Prospettive assistenziali, n. 48, ottobre - dicembre 1979

 

 

ALCUNE NOTE CIRCA L'INTEGRAZIONE SOCIALE DEI MIODISTROFICI

PAOLO OTELLI (1)

 

 

La nostra indagine è nata dalla necessità di appurare la situazione reale d'integrazione o di emarginazione sociale, quotidianamente vissuta dai miodistrofici in Piemonte. Il nostro lavoro di raccolta dei dati è stato compiuto integralmente a mezzo telefono; ciò spiega il motivo per cui l'indagine è stata per ora limitata al ristretto am­bito della zona urbana torinese. Per quanto ri­guarda l'intero Piemonