Prospettive assistenziali, n. 47, luglio
- settembre 1979
UNA DISCUTIBILE
PROPOSTA DEL SEGRETARIO GENERALE DELLA UIL
In occasione del convegno «Droga,
quale direzione?», organizzato da Radio Blu e dal Centro di controinformazione
sui problemi della droga (Roma, 15 giugno 1979), il Segretario generale della UIL, Giorgio Benvenuto ha riconosciuto che sul
problema della droga «la conoscenza del
sindacato è una lavagna nera e altrettanto nullo è il nostro impegno politico».
Ha aggiunto che «troppo facile,
comodo e rassicurante è lo schema di una classe operaia sia pure sfruttata,
certo, ma matura, evoluta, che lotta, con le sue organizzazioni di classe, per
affermare i valori di cui essa è portatrice», e che essa sia
«separata da un muro quasi invalicabile,
la terra di nessuno degli emarginati, dei sottoproletari, dei “lumpen”, dove non ci sono valori positivi (...); dove non
torna conto, e anzi può essere fuorviante, che mettano piede le organizzazioni
di classe».
Ha poi affermato che «i confini fisici, morali, sociali e
politici fra proletariato e sottoproletariato, come pure fra proletariato e
piccola borghesia, diventano sempre più labili e sempre meno discriminanti».
Precisato che il bilancio del
tentativo di «uscire dalla fabbrica»
fatto dal sindacato nel 1968-69 è «sostanzialmente negativo, e profondamente autocritico», Benvenuto
ha proposto che il sindacato recuperi «attraverso
il contatto diretto con l'individuo e con i suoi problemi, una capacità più
matura di affrontare e risolvere i problemi della società nel suo insieme.
Questo può significare, anche che il sindacato dovrà riflettere sulla
necessità di cominciare a darsi una organizzazione
non legata solo alle categorie produttive o alle
strutture territoriali ma articolata secondo quelli che possiamo chiamare i
"grandi bisogni" che emergono a livello di società: la salute, la
casa, la giustizia, la scuola, i consumi, la condizione giovanile».
In merito al problema della droga
Benvenuto ha avanzato due proposte concrete:
1) «aprire prima di tutto un rapporto costruttivo con tutti coloro che sono in rapporto diretto, per motivi
professionali, politici o umani, con il mondo della droga»;
2) «lavorare attorno a un progetto di intervento
concreto del sindacato articolato ai vari livelli della prevenzione, della
disintossicazione, dell'intervento per la formazione professionale e l'inserimento
nella vita lavorativa».
A tal fine dovrebbe essere
costituito «Un Centro di
iniziativa sociale sulla droga - C.I.S.D. -
diretto da un Comitato dei promotori e da un Comitato scientifico, sostenuto
dall'impegno diretto dei lavoratori e da tutte le organizzazioni, enti,
istituzioni, che si dichiarino disponibili».
Affermata la necessità di collocare
l'iniziativa «nel
quadro di un impegno politico più generale del sindacato e delle forze
sociali per la lotta alla disoccupazione e all'emarginazione», Benvenuto ha
precisato che «il progetto C.I.S.D. prevede la costituzione di apposite strutture - in
particolare cooperative e comunità agricole, cooperative culturali e di
servizi, centri artigianali e commerciali autogestiti».
Sono inoltre previsti interventi farmacologici e psicoterapeutici. Il C.I.S.D.
non dovrebbe essere un doppione delle iniziative pubbliche e private, ma
operare solo dove esistano dei vuoti e soprattutto «servire da collante, da collegamento tra il
mondo del lavoro e la sua lotta sull'emarginazione da una parte, e le
organizzazioni, gli enti, le istituzioni volontarie che operano nel settore antidroga
dall'altra».
Fin qui, in sintesi, le affermazioni
e le proposte del Segretario generale della UIL (1).
Diciamo subito che siamo molto
preoccupati per la prevista costituzione di un ennesimo ente privato preposto
alla gestione di interventi settoriali.
Ci lascia inoltre perplessi
l'analisi compiuta da Benvenuto.
La proposta di creare un altro ente
privato per l'assistenza dei tossicodipendenti può essere una risposta emotiva
alle tragiche situazioni di tanti giovani che vengono emergendo dalla cronaca
giornaliera, ma non vorremmo che nascondesse, magari
inconsciamente, l'impotenza di affrontare i grossi problemi politici, sociali
ed economici che determinano o favoriscono l'emarginazione.
Proposte di intervento
non devono consistere certamente nella creazione di strutture private analoghe
a quelle esistenti, diverse solo nell'impostazione ideologica e cioè di
matrice laica anziché cattolica.
