Prospettive assistenziali, n. 47, luglio - settembre 1979

 

 

UNA NUOVA GEOGRAFIA ISTITUZIONALE DEL GOVERNO LOCALE

LUIGI BERLINGUER

 

 

Per gentile concessione della rivista «Demo­crazia e diritto» riproduciamo l'importante arti­colo di Luigi Berlinguer apparso sul n. 3 del 1978 della suddetta rivista con il titolo «Comuni e zone ottimali di intervento».

Mentre, come abbiamo più volte sostenuto, rite­niamo indilazionabile, anche nella prospettiva della rifondazione dei Comuni, la costituzione del­le Unità locali di tutti i servizi, avanziamo riserve sulla opportunità - soprattutto in questa fase - della costituzione dei Comprensori.

 

 

Una parte sempre crescente della pubblicistica e della dottrina comincia col convenire su un dato di fatto, che gli amministratori locali conoscono e sperimentano da tempo e che gli studiosi ave­vano avvertito assai meno: la crescente e cre­sciuta dimensione dell'intervento comunale nella vita pubblica e sociale. Il d.p.r. 616 attuativo della legge regionale 382 è stata solo la più consisten­te e significativa occasione di un processo, che in questi anni ha conosciuto anche altre manife­stazioni, sia pure con stenti e difficoltà a prezzo di un'azione dura e costante non priva di resi­stenze e di insuccessi.

La tendenza istituzionale prevalente, realizza­tasi soprattutto nella pratica quotidiana e confer­mata da certa legislazione nazionale, sembra es­sere rappresentata da un lato dal permanere di un elevato tasso di concentrazione delle deci­sioni di fondo della politica generale nelle sedi nazionali e sovranazionali già note, che non si vogliono esaminare in questo scritto; e d'altro lato dal trasferimento progressivo e parziale di taluni significativi margini di scelta e di gestione al sistema delle autonomie, particolarmente in taluni campi di intervento sociale.

La riforma del potere locale è già iniziata prima dell'attuazione di una nuova legge generale sulle autonomie territoriali: il testo unico della legge comunale e provinciale del 1934 non è più, nei fatti, la parte normativa fondamentale di questo settore dell'ordinamento. Se non si riflette op­portunamente su questo aspetto del nostro oriz­zonte istituzionale, non si comprendono i feno­meni politico-giuridici che hanno portato al d.p.r. 616 e che stanno facendo maturare in Parlamento le condizioni per l'elaborazione di una nuova leg­ge sul potere locale.

Fatta questa premessa ed espresso così un dissenso nei confronti di tanta dottrina autono­mista, più attenta a cogliere le distorsioni che non il quadro complessivo offerto oggi dal nostro movimento istituzionale, non si può non conveni­re con Giorgio Berti quando rileva che la recente legislazione «esalta volta a volta la propensione dei comuni ad essere enti ausiliari, enti indipen­denti, enti di collaborazione autonoma», proprio perché la stessa legislazione - e la disciplina che ne risulta - si presentano contraddittorie. Mi pare invece valida solo parzialmente la con­clusione generale che egli ne trae, «che il co­mune si trova costretto in ambiti sempre più limitati dal punto di vista della libertà di dettare disciplina e di intervenire».

La nuova legge sulle autonomie territoriali do­vrà comunque mettere ordine a tutto ciò, risol­vere in anticipo i possibili conflitti fra i diversi livelli verticali dell'ordinamento che derivano dal modo alterno e disordinato in cui la crescita co­munale è avvenuta in questi anni. Andrà soprat­tutto evitato ciò che in altri campi è assai fre­quente, e cioè che la riforma cada nel vuoto, che debba pagare un prezzo purtroppo comune alle leggi innovative: una lunga e tormentata fase di decollo, imposta dal disordine organizzativo e dal sistematico sabotaggio che ne può sensibilmente ridurre gli effetti.

In campo comunale tutto questo può essere evitato proprio per la crescita del sistema delle autonomie: in questo frattempo possono essere create o potenziate le condizioni di ricettività del­la nuova normativa, soprattutto per quel che ri­guarda le strutture, con la consapevolezza che si tratta di un'operazione assolutamente necessaria e insieme di grande utilità, poiché ad essa è affi­dato gran parte del successo della legge, e quindi il segno distintivo delle linee di riforma dello stato che essa incarna.

