di essere unico refe­rente per i cittadini e le forze sociali.

La chiara verifica che questo è l'indirizzo pre­scelto dal legislatore nazionale (ponendosi per­ciò in un'ottica di anticipazione e di sperimenta­zione della riforma delle autonomie locali) la si ha con il riferimento al Comune e alla Comunità montana, quando il loro territorio sia adeguato (L. 833/78, art. 15, 3° comma, a/c). Purtroppo le situazioni in cui questa norma potrà essere con­cretizzata saranno poche nell'un caso e nell'altro (anche per miopia politica allorché vennero zo­nizzate le Comunità montane). Ma il «messag­gio» è pur sempre significativo: la Comunità montana infatti, in base alla L. 1102/71, è ente locale di programmazione e di gestione dello svi­luppo (economico, urbanistico, dei servizi). Con il 616 ed ora con la 833 non si crea nessun dop­pione e nessun pericolo di intervento «binario», ma si fanno confluire in questo «contenitore» territoriale, istituzionale, organizzativo ulteriori e precisate funzioni in fatto di servizi socio-assi­stenziali e socio-sanitari.

 

Un'unica politica programmatoria

Il terzo traguardo è connesso alle scelte che ogni Regione farà dettando norme (come vuole l'art. 15) per l'organizzazione, la gestione ed il funzionamento delle unità (sanitarie) locali. Se l'aggettivo riaffiora qui pesantemente, significa che i primi due traguardi erano di facciata. Se le giustificazioni, facili a prevedersi, sulla qualifica­zione professionale della direzione, sulle respon­sabilità giuridiche sanitarie, sui bilanci e gli or­ganici separati porteranno di fatto a settorializ­zare nell'impianto organizzativo la direzione, l'am­ministrazione, la gestione del settore sanitario, significa che si è fatta l'Unità locale non senza aggettivi, ma con un pesante aggettivo di setto­rialismo e di sanitarizzazione.

Invece la L. 833 non solo permette, ma indirizza verso la globalità. Il fatto è che la responsabilità di concretizzare l'indirizzo unitario è affidata di fatto e solo alle Regioni (alla loro legislazione, alla loro programmazione, alla loro amministra­zione). Il Parlamento ha lasciato la porta socchiu­sa, in un certo senso se ne è lavato le mani (d'al­tronde la legge-quadro, non dimentichiamolo, era settoriale per contenuto).

Come dicevamo, la L. 833 conclude l'importante e combattuto art. 15 (Struttura e funzionamento delle unità sanitarie locali) con un impegno rile­vante lasciato alle Regioni: «La legge regionale stabilisce altresì norme per la gestione coordi­nata ed integrata dei servizi dell'unità sanitaria locale con i servizi sociali esistenti nel territo­rio». È l'interpretazione che il legislatore regio­nale darà a questo comma che contribuirà o meno ad accelerare il processo verso la globalità.

Ci sembra che logica conseguenza (oltre a zo­nizzazione ed organi politici unici) sia quella di un ufficio di direzione unico: come dice la L. 833 «collegialmente preposto all'organizzazione, al coordinamento e al funzionamento di tutti i ser­vizi e alla direzione del personale». Se l'area dei servizi non è solo riferita a quelli sanitari è chiaro che la direzione collegiale deve essere preposta a tutta l'area. Se poi non si prende come riferi­mento il passato, invero poco positivo, del mo­dello di direzione ospedaliera (direttore sanita­rio - direttore amministrativo), bensì le funzioni che modernamente vanno esercitate per la poli­tica di fatto nuova che si vuol realizzare, ci si dovrà riferire nell'«ufficio di direzione» (non mi bloccherei sulla vecchia denominazione burocra­tica, pensando che si tratterà di persone che do­vranno stare non solo e non tanto «in ufficio» ma sul territorio, a contatto con gli amministra­tori, gli operatori, le forze sociali, i servizi) a fun­zioni di:

- pianificazione dei servizi (non solo come scritturazione di un documento di piano, ma co­me processo costantemente presente per le scel­te di fondo, per la gestione, per la verifica della politica dei servizi, in raccordo anche con la pia­nificazione regionale e, ove esista, con quella comprensoriale);

- sistema informativo locale (raccolta ed ela­borazione costante di dati essenziali sulla situa­zione sociale e sui servizi, indagine sullo stato e sull'evoluzione delle esigenze e dei rischi, veri­fica delle conoscenze non solo con gli operatori dei servizi, ma con le forze sociali; in raccordo con l'osservatorio epidemiologico ed altre sedi regionali di ricerca);

- formazione permanente degli operatori che agiscono nella zona e nei vari servizi (raccoglien­done e valutandone le esigenze, offrendo occa­sioni sistematiche di dibattito, di confronto, di aggiornamento, di ulteriore qualificazione profes­sionale; in raccordo anche con le sedi regionali ed universitarie di formazione);

- coordinamento e propulsione delle inizia­tive e dei servizi (per progetti-obiettivo, come as­sistenza tecnica ai Distretti di base ed ai singoli servizi, per iniziative generalizzate di educazio­ne sociale e sanitaria anche attraverso i mass­media).