Di fronte alle centinaia di migliaia
di persone (anziani, minori, handicappati, ecc.) escluse e spesso
segregate in istituto non servono i palliativi; occorre un'azione per quanto
possibile di tutti che affronti contemporaneamente i problemi della lotta
contro l'esclusione e la segregazione e quelli degli interventi immediati nei
confronti dei cittadini attualmente assistiti o che lo saranno in futuro.
Inoltre va detto chiaramente che la droga è solo uno degli aspetti dell'esclusione e nemmeno il
più angoscioso e neanche quello che colpisce più persone.
Chi sono
gli esclusi
Come è stato più volte oggetto di analisi
anche su questa rivista, la foltissima schiera degli esclusi è composta dai
disoccupati e sottoccupati con le relative famiglie, dagli anziani e con pensioni
da fame (2), dagli handicappati e dagli infortunati non riabilitati, dai
vecchi cronici privati delle cure sanitarie a cui pur hanno diritto per legge,
dai nuclei senza una abitazione decente, dalle persone espulse dalla scuola
ancora troppo selettiva e poco formativa o prive delle basi culturali
indispensabili per la conoscenza e l'analisi dei problemi di tutti i giorni o
escluse dall'uso dei servizi che pur sono chiamati sociali.
Numerose sono poi le persone che
diventano assistite a vita a causa di interventi da
anni riconosciuti sbagliati, ma che si continuano nonostante tutto a
praticare (v. ad esempio il ricovero in istituto di bambini, soprattutto se in
tenera età).
Ne deriva che l'obiettivo primario
da perseguire dovrebbe essere l'eliminazione delle
cause che provocano l'emarginazione in modo da ridurre al massimo le richieste
di assistenza, da evitare le attuali indicibili sofferenze umane e familiari e
da dare a tutti i cittadini indistintamente la sicurezza che si provvederà a
loro, nei casi di necessità, con interventi accettabili anche se non ottimali.
Questa sì che sarebbe una forma vera di sicurezza sociale!
Dunque si tratta di agire per la
piena occupazione, per una scuola dell'obbligo non selettiva, per una assistenza sanitaria che non escluda nessun ammalato,
per una politica della casa che tenga conto di tutte le necessità, di una reale
apertura a tutti dei servizi sociali.
Ruolo degli esclusi (3)
Ma chi dovrebbe agire per conseguire
l'obiettivo di un reale uso sociale delle risorse e cioè
per una società a misura delle esigenze delle persone e delle famiglie?
Non certo gli esclusi.
Molti di essi
sono nell'assoluta impossibilità personale di farlo: si tratta dei bambini,
degli handicappati psichici, degli anziani cronici, delle persone gravemente
disadattate. Altri ancora non possono né potranno mai
agire perché, avendo necessità di cibo, di un letto e di un tetto, non sono né
saranno mai in grado di assumere il problema in termini politici, schiacciati
come sono dall'angoscia di tutti i giorni di provvedere alla loro sopravvivenza
fisica. Inoltre queste persone sanno bene di poter essere sempre ricattate. Pensiamo,
tanto per far un esempio, agli anziani autosufficienti
ricoverati in istituto a causa delle pensioni da fame che, di fronte a giuste
lamentele, sono stati dimessi di forza o ricoverati in manicomio.
Pensiamo agli adolescenti
istituzionalizzati che, ribellatisi a insopportabili
ingiustizie, sono stati trasferiti in istituti più duri o deferiti all'autorità
giudiziaria.
Gli stessi ricatti sono temuti -
giustamente purtroppo - dalle persone che ricevono forme di assistenza
diverse dal ricovero in istituto: possono essere le persone parzialmente
autosufficienti assistite a domicilio, gli ospiti di comunità alloggio, coloro
che ricevono aiuti economici. È dunque impossibile pensare che gli assistiti,
esclusi alcuni gruppi come gli handicappati fisici, i disoccupati e
sottoccupati, abbiano o possano avere un giorno la capacità di lottare efficacemente
contro la loro esclusione e la forza sufficiente per battere i potenti gruppi
che vivono sulla pelle degli assistiti o che ne traggono, direttamente o
indirettamente, dei vantaggi.
Resta poi da vedere se i disoccupati,
i sottoccupati, gli handicappati fisici e gli altri gruppi
assimilabili, una volta ottenuto il lavoro e raggiunte soddisfacenti
condizioni di vita, continueranno a battersi contro l'esclusione e la
segregazione.
In sostanza lottare contro l'esclusione
e la segregazione significa lottare contro i gruppi di potere.
Necessità degli
interventi esterni
Se gli assistiti attuali non hanno né
la possibilità né la forza per cambiare le cose, allora occorre pensare ad
interventi esterni.