La colonna portante di una riforma del sistema delle autonomie territoriali è la costituzione di una rete di comuni che si configurino come enti generali rappresentativi degli interessi comples­sivi della comunità amministrata, enti generali di intervento politico-amministrativo unitario nei vari settori della vita pubblica e sociale. Qual­cosa di più, a dire il vero, degli «interessi esclu­sivamente locali» di cui parla l'art. 118 Cost.: si può comprendere l'ambizione del Psi di voler giungere alla revisione costituzionale proprio di quell'articolo e legittimare così, fino in fondo, l'operazione in corso, auspicata del resto da gran parte delle proposte di legge in materia e incoraggiata dai processi reali di questi anni, dalla pratica comunale quotidiana.

È stato già largamente ricordato che il d.p.r. 616 del 1977 ha impresso una svolta in questa direzione, attribuendo ai comuni funzioni ammi­nistrative in numerosi campi, da gestire in un'uni­ca dimensione territoriale, con un impianto po­litico-amministrativo unitario, contestuale: un si­gnificativo passo avanti verso l'ente generale. È il decreto n. 616 ad esigere organicità, in materia urbanistica, in tema di servizi; è il processo di deentificazione, di superamento delle ammini­strazioni separate e parallele, con i loro consigli di amministrazione largamente scissi dall'organo politico amministrativo, è il ritorno alla gestione e alla responsabilità politica dirette che in quel decreto si ritrovano, a rafforzare questa tendenza e questa prescrizione istituzionale. La legge di riforma autonomistica dovrà completare l'opera, unitamente al processo di delega regionale che è ancora in larghissima parte da costruire.

È vero che ente generale significa anche com­petenze in campo economico, ove invece le ca­renze sono quasi totali, ove cioè le innovazioni devono essere più profonde, nel senso di un coinvolgimento comunale nell'iter programmato­rio. Ma è anche vero che talune esperienze in questo campo, ove esistono, sono interessanti e a loro modo incoraggianti: penso al travaglio co­munale nell'opera di gestione della legge 10 del 1977 sui suoli o al ruolo locale nell'opera di pro­grammazione ospedaliera.

Ente generale è quindi essenzialmente una pro­spettiva assai nuova, di cui non credo si siano colte fino in fondo tutte le implicazioni. È la na­tura stessa del comune che va cambiando, per quello che esso è nella sua vita quotidiana, nelle sue attrezzature, nella sua strumentazione (orga­ni, personale, uffici, rapporti con le altre istitu­zioni). È la sua stessa adeguatezza a reggere l'imponente domanda sociale, i compiti crescen­ti, il rilevantissimo peso di un intervento pubbli­co ormai davvero ingente in tutti i campi della vita sociale. È la disponibilità a rispondere a tutto ciò, collocandosi correttamente in un rapporto de­mocratico con le popolazioni, facendosi carico di un'efficiente organizzazione della macchina pub­blica (sconosciuta al cittadino italiano), di un alto tasso di meccanizzazione e razionalizzazione de­gli uffici.

Orbene, quanto di tutto questo corrisponde alla realtà attuale di tanti comuni italiani, della loro stragrande maggioranza? Quanto potrà esser rea­lizzato dal pulviscolo comunale, da una rete di enti locali spesso atomizzata, dispersa, fortemen­te condizionata dalla sua storia e da secoli di soffocante centralismo? Quanti dei nostri attuali comuni potranno divenire in pratica enti generali nel senso vero del termine?

Il dibattito e l'azione autonomistica non hanno dato risposta adeguata a questi interrogativi, che pure sono ineluttabili, se si vuole calare una legge sul potere locale in una realtà ricettiva e concretamente riformabile.

I comuni, le loro associazioni democratiche, il complesso delle forze autonomiste - che pure tanti risultati hanno conseguito nella creazione di un nuovo equilibrio istituzionale fra centro e periferia specie negli anni Settanta - hanno in­vece detto ben poco a questo proposito. Scarse proposte, poche idee, pochi risultati. Eppure in questo campo si gioca oggi una partita decisiva dell'attività riformatrice dello stato e del potere locale: se i comuni non saranno all'altezza dei loro compiti, essi potranno essere enti generali solo sulla carta, e il vero potere resterà allocato altrove. Si prenda l'esempio delle deleghe regio­nali. Anche se il vero motivo per cui non se ne ha un'applicazione apprezzabile sul territorio nazio­nale risiede nella volontà di conservare tutto il potere ove esso originariamente risiede, non si può negare che le regioni sono state scoraggiate (anche quelle ben disposte a delegare) dallo stato in cui parecchi comuni si trovano e dalle difficoltà oggettive che il processo di delega ha incontrato. Anche se questo non assolve le regioni, il fatto comunque resta ed occorre prenderne atto.

In tutto questo ha decisamente influito un'ana­lisi «conservatrice», pigra, della realtà comu­nale italiana. I comuni sono stati considerati solo in quanto espressione storica dell'insediamento naturale delle popolazioni, in una visione statica del loro ruolo e della loro natura. E si è così la­sciato spazio a tesi intellettualistiche, di inge­gneria istituzionale a tavolino, che con leggerez­za si sono avventurate in «ardite» ipotesi di ridu­zione secca dei comuni al numero perfetto di mille, vagheggiando soluzioni britanniche o bel­ghe, ove le ben diverse situazioni politiche (di assoluta oligarchia) hanno consentito interventi dall'alto, senza traumi proprio perché senza par­tecipazione.

Al di là della loro incapacità a comprendere la realtà italiana, quelle tesi esprimono pur tuttavia un'esigenza reale, colgono una debolezza del mo­vimento autonomistico, che ha finora considerato gli insediamenti storici e le loro espressioni isti­tuzionali come forme statiche, sottovalutandone le profonde modifiche subite in questi anni so­prattutto con l'attenuarsi dell'isolamento e con il nuovo atteggiarsi dell'organizzazione comunale.

La modifica più sensibile si è verificata nel bacino di intervento, di offerta e di utenza dei servizi, economici e sociali, al quale si ricollegano realtà tradizionali d'insediamento urbano, bacino che prima era rappresentato dal territorio interno ai singoli comuni, mentre oggi si è dila­tato a causa dell'integrazione e delle correlazioni fortissime evidenti anche alla semplice osserva­zione empirica. La mobilità della manodopera, la pendolarità studentesca, le forme nuove di vita civile e culturale, l'estendersi degli insediamenti produttivi o del terziario hanno modificato pro­fondamente i bacini di intervento e di utenza.

Alla forza della tradizione dei vecchi ed origi­nali insediamenti di popolazione - che conser­vano tutta la loro capacità attrattiva quando, però non finiscono per provocare esasperazioni ed esplosioni municipalistiche ogni qualvolta l'eco­nomia ristagna, la crisi diviene soffocante, oppu­re quando si vuole violentarne la persistente vi­talità e ragione d'essere - a quella tradizione si è affiancata più che sostituita nella gran parte dei casi una realtà nuova che ha pur essa una grande forza di aggregazione, che rappresenta anch'essa una realtà corposa, moderna, insopprimibile.

Mentre però i vecchi comuni hanno avuto ed hanno tuttora le loro compiute espressioni istitu­zionali non è così nel caso di questi nuovi bacini: ma è proprio qui il ritardo. Le zone ottimali per l'erogazione di moderni servizi comunali o per gestire un intervento periferico nell'economia so­no di due ordini: quelle totalmente decentrate all'estrema periferia (scuole materne), e quelle più ampie (servizi socio-sanitari), piano urbani­stico.

Nel secondo caso, quando le dimensioni dei singoli comuni (il pulviscolo comunale) sono di livello inferiore a quello delle città vere e pro­prie, per la gestione dei servizi si sono create, in modo distorto e inadeguato, forme istituzionali sovracomunali diverse.

Si pensi ai consorzi, che non costituiscono più lo strumento eccezionale previsto dalla legge, avendo assunto dimensioni endemiche ed infla­zionate, proprio perché segno evidente della ne­cessità - in cui i comuni sono venuti a trovarsi - di costituire realtà sovracomunali, per rispon­dere alle esigenze dettate non solo da un au­mento della domanda e dalla novità delle richie­ste di servizi, ma persino dalla progressiva ac­quisizione di nuove competenze.