Mi sembra che così inquadrato, il problema del­la scelta delle persone, delle competenze concre­tamente disponibili, dell'organizzazione (anche ri­spettando le esigenze poste dalla legge di riforma sanitaria, ma in un quadro più ampio ed almeno socio-sanitario) sia un'occasione ulteriore per su­perare il diaframma «sociale» - «sanitario» sen­za scadere nel generico o senza accontentarsi di giustapporre due direzioni (una sanitaria ed una sociale). Non si tratta cioè di creare un nuovo (o vecchio) ufficio, spesso sganciato dall'operatività, quanto un «gruppo di persone» che costituisca­no uno strumento utile per:

- i politici (il rapporto con il «comitato di ge­stione» non risulta ben chiaro, se non equivoco nella L. 833, art. 15);

- le forze sociali (è da concretizzare tutto il grosso impegno di partecipazione previsto anche dalla L. 833, art. 13);

- gli operatori (e qui congiuntamente vanno richiamati gli artt. 13 e 15 della L. 833, così da non ricreare un tradizionale rapporto burocratico di gerarchie, bensì un tentativo nuovo di essere reciprocamente e assieme «a servizio» della co­munità locale).

 

Un'integrazione soprattutto «dal basso»

Ma un ulteriore impegno e traguardo va perse­guito, anche perché questo non compete più spe­cificamente al legislatore regionale, ma agli am­ministratori, agli operatori, alle forze sociali di base. Mi riferisco alla creazione, alla sperimen­tazione del «distretto di base» visto non come livello politico, ma come strumento per offrire effettivamente alla gente prestazioni di tutela della salute, di aiuto sociale, di promozione cul­turale, che siano rispondenti alle esigenze reali, alle priorità assieme valutate, alle risorse local­mente disponibili. Vale a dire la nascita di un livello organizzato, ma elastico di azione di base, dove si concretizzi la nuova metodologia di la­voro fondata sulla compresenza di informazione - partecipazione - programmazione.

La strada più facile nel realizzare i distretti di base ed i relativi Centri di servizi sarà quella di «sommare» gli attuali servizi mutualistici (il po­liambulatorio), comunali (l'ambulatorio del medi­co condotto), assistenziali (se c'era qualcosa) e di definirli servizi del distretto!

La strada più difficile, coerente con l'«integra­zione» che qui ci interessa e rispondente all'esi­genza di ribaltare dal basso la logica attuale assi­stenziale, mutualistica, ospedaliera è invece di:

- avere ben presente un dato territorio (il di­stretto di base appunto, con i suoi insediamenti, le sue esigenze ed i «rischi» prevalenti in zona, le preesistenze operative) che porti ad una valu­tazione critica e propositiva, coinvolgendo tutti gli operatori e le forze sociali colà presenti;

- avere un punto di riferimento logistico, ne­cessario per gli operatori e per la popolazione (dall'ideale «Centro di servizi polivalente» alle due-tre stanzette di un «recapito sociale»);

- avviare un «comitato di partecipazione» aperto a tutte le persone effettivamente disponi­bili e attive in zona (superando i comitati di ge­stione o di partecipazione per settori e per ser­vizi);

- costruire un primo piano provvisorio di la­voro, da verificare anche con l'Unità locale, coinvolgendo tutte le risorse disponibili (professio­nali, politiche, volontarie) e crescendo assieme nella ricerca operativa, nello scambio di informa­zione, nella valutazione della situazione e dei ser­vizi già operanti, nella effettuazione di «progetti-­obiettivo» su aspetti e finalità ben determinate, concrete, prioritarie nella zona.

Così si comincerà a costruire il metodo nuovo di lavorare assieme degli operatori sul territorio con il passaggio progressivo dall'isolamento di ogni operatore nel suo servizio alle imprese co­muni, «integrate», interprofessionali, per obiet­tivi comuni (cioè della gente, non dei professio­nisti).

È tutto da costruire, certo, ma esperienze pilota ci sono: vanno socializzate, vanno discusse, van­no verificate in ogni realtà. Il distretto di base non si costruisce con circolari regionali, né con modelli prefabbricati validi ovunque (tanto vale tenerci il modello, allora, del poliambulatorio), ma con lo sforzo di gruppo, con l'aderenza allo «specifico» ambientale, con la creatività.

Oltretutto questa impresa di lavoro in comune fra tutti i disponibili sarà indispensabile nelle Unità locali in difficoltà, emarginate sinora (penso alle Comunità montane), nei distretti di base dove il preesistente in fatto di servizi è quasi zero e dove con la soppressione degli enti inutili nono­stante tutto non ci andrà nessuno o quasi. È que­sta la realtà disponibile per scoprire un modo nuovo, povero, partecipato, destrutturato, senza corporazioni, ma vero per fare politica sociale «integrata».

 

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