Al riguardo è ovvio che singole
persone, da sole, qualunque sia il loro impegno, non hanno la forza sufficiente
per determinare cambiamenti di rilievo: come abbiamo già detto le forze avversarie
sono troppo forti.
Dunque in via di principio possono
avere capacità d'intervento il sindacato e gli operatori del settore, le forze
politiche progressiste, le associazioni e gli altri
movimenti di base.
Il Sindacato
Siamo perfettamente d'accordo con
quanto afferma il Segretario generale della UIL circa
il ritardo del sindacato sui problemi dell'emarginazione, ritardo che
conosciamo direttamente in quanto da anni alcuni componenti della redazione di Prospettive assistenziali operano nelle
organizzazioni sindacali.
Anzi dobbiamo dire
che a volte abbiamo dovuto constatare l'assunzione da parte dei sindacati di
posizioni certamente lesive dei diritti degli esclusi. Dobbiamo aggiungere che
a partire dal 1975 questo ritardo si è accentuato e
sempre più forti sono le spinte corporative degli operatori assistenziali,
spinte che il sindacato non solo non riesce a contenere ma spesso favorisce.
A partire dal 1968-69 si era tentato - e si era
registrato qualche successo in questa direzione - di collegare i problemi dei
lavoratori dell'assistenza con quelli dell'utenza.
Ma il tentativo era fallito per vari
motivi: in primo luogo non vi è mai stato un coinvolgimento reale del
sindacato, essendo rimaste le iniziative limitate all'intervento di qualche
sindacalista sensibile ai problemi dell'esclusione sociale e della
segregazione.
In secondo luogo, salvo qualche
episodio sporadico, non c'è stata l'assunzione del problema da parte delle
categorie produttive (metalmeccanici, tessili, chimici, edili, ecc.) e cioè proprio di quelle categorie che sono o possono essere
gli utenti dell'assistenza o diretti partecipi in quanto parenti di assistiti.
A questo riguardo va osservato che
puntare esclusivamente o prevalentemente sugli operatori
dei servizi e sui sindacati di categoria che li rappresentano è insufficiente,
se non controproducente.
Infatti gli operatori dei servizi hanno un
potere reale sull'utenza.
Ad esempio è solo il privilegio dei
lavoratori degli istituti di ricovero che costringe gli utenti a svegliarsi
alle 5 del mattino, a far colazione alle 6, il pranzo alle 11, la cena alle 17,
proprio quando le condizioni fisiche e psichiche dei ricoverati
sono più precarie e perciò dovrebbero essere rispettati al massimo i
ritmi abitudinari di vita.
Come si sono
sempre comportati i gruppi che hanno potere, gli operatori sono «naturalmente»
portati ad esercitarlo rivendicando privilegi. Ciò anche per il semplice e
ovvio fatto che fornire interventi rispondenti realmente alle esigenze degli
utenti comporta impegni maggiori da parte dei
lavoratori dei servizi.
Non esistono solamente problemi di
un adeguato rapporto quantitativo fra utenti e
operatori (ad esempio numero dei ricoverati in relazione al personale in
servizio, carico di lavoro degli assistenti sociali, ecc.).
Un diverso contenuto dei servizi
esige anche una diversa e più coinvolgente modalità di lavoro degli operatori.
Mentre è possibile nel tradizionale
istituto di ricovero che gli educatori si interessino
solo della custodia dei ragazzi, nella comunità alloggio, pur svolgendo lo
stesso orario di lavoro, non è possibile applicare metodi standardizzati e ripetitivi,
non si possono ignorare la situazione familiare e ambientale dei ragazzi e
tutte le complesse problematiche dei ragazzi.
Nella comunità alloggio
il rapporto diventa personale con tutti e ciascuno degli ospiti.
Inoltre si presentano in modo del
tutto diverso i problemi della scuola, del tempo libero, della salute: non si tratta più dell'anonimo ricoverato in
istituto, ma di quel bambino, di quel ragazzo che è affidato alle cure di quell'operatore o di quel gruppo di operatori.
Inoltre le giuste rivendicazioni
contro l'autoritarismo gerarchico portano ad una
maggiore responsabilità degli operatori.
Ad esempio nell'istituto di assistenza, si possono addebitare tutte le
responsabilità al direttore e nello stesso tempo si può ricorrere a questi
quando ci sono difficoltà che non si sa come risolvere. Invece nelle comunità
alloggio e negli altri servizi di cui sopra, tutti gli operatori e ciascuno di
essi sono responsabili; sono essi che devono
predisporre i programmi, compiere le verifiche e dare in ogni momento le
risposte alle esigenze poste dagli utenti.
In sostanza è illusorio pensare che
i gruppi che hanno potere sull'utenza non lo esercitino
(4), tanto più quando l'utenza è in posizione subordinata come lo sono le
persone escluse o segregate. Spesso la sopravvivenza di questi ultimi è
subordinata addirittura all'intervento assistenziale. Ci sarebbe dunque da
verificare se corrisponde alla realtà dei fatti
l'affermazione di Benvenuto secondo cui «i
confini fisici, morali, sociali e politici tra proletariato e
sottoproletariato (...) diventano sempre più labili e sempre meno discriminanti».
Se si intende
dire che molti proletari diventano sottoproletari a causa della disoccupazione
o sottoccupazione, di infortuni, di malattie professionali, delle basse
pensioni, ecc. allora siamo pienamente d'accordo.
Se si vuole invece affermare che gli
interessi dei proletari coincidono sempre con quelli degli esclusi, riteniamo
che il discorso debba essere approfondito. .
Quali conseguenze derivano ad esempio
dall'elevazione delle pensioni a livelli adeguati? È sufficiente una politica
seria contro le evasioni fiscali e contributive oppure è necessario anche
elevare l'età pensionabile? È possibile arrivare alla piena occupazione con un
diverso modello di sviluppo oppure occorre anche eliminare il doppio lavoro?
Si possono avere servizi sanitari e
sociali adeguati alle esigenze solo con riforme anche profonde oppure si deve
anche aumentare il rendimento lavorativo del
personale addetto?
Riteniamo che una concreta lotta
all'esclusione sociale non debba solo essere diretta contro i gruppi
capitalistici (pur restando questo l'obiettivo prioritario),
ma comporti anche la necessità di affrontare in modo unitario i problemi
del proletariato e del sottoproletariato.
La posizione del Sindacato - e così
dicasi per le forze politiche, per le associazioni e per i movimenti di base -
non è mai neutrale.
Il Sindacato poi interviene
direttamente raggruppando gli operatori che lavorano nei vari settori
sociali, stipulando i contratti, proponendo piattaforme rivendicative. Non può
dunque non scegliere da che parte stare.
Forze politiche
progressiste
Diamo per scontato, come ci sembra
evidente, che i partiti di destra e di centro, sia pur con caratterizzazioni
diverse gli uni dagli altri, non abbiano assunto né assumeranno indirizzi
politici alternativi all'esclusione sociale.
Passando ora ai partiti di sinistra,
occorre in primo luogo operare una distinzione fra le iniziative
dirette a togliere potere ad altre forze politiche e gli atti concreti
compiuti o avviati contro l'esclusione.
Non si possono e non si devono, a
nostro avviso, mettere insieme i due aspetti sopra indicati dato che il primo
può avere un carattere esclusivamente strumentale.
Ciò non vuol assolutamente dire -
com'è ovvio - che anche il primo aspetto non sia
importante: si tratta di vedere se lo scopo è il puro trasferimento di potere
da una forza politica all'altra, oppure se la
finalità è quella di creare le premesse per poter avviare la lotta contro
l'esclusione.
Può rientrare, ad esempio, fra le
iniziative dirette a togliere potere, almeno in parte, agli avversari la
soppressione degli enti cosiddetti inutili e l'attribuzione dei compiti, del
personale, dei finanziamenti e dei beni alle Regioni ed ai Comuni. Infatti mentre gli enti sciolti erano tutti controllati
dalla DC (degli enti più importanti solo l'ONPI e l'Unione italiana ciechi
avevano presidenti del PSI), alcune Regioni e molti Comuni sono amministrati
dalle sinistre.
Pur riconoscendo il grande valore della battaglia portata avanti dalle sinistre
per l'abolizione degli enti inutili, va osservato che le sinistre non hanno
alcun progetto concreto per una vera lotta all'esclusione.
Esse, infatti, sono arrivate, sia a
livello nazionale che regionale, solo a proporre una
diversa organizzazione del settore assistenziale e cioè a prevedere interventi
sempre emarginanti, anche se più accettabili sul piano umano e sociale.
Ruolo delle associazioni
e dei movimenti di base
Troppo spesso le associazioni
(pensiamo ad esempio a quelle di invalidi) sono
impegnate in attività clientelari o in un lavoro diretto a procurare ai
singoli soci le prestazioni ad essi necessarie.
Manca un collegamento fra le associazioni
e fra queste ed i movimenti di base.
Manca soprattutto la capacità di
collegare i problemi immediati con obiettivi di vera prevenzione
dell'esclusione sociale.
Inoltre i pochi movimenti e
associazioni che hanno assunto correttamente il problema, si trovano nelle
condizioni di non disporre delle forze necessarie
affinché il Parlamento, il Governo, le Regioni, i Comuni e loro Consorzi e le
Comunità montane predispongano, ciascuno per la parte di sua competenza,
interventi orientati contro la segregazione e l'esclusione, e organizzino i
servizi in modo che siano soddisfatte le esigenze di tutta la popolazione.