La stagione dei consorzi è stata una fase obbli­gatoria che ha consentito l'erogazione di servizi, altrimenti non amministrabili. Oggi però essa va sempre più acquisendo la caratterizzazione pato­logica e deformata di espressione istituzionale dei nuovi bacini di intervento e di utenza, delle nuove zone di servizi. Si sono esasperati i rischi della monosettorialità, della parcellizzazione del­le forme di intervento, di zonizzazioni anch'esse settoriali e diverse una dall'altra, e sono venute a prodursi inevitabili forme di esproprio del le­gittimo potere delle assemblee elettive, dei con­sigli comunali, con nuovi tipi di amministrazioni separate e parallele. Mi si consenta un inciso: taglio fuori volutamente, per i limiti di questo scritto, sia le zone metropolitane sia il tema dell'ente intermedio. Quest'ultimo è cosa assai di­versa dalle zone sovracomunali di servizi, da quanto cioè fin qui è stato detto; e poiché oggi esso è diventato tema più ideologico che di ana­lisi scientifica, è assurto addirittura a oggetto di una disputa quasi teologica, preferisco per un attimo accantonare il problema. Occorre però precisare che i bacini di utenza e di intervento immediatamente sovracomunali non hanno nien­te a che fare con l'ente intermedio, per il quale sembra che tutti convengano debba trattarsi di «area vasta», cosa che nel nostro caso non è.

Tornando al nostro discorso non potrà non am­mettersi che la diffusione dei consorzi fra comuni per gestire separatamente ciascuno il proprio settore si colloca in posizione antitetica a quella dell'organicità, della polisettorialità, dell'unità di gestione di cui abbiamo finora discorso a propo­sito del d.p.r. 616 e del comune ente generale. Del resto questa circostanza, assai chiara in se­de teorica, lo è ancor più in sede pratica fra gli amministratori locali, fra i quali l'avversione ai consorzi diviene ogni giorno più diffusa.

Si son tentate da più parti soluzioni diverse. La cultura urbanistica ha proposto i comprensori, con un qualche successo per un decennio, fino a trovare albergo negli statuti regionali e attuazio­ne in talune regioni italiane. Essi tuttavia attra­versano oggi una crisi che non sembra passegge­ra, anche se non se ne può disconoscere il ruolo positivo nell'aver riproposto con energia il tema dell'ente intermedio fra regione e comune. Forse più appropriata, anche se di scarsa diffusione pra­tica e con competenze troppo ridotte, è stata l'esperienza delle comunità montane di cui alla legge 1102 del 1971.

Resta tuttavia l'inadeguatezza generale delle forme d'intervento, dovute alle ragioni richiamate all'inizio di questo scritto, quando si valutava reticente e pigra l'analisi delle forme comunali del nostro paese. Nella fase precedente si è in parte giunti a pensare, a seguito dell'esperienza comprensoriale, che l'anello centrale per la rifor­ma del potere locale e per il decollo della pro­grammazione democratica fosse l'ente interme­dio. Non si è compreso invece che il punto di partenza di qualunque riforma restano pur sem­pre il comune, le sue attribuzioni, la sua natura, la sua organizzazione.

Col d.p.r. 616 e con la presentazione delle proposte di legge di riforma del potere locale sem­bra aprirsi uno spiraglio. Il decreto attuativo della legge n. 382 enuncia due principi fondamentali: l'attuazione di compiti ai comuni con prescrizione di organicità per taluni settori, la previsione di forme di associazione intercomunale diverse dai consorzi. Le disposizioni sono note: per la gestio­ne, che il decreto vuole esplicitamente conte­stuale, dei servizi sociali e sanitari l'art. 25 fa carico alla Regione di determinare con legge gli «ambiti territoriali adeguati», «promuovendo forme di cooperazione fra gli enti territoriali» che potrebbero avere persino carattere di asso­ciazioni obbligatorie. Ed è proprio al quarto com­ma di questo stesso articolo che per la gestione di servizi socio-sanitari vengono coinvolte le co­munità montane, invocando così fino in fondo l'u­nicità dell'istituzione e la massima unità e poli­settorialità dell'amministrazione.

In tema di assistenza sanitario-ospedaliera e di assistenza scolastica, rispettivamente gli artt. 32 e 45 ultimi comma fanno anch'essi carico alla Regione di promuovere le opportune forme di col­laborazione fra i comuni interessati. Questa stes­sa logica sembra seguire il d.d.l. in discussione al Parlamento (che ne ha già approvato il testo in uno dei suoi rami), nel prevedere per le regioni la determinazione, sentiti i comuni, degli ambiti territoriali per l'organizzazione delle unità sanita­rie locali, che in moltissimi casi non potranno che avere dimensioni sovracomunali. Così pure per il d.d.l. già approvato dalla Camera dei Deputati sull'edilizia residenziale, che all'art. 4 impone alle regioni di «ripartire gli interventi per ambiti ter­ritoriali di norma sovracomunali, assicurando il coordinamento per l'acquisizione e l'urbanizzazio­ne delle aree occorrenti all'attuazione del pro­gramma».

Emerge da tutto ciò una tendenza ad aggregare i comuni minori, inferiori alla dimensione «cit­tà», sulla base di bacini d'intervento e di utenza da definire, che finora sono stati poco studiati, se non su modelli settoriali e separati. Emerge tut­tavia la necessità di forme più energiche di inte­grazione, di unificazione sul territorio delle diver­sificate zone oggi esistenti, grazie a precise e vincolanti prescrizioni normative, eluse tuttavia e ancora lontane da una corretta applicazione. Vo­glio ricordare che indicazioni di questo tipo sono presenti in più di una legge regionale di settore.

Un ulteriore aiuto nella stessa direzione ci giunge dai disegni di legge Pci, Dc e Psi per la riforma delle autonomie locali, che recepiscono tutti l'ipotesi di associazioni sovracomunali per la gestione dei servizi e per interventi di altra natura: il che lascia prevedere che la futura leg­ge generale possa essere precisa in proposito.

Non intendo procedere ad una analisi dei testi richiamati, ai quali rinvio: mi limiterò soltanto a qualche sommaria considerazione, utile al pre­sente ragionamento.

La prima indicazione sistematica è venuta dal progetto redatto nel corso della ricerca condotta dall'istituto di diritto pubblico della facoltà giu­ridica di Pavia, su incarico della giunta regionale lombarda, per la riforma del sistema delle auto­nomie. Nel capo I del titolo IV del testo del pro­getto di legge, con la dizione «forme collabora­tive» si disciplina la possibilità per i comuni di costituire volontariamente o coattivamente inte­se (art. 50), gestioni comuni (art. 51), consorzi (art. 52) e unioni di comuni (art. 53).

Il testo del d.d.l. governativo torna sulle possi­bilità di gestione associata e di altre forme collaborative (titolo II), anch'esse in parte mutuate dal documento pavese; il progetto socialista si diffonde articolatamente a descrivere natura e compiti delle «zone di servizi» comprendenti più aree elementari, in un comune di consistenti di­mensioni o attraverso forme di associazione in­tercomunale (artt. 54 ss.); il documento comuni­sta conferisce anch'esso alle unità associative intercomunali (artt. 37 ss.) un rilievo del tutto particolare fra le diverse forme di collaborazione tra i comuni, proprio in ottemperanza alle con­siderazioni fin qui svolte. Infine, il progetto demo­cristiano (artt. 42 ss.) riprende le proposte di co­stituzione di intese, di associazioni di comuni, di consorzi.

Inutile richiamare in questa sede la convergen­za ovunque registrata a proposito del decentra­mento istituzionale urbano con la costituzione delle circoscrizioni e lo sviluppo delle prime esperienze realizzate a seguito della legge sui quartieri n. 278 del 1976. Fatto salvo questo aspetto di zonizzazione funzionale ad un'area pic­cola, elementare, primaria, di servizi e di parte­cipazione, a bassa densità di popolazione, il di­scorso torna sulle dimensioni ottimali di inter­vento per quei settori che non possono adegua­tamente esser soddisfatti se si resta ancorati all'ambito dei tradizionali bacini vetero-comunali; torna cioè sulla necessità di realizzare una effi­cace corrispondenza fra la dimensione delle strutture (istituzioni e uffici) e quella ottimale dell'erogazione soddisfacente dei servizi oltre che della gestione dell'intervento periferico nell'economia.

È senza dubbio di notevole significato la circo­stanza che tutte le proposte di legge si siano po­ste nell'ottica di disciplinare e favorire le asso­ciazioni intercomunali, indotte a questo dal pro­liferare di forme settoriali di consorziazione di comuni e dall'esplodere del problema di una nuova zonizzazione adeguata alla domanda e all'of­ferta di intervento pubblico.

Ed è significativo che proprio in quest'ottica la strada prescelta sia stata quella democratica, di stimolare provvedimenti e cioè la partecipazione e la libera scelta comunale, rinunciando a pro­porre provvedimenti e discipline autoritari. La Gran Bretagna o il Belgio hanno di recente prov­veduto in tal modo, secondo un metodo caratte­ristico di quelle oligarchie ove la razionalizzazio­ne e modernizzazione delle strutture ha sempre un'impronta tecnocratica. In Italia tutto questo non sarebbe possibile. La nostra democrazia è certo più tormentata, più ingolfata, meno efficien­te di altre in Occidente, ma è sicuramente più viva e più vera, poiché la partecipazione politica ha consolidato conquiste sconosciute in quei pae­si, ove la delega è assai più netta e incondizio­nata che da noi. In Italia, pertanto, la riforma della mappa istituzionale periferica non può che essere partecipata, consensuale; i riaccorpamenti all'in­terno della parte più atomizzata dei comuni do­vranno passare attraverso forme di associazione volontaria.

Tutto questo non può tuttavia significare che l'istituzionalizzazione dei nuovi bacini di utenza e di intervento (le zone) debba procedere con lentezza estenuante, o che il consenso debba si­gnificare paralisi, sabotaggio. Democrazia signi­fica decisione, energia; qualità che per promuo­vere le associazioni intercomunali saranno ne­cessarie in misura rilevante, fino a raggiungere il risultato.

Ed è proprio a questo proposito che sarebbe nocivo attendere l'approvazione della legge sulle autonomie per far decollare il meccanismo di ri­composizione ed unificazione territoriale dei nuo­vi bacini di utenza e di intervento. Una nuova legge generale potrà cominciare a far sentire i propri effetti presumibilmente non prima del 1981-82, certo dopo le prossime elezioni ammini­strative; ma non può neanche accettarsi l'ipotesi di una stasi di tutto il processo di ricomposizione, specie perché non possono attendere fino a quel­la scadenza i bisogni dettati dal d.p.r. 616, dalla riforma sanitaria, dai piani regionali di sviluppo, dalle norme urbanistiche, dalle altre misure che chiamano costantemente in causa i comuni. Del resto, le prescrizioni normative del d.p.r. 616 in tema di ambiti territoriali ottimali, di cui si è fatto cenno anche in queste note, sono precise ed ineludibili.

È incoraggiante il fatto che - al momento in cui scriviamo - due regioni si siano già concre­tamente incamminate su questa strada, sia pure con impostazioni non univoche: la Lombardia e la Toscana, la prima con il p.d.l. n. 309 di iniziativa della Giunta presentato in consiglio il 3 luglio 1978 («adeguamento delle delimitazioni territo­riali ai sensi dell'art. 90 L.R. 31-3-1978, n. 34» sulle procedure di programmazione), la seconda con una delibera della Giunta regionale in data 28 luglio 1978 ancora sotto forma di proposta po­litica accompagnata da un'ipotesi di zonizzazione delle aree di servizi e d'intervento per le asso­ciazioni intercomunali.

La Lombardia (a parte talune discutibili misure di rilancio delle province) tende a modificare i suoi comprensori portandoli da 32 a 14 e a co­stituire 100 zone di servizi, di cui 32 nel solo entroterra metropolitano milanese (20+20); la Toscana rinuncia per ora a definire l'ente inter­medio in attesa di una più certa disciplina statale e prevede di costituire 35 unità intercomunali, di cui una è rappresentata da Firenze ed il suo in­terland, salvo la successiva articolazione decen­trata. Richiamo i due esempi perché - per le motivazioni e per l'elaborazione che hanno die­tro - potranno costituire un utile e ricco punto di riferimento per il resto delle regioni e dei co­muni italiani.

La strada, obbligata ed urgente, è quella di co­stituire organismi corrispondenti ai nuovi bacini ottimali di gestione con carattere polifunzionale, e quindi con rilevanza politica generale e con compiti naturali di coordinamento - che sono condizioni elementari per la programmazione. L'opera di riunificazione sul territorio delle zo­nizzazioni settoriali esistenti non sarà facile, per le varie incrostazioni che si sono già determinate e per i rilevanti problemi pratici che già si pre­sentano: e tuttavia, ripeto, si tratta di una strada obbligata.