Altre associazioni e movimenti di
base, infine, hanno rinunciato alla loro autonomia di elaborazione
e di messa in atto delle iniziative conseguenti, accettando la cogestione con
le strutture di potere (enti locali, consigli scolastici, ecc.).
Conclusione
Nonostante tutto continuiamo
a sperare (e ad agire di conseguenza) che le forze politiche progressiste e il
sindacato, recuperando il notevole ritardo, elaborino un progetto di intervento
concreto e non respingano la collaborazione con i movimenti di base che sono
disponibili ad unire le loro forze per lottare veramente contro l'emarginazione
e la segregazione.
Tale progetto dovrebbe partire dalla
constatazione che gli esclusi ed i segregati di oggi
appartenevano ieri al proletariato e al ceto medio.
TESTO DELL'INTERVENTO DI GIORGIO BENVENUTO
1) - Ho accettato tanto più
volentieri l'invito rivoltomi dagli organizzatori di questo convegno in quanto
proprio in questo periodo, come forse già vi è noto, la UIL
sta affrontando da un suo punto di vista il problema del rapporto fra i giovani
e la droga, nel tentativo di stabilire su quali linee - pratiche e politiche -
si può articolare un intervento del sindacato in questo campo.
Su questo aspetto
preoccupante della nostra realtà sociale, la conoscenza del sindacato è una
lavagna nera, e altrettanto nullo è il nostro impegno politico. Fino ad oggi
il sindacato di fronte al problema della droga ha chiuso gli occhi facendo
finta che non esista, come facevano le dame
dell'epoca vittoriana a proposito del sesso. Eppure è
difficile credere che il sindacato possa rifiutarsi ancora a lungo di
immergersi dentro questi problemi. Troppo facile, comodo, rassicurante è lo
schema di una classe operaia sia pure sfruttata, certo, ma matura, evoluta, che
lotta, con le sue organizzazioni di classe, per affermare i valori di cui è
portatrice, per costruire il suo paradiso sulla terra. E di fronte a questo
territorio della classe operaia, ma da esso separata
da un muro quasi invalicabile, la terra di nessuno degli emarginati, dei
sottoproletari, dei «lumpen», dove non ci sono
valori positivi, dove non c'è la lotta perché non c'è la presa di coscienza di
una condizione collettiva ma solo la sommatoria dei tanti singoli privati di
una condizione degradante; dove non torna conto, e anzi può essere fuorviante,
che mettano piede le organizzazioni di classe.
Questa rigida separazione di
confini, questa visione quasi aristocratica della realtà sociale e del ruolo
delle organizzazioni di classe appartengono a un
modello vecchio, troppo schematico e quindi incapace di farci capire il nostro
ruolo in una società molto più complessa di quella dell'epoca della rivoluzione
industriale. Il sindacato che «non si sporca le mani», che resta sul suo
terreno, che lavora con gli strumenti e nelle direzioni
proprie di quel suo modello di classe operaia diventa a un certo momento
incapace di capire come mai questo terreno gli si sfalda sotto i piedi, come
mai quel modello rassicurante di classe operaia in cui il sindacato credeva
ciecamente, ad un certo momento sembra non esistere più; vota in un modo
diverso, si rivolge verso altri valori, peggio ancora non-valori, mentre i
confini fisici, morali, sociali e politici tra proletariato e sottoproletariato,
come pure tra proletariato e piccola borghesia, diventano sempre più labili e
sempre meno discriminanti.
2) - Il risultato è che noi, che
siamo l'organizzazione sociale per eccellenza, a un
certo momento rischiamo, proprio per questa obsolescenza dei nostri schemi
culturali, di non essere più in grado di capire la società; guardiamo i giovani
e li troviamo diversi da noi, apparentemente incomprensibili; siamo impotenti
a capire perché si buca l'operaio della FIAT o l'impiegato di banca; non
riusciamo a renderci conto come e perché questo pianeta droga, che ci sembrava
così lontano nello spazio e nel tempo, sia sceso tra noi, all'interno di un
tessuto sociale al quale sembrava dovesse rimanere per sempre estraneo.