L'interrogativo da sciogliere sarà semmai un altro, legato all'esistenza di possibili differenze di area ottimale fra servizio e servizio, al fatto cioè che in più casi le aree ottimali non sempre coincideranno. Gli studi finora fatti tendono tut­tavia a dimostrare che le differenze sono di rilie­vo marginale e mai del tutto inconciliabili, salvo talune eccezioni: occorrerà comunque scegliere fra la totale congruità delle aree ottimali, con­servate distinte per ciascun servizio, ed i van­taggi dell'unificazione territoriale delle diverse aree in un unico ambito polifunzionale. Le indica­zioni culturali e normative vanno tutte in questa seconda direzione.

Per talune istanze che sono state da poco co­stituite si potrà presentare l'opportunità di gesti­re la transizione conservando per un breve tempo la condizione distinta di organismi di settore, a fianco delle nuove associazioni intercomunali po­lifunzionali; ma solo per un breve periodo ed in vista del progressivo assorbimento delle prime nelle seconde. Ad esempio, per i consorzi socio­sanitari si potrà attendere l'entrata in vigore del­la riforma sanitaria e l'istituzione delle unità sa­nitarie locali, da assorbire nelle aree ottimali di gestione polisettoriale; per i distretti scolastici si potrà rapidamente giungere a formulare propo­ste di modifica degli ambiti territoriali in vista di un nuovo decreto del ministro della pubblica istruzione cui compete la delimitazione geografi­ca dei distretti stessi, in modo che il tutto si sin­tonizzi con le aree polifunzionali in occasione delle prossime elezioni per la composizione degli organi distrettuali.

Per tutti gli altri compiti che derivano ai comu­ni ex d.p.r. 616, dalle altre leggi statali e dalla legislazione regionale di delega, il processo di riunificazione territoriale ed istituzionale può es­sere iniziato da subito. Si dovrà investire con esso le comunità montane e varie forme di con­sorzi, di enti, di organismi: le proposte lombarda e toscana si sono già messe su questo terreno, sia pure in modo differenziato.

Occorre naturalmente, per le regioni che non avessero ancora avviato studi in proposito, pro­cedere ad una serie di rilevazioni e di ricerche per giungere a conoscenze sistematiche: del re­sto, si è ormai sviluppata in altri paesi e si co­mincia a coltivare anche in Italia una vera e pro­pria scienza delle zonizzazioni, che potrà essere assai utile a preparare il confronto reale con le popolazioni ed i comuni.

Le iniziative lombarda e toscana stanno a di­mostrare che il compito di promuovere un pro­cesso come quello finora descritto - nell'assen­za totale di intervento statale in materia - non può che competere alle regioni ed ai comuni. Come si è già detto, le rappresentanze nazionali di coordinamento dei comuni hanno mostrato su questo tema una reticenza ingiustificata, mentre è assolutamente indispensabile che da esse pro­vengano indicazioni, suggerimenti ed assistenza perché gli stessi comuni governino da sé la loro evoluzione e trasformazione effettiva in enti ge­nerali.

Le regioni hanno a loro volta compiti di impul­so e di legislazione ben definiti. Abbiamo già svolto qui sopra le argomentazioni a proposito della prescrizione normativa degli articoli 25, 32 e 45 del d.p.r. 616, oltre che di altre proposte di legge statali. La Lombardia ha trovato motivo di legittimazione a legiferare anche nel disposto dell'art. 90 della L.R. 31 marzo 1978, n. 34 (pro­cedure di programmazione); la Toscana lo ri­scontra in altre sue leggi regionali, fra le quali quella disciplinante l'esercizio del potere di dele­ga di funzioni regionali n. 30 del 1973. Superfluo insistere, del resto, sulla competenza regionale a prevedere e disciplinare forme associative co­munali, sentiti ovviamente i diretti interessati, soprattutto nelle materie alle regioni costituzio­nalmente attribuite o loro delegate dallo stato, e successivamente dalle regioni indirizzate verso i comuni. I d.d.l. di riforma delle autonomie preve­dono d'altro canto per le associazioni intercomu­nali, un generale rinvio alla legge regionale (artt. 29 e 31, Pci; art. 54, Psi; art. 44, Dc).