Credo che questa nuova dimensione
della realtà con cui ci troviamo a fare i conti
implichi - e qui lo dico solo per inciso - la necessità di avviare una
riflessione di fondo sul nostro ruolo e sul nostro modo di porci all'interno
della società. Nel '68-'69 abbiamo tentato di uscire dalla fabbrica e ci siamo
per così dire «svenati» con le grandi lotte per le riforme e per un nuovo
modello di società. A distanza di dieci anni il bilancio che un po' tutti stiamo facendo di queste lotte è sostanzialmente negativo,
e profondamente autocritico. Riusciamo ancora a trovare, in modo spontaneo ed
immediato - perché questo è il nostro ruolo storico - il collegamento con i
problemi del lavoratore all'interno della fabbrica, ma non riusciamo a trovare
un collegamento altrettanto immediato con i problemi del lavoratore
quando esce dalla fabbrica ed entra nella società. Abbiamo rivendicato
la riforma sanitaria, ma quale è la nostra conoscenza,
il nostro collegamento col malato in quanto tale, e con i suoi problemi all'interno
delle istituzioni sanitarie? Rivendichiamo la riforma della politica della
casa, ma quali sono le risposte che siamo in grado di
dare agli sfrattati, quali sono i nostri collegamenti con i drammatici problemi
di chi è in cerca di una abitazione? Parliamo di riforma del fisco, ma ancora
non abbiamo trovato il modo di avviare concretamente una lotta di massa sulle
evasioni fiscali. Con il contratto tuteliamo la busta paga del lavoratore, ma lo lasciamo abbandonato a se stesso quando
esce dalla fabbrica e diventa consumatore. Lottiamo con un
grosso impegno politico per l'occupazione giovanile, ma mai come oggi, io credo,
il nostro rapporto con i giovani - e non dico solo il nostro, ma anche quello
dei partiti storici della sinistra italiana - è stato così freddo, così
superficiale, così precario.
3) - Io credo che soltanto il
recupero di una grande tensione ideale, la capacità di saper proporre alle
generazioni giovanili un lavoro comune attorno a dei
grandi progetti di trasformazione sociale potrà aiutarci a superare questo
distacco.
Si tratta, in ultima analisi, di
saper superare alcuni ritardi culturali che ci inducono
a considerare certi problemi come un fatto privato, e di trovare una linea di approccio
a questi problemi che ci consenta di dare ad essi una dimensione politica e
sociale; recuperando, attraverso il contatto diretto con l'individuo e con i
suoi problemi, una capacità più matura di affrontare e risolvere i problemi
della società nel suo insieme. Questo può significare, anche, che il sindacato
dovrà riflettere sulla necessità di cominciare a darsi una organizzazione
non legata solo alle categorie produttive o alle strutture territoriali ma
articolata secondo quelli che possiamo chiamare i «grandi bisogni» che emergono
a livello di società: la salute, la casa, la giustizia, la scuola, i consumi,
la condizione giovanile. Ed è proprio per quanto attiene alla condizione
giovanile che abbiamo la maggiore necessità di fare
uno sforzo prima di tutto conoscitivo; in modo da poter capire meglio alcuni
aspetti di questa condizione ai quali siamo rimasti del tutto estranei sia
culturalmente che politicamente.
Uno di questi aspetti, e certo il
più angosciante, è quello dell'eroina.
Da quando nei laboratori della Bayer venne per la prima volta
prodotta l'eroina, e lanciata in tutto il mondo con grande battage
propagandistico, la diffusione di questa droga-flagello è aumentata
costantemente, fino a sostituirsi a tutte le altre droghe e ad invadere Paesi
rimasti ai margini dal grande giro dei traffici di stupefacenti.
Fino agli anni settanta, in Italia,
il consumo prevalente - e comunque limitato - è di marihuana e di anfetamine; nel 1972 arriva la morfina della
Mercks, nel '73-'74 il mercato è già tutto dell'eroina.
Oggi sono
eroinomani, a Roma, bambini di dodici anni, Nelle farmacie romane
vengono vendute, in una settimana, seimila siringhe di plastica ai giovani
dai 18 ai 22 anni. Le dimensioni del pianeta droga aumentano in proporzione geometrica:
a causa del bisogno disperato dello spacciatore-tossicomane
di trovare consumatori-acquirenti dovunque e a
qualunque costo; a causa dell'inerzia delle autorità sanitarie e scolastiche
nello svolgere la necessaria opera di informazione, prevenzione e cura; a
causa dello stato di difficoltà, spesso di emarginazione, delle nostre generazioni
giovanili; sotto la spinta dei potenti interessi finanziari coinvolti dal giro
della droga, e dell'opera di corruzione da essi svolta, su scala mondiale, a tutti
i livelli istituzionali e politici.
4) - Continuare a disinteressarsi di
questo grave fenomeno significa, oggi, rendersi complici. È nostra convinzione
che le organizzazione sociali e politiche non possano
più estraniarsi da un mondo in cui una parte sempre crescente dei nostri
giovani trova un rifugio mortale. È necessario un grande impegno sociale e
politico sul piano della conoscenza, dell'informazione, della cura; dell'intervento sul background
sociale in cui si sviluppa più agevolmente il bisogno-droga; della lotta ai
potenti interessi che «muovono i fili».
Né, peraltro, la qualità
dell'informazione data al pubblico dai mezzi di massa è tale da contribuire
alla conoscenza del problema e alla sua prevenzione. Ci si limita per lo più,
salvo importanti ma rare eccezioni, a dare notizie
ripetitive sui decessi per droga come episodi a sé stanti di un mondo «diverso»,
senza alcun tentativo di approfondire le cause a monte, le implicazioni politiche,
le carenze dell'iniziativa pubblica.
Ed ecco, allora, una prima linea
lungo la quale riteniamo urgente che il sindacato si
muova: informarsi per poter informare; sensibilizzarsi per poter
sensibilizzare; documentarsi per potersi muovere a livello politico, nei
confronti dell'opinione pubblica, dei partiti politici, delle istituzioni.
Ci sono tante cose che vogliamo
capire; vogliamo capire chi sono quelli che tengono i
fili, quelli che si arricchiscono e speculano su questo big business; vogliamo capire - e quando lo avremo capito lo
denunceremo con tutte le nostre energie - se è vero che i burattinai hanno assicurata
di fatto l'impunità o tuttalpiù vanno incontro a
pene magari più lievi di quelle che toccano al ragazzo che fa il piccolo
spacciatore; vogliamo capire che cosa c'è di sbagliato o di non applicato
nella nostra legislazione, per poter intervenire con la capacità di pressione
di cui dispone il sindacato.
Per questo abbiamo bisogno prima di tutto di aprire un rapporto costruttivo con
tutti coloro che sono in rapporto diretto, per motivi professionali, politici o
umani, con il mondo della droga; ci rivolgiamo a tutti voi per chiedervi il
vostro contributo di conoscenza, di collaborazione.
5) - Come seconda linea di iniziativa, ci siamo proposti di lavorare attorno ad un
progetto di intervento concreto del sindacato articolato ai vari livelli della
prevenzione, della disintossicazione, dell'intervento per la formazione
professionale e l'inserimento nella vita lavorativa.
A tali fini ci proponiamo di
costituire un Centro di iniziativa sociale sulla droga
- C.I.S.D. - diretto da un Comitato dei promotori e
da un Comitato scientifico, sostenuto dall'impegno diretto dei lavoratori e da
tutte le organizzazioni, enti, istituzioni, che si dichiarano disponibili.
La prima fase di intervento
di questo Centro dovrà essere ovviamente quella della disintossicazione. Ferma
restando la riserva di rispettare in ogni caso la libera scelta del
tossicomane, la nostra intenzione è quella di privilegiare,
per bloccare le crisi di astinenza, i metodi che non prevedano la
somministrazione di droghe, quali la mesoterapia,
applicata in campo tossicologico con successo già da 5 anni nella lotta alla
nicotina e all'alcool da privati operatori o l'agopuntura applicata a Roma dai
sanitari dell'Ospedale S. Camillo.
Siamo consapevoli, naturalmente, che
l'intervento puro e semplice di carattere farmacologico
- come confermava anche questa mattina Marisa Malagoli - non è assolutamente sufficiente a determinare la
fine della tossicodipendenza. La disintossicazione è inadeguata se ad essa non si accompagnano interventi di carattere psicoterapeutico
laddove essi sono necessari, insieme ad iniziative tendenti a fornire quello che
Marisa Malagoli ha chiamato «un modello alternativo
di vita e di valori». Ed è qui che dobbiamo saper introdurre iniziative
tendenti ad eliminare le situazioni di disadattamento
e di emarginazione che costituiscono il terreno di coltura del malessere
giovanile in tutti i suoi vari aspetti, compreso quello della droga.
Qualunque azione in questo senso va
ricollegata nel quadro di un impegno politico più
generale del sindacato e delle forze sociali per la lotta alla disoccupazione
e all'emarginazione, per una maggiore presenza a livello dei bisogni sociali,
per una concreta iniziativa sul piano delle riforme. Nell'ambito di questo impegno più generale, il progetto C.I.S.D. prevede la
costituzione di apposite strutture - in particolare cooperative e comunità
agricole, cooperative culturali e di servizi, centri artigianali e commerciali
autogestiti, ecc. - aventi il compito di consentire
il superamento delle condizioni di emarginazione e disadattamento attraverso
il reinserimento dei giovani in un contesto sociale e comunitario.
6) - Qui è necessario essere chiari.