Oltre alla zonizzazione, compito centrale della legislazione regionale può essere quello di pre­vedere le forme attraverso le quali le associazioni intercomunali di zona (sui bacini ottimali di ge­stione) possono organizzarsi. Stando alle indica­zioni che scaturiscono dai d.d.l. presenti in parla­mento per la riforma delle autonomie locali le forme dovranno essere agili e duttili, fondate sull'adesione dei comuni interessati, anche se sa­ranno utili provvedimenti di incentivazione, di coordinamento e di stimolo da parte delle regioni.

La possibile entificazione dell'associazione non va esclusa, purché se ne conservi la diretta de­rivazione dai comuni ed il costante collegamento con gli stessi. Non se ne potrà tuttavia escludere una certa autonomia politica, perché la natura polifunzionale del suo intervento tende a qualifi­carne politicamente l'azione complessiva, di con­temperamento delle varie esigenze rappresenta­te. La forma giuridica dell'ente e la composizione dei suoi organi sono essenziali a risolvere il deli­catissimo nodo e la contraddizione oggettiva che costantemente si presenteranno: conciliare la sua funzione di sintesi e quella di rappresentan­za dei diversi comuni e delle popolazioni alle quali esso si riferisce.

L'associazione dovrà inoltre avere natura aper­ta alle nuove funzioni e competenze che si ag­giungeranno o insorgeranno successivamente e natura flessibile per consentire un suo rapido e costante adeguamento. Il rapporto con i singoli comuni dovrà essere garantito dalla massima uti­lizzazione possibile in forme associate degli stes­si organi comunali, fin dove esigenze tecniche di funzionalità lo consentiranno, assicurando i dirit­ti dei gruppi di minoranza nell'intento di non sottrarre competenza ai consigli comunali e quin­di alla rappresentanza politica.

La fase più delicata, però, è rappresentata dalla ristrutturazione degli uffici comunali, dall'inevi­tabile mobilità del personale, dall'utilizzazione associata e non duplicata di uomini e strutture. La modernizzazione e razionalizzazione dell'orga­nizzazione comunale, la meccanizzazione degli impianti e del lavoro, la logica dislocazione del personale sono oggi imposti dalle necessità dei tempi, ed in molti casi - grazie a varie prescri­zioni normative - in corso di realizzazione. È indispensabile che tutto ciò avvenga non in for­me atomizzate, ripetitive, con lo spreco di dupli­cazioni inutili.

Per questo occorre far presto, occorre adope­rarsi perché il processo di ristrutturazione degli uffici si muova presumendo la ricomposizione as­sociativa sul territorio. I comuni devono favorire fin da ora la tendenza alla riforma istituzionale nel senso dell'associazione e del coordinamento dei propri sforzi.

Non dimentichiamo che una tendenza alla rior­ganizzazione delle proprie istanze sulla base dei nuovi bacini ottimali di gestione si riscontra in talune forze politiche e nelle confederazioni sin­dacali: un tale processo nelle istanze della socie­tà civile può divenire condizione di successo (e viceversa) della stessa riforma istituzionale, per la natura osmotica e speculare di questi fenome­ni, nelle istituzioni e tra le forze sociali a causa della stretta interazione fra questi due momenti.

Emerge da queste considerazioni che lo sforzo per favorire la ricomposizione territoriale ed isti­tuzionale è previsto in termini non sufficiente­mente energici e articolati nei d.d.l. parlamentari. Ad esempio, non può essere valutata positiva­mente la circostanza che i progetti di Pavia, del Psi e della Dc pongono sostanzialmente sullo stesso piano comuni e province, e non contribui­scono in tal modo a qualificare nei fatti il comune come cellula fondamentale dell'ordinamento ita­liano. La posta in gioco è alta e merita molta attenzione legislativa e politica. Forse quella del­la costituzione delle unità intercomunali di ge­stione è l'unica strada per convogliare il pulvi­scolo comunale in una direzione in cui sia possi­bile esprimere istanze di coordinamento fra co­muni e regioni, creando in tal modo le occasioni concrete per la programmazione democratica. Solo così si potrà dire che il comune è avviato realmente a divenire ente generale.

 

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