Non vogliamo aggiungere ai centri pubblici e privati esistenti o alle invero
poche iniziative che funzionano in alcune regioni
italiane, un'altra generica struttura antidroga, anche se - ove esistono (e ne
esistono) vuoti di intervento - prevediamo una operatività diretta del
Comitato, nei riguardi dei tossicodipendenti e degli ex. Ma
insieme - e soprattutto - il Comitato dovrebbe servire da collante, da
collegamento tra il mondo del lavoro e la sua lotta all'emarginazione da una
parte, e le organizzazioni, gli enti, le istituzioni volontarie che operano
nel settore antidroga dall'altra. Ciò vuol dire deghettizzare,
rendere patrimonio non solo di pochi specialisti e
volontari, problemi ed interventi che - come abbiamo detto parlando del rapporto
giovani-droga - sono parte di una realtà sociale più ampia e devono diventare
uno dei momenti delle lotte dei lavoratori per l'occupazione, la casa,
l'ambiente, i servizi, per una società a misura dell'uomo.
Anche in termini operativi
specifici, il raccordo con il mondo del lavoro, tramite anche il C.I.S.D., può voler dire una più
funzionale risposta alle richieste (che vengono specie dagli ex tossicodipendenti
e dalle organizzazioni che li seguono) di collocamento e di occupazione nel
mondo del lavoro; questa specificità del Comitato può essere anche l'elemento
che potrebbe autorizzarlo a servire da supporto tecnico e da coordinamento,
per questo aspetto, delle strutture già operanti.
Ugualmente da approfondire è il
ruolo del Comitato nei riguardi degli enti territoriali, specie Regione e
Comune, destinatari della legge specifica antidroga e, con la riforma
sanitaria e dell'assistenza, dei servizi socio-sanitari. L'istituzione
prevista in ogni regione del «Comitato per la prevenzione dell'alcoolismo
e delle tossicodipendenze», la predisposizione di piani regionali specifici e,
infine, la graduale apertura di centri pubblici sul territorio, sono realtà di
decentramento da prendere in attenta considerazione, anche in rapporto con il
parallelo processo di decentramento zonale e regionale dell'organizzazione
sindacale.
Uguale attenzione deve avere,
insieme alla ricerca e, più ancora, al mantenimento a lungo termine (data la
frequente precarietà dell'impegno lavorativo del tossicodipendente) dell'occupazione,
la ricerca dell'alloggio. Spesso egli ha lasciato famiglia e ambiente abituale,
ricercando soluzioni logistiche che, quasi sempre, si
rivelano emarginanti sul piano territoriale (periferia estrema, centro storico
degradato, ecc.) e ambientale. Da prendere anche in considerazione sono, oltre
alle soluzioni abbinate lavoro-alloggio (in cooperative agricole e simili), le
soluzioni di comunità protette e seguite da équipes
specializzate, nonché l'ipotesi, per ora forse
utopica, di sistemazione e affidamento a comunità sociali, quali piccoli comuni
o forse anche consigli di zona, della responsabilità del processo di
reinserimento del tossicodipendente.
Vorrei fosse chiaro che quello che
ho esposto nelle sue grandi linee non è un progetto, ma solo una
ipotesi di progetto; non è una ricetta prefabbricata, ma un impegno di
lavoro che dobbiamo definire insieme; che vogliamo definire con tutti coloro
che accettino di coinvolgersi in un ambizioso progetto di intervento sociale.
Non c'è molto forse di nuovo in
quello che ci proponiamo; di nuovo c'è l'impegno che per la prima volta viene affermato da parte di una organizzazione di classe.
Vorrei infine fosse chiaro un altro punto che io
considero molto importante. Il nostro atteggiamento nell'accostarci a questi
problemi non è quello di missionari laici né quello, distaccato e al fondo
arrogante, di chi va ad esplorare un mondo diverso. Ci accostiamo a questo
mondo con l'umiltà di chi sa che non è (e forse non sarà mai) in grado di dare
risposte risolutive, ma di chi sa che deve fare qualcosa per affrontare dei
problemi che sono di tutti già oggi, e potrebbero esserlo ancora più domani.
(1) Per consentire la
completa conoscenza del pensiero di G. Benvenuto, riportiamo in fondo a questa
nota il testo integrale del suo intervento.
(2) Gli ultrasessantacinquenni che vivono con la pensione sociale
(L. 72.000 al mese) sono 818.000.
(3) Quando parliamo di
esclusi ci riferiamo alle persone che, prive o private di una loro autonomia,
vengono emarginate dalla vita sociale. Ben diversa è la condizione di altri emarginati come le donne ed i gruppi che, a
differenza degli esclusi, hanno le potenzialità per lottare per il loro
riscatto.
(4) Ciò non significa,
ovviamente, che non vi siano operatori che non accettano la logica del potere.
Si tratta però di esigue minoranze.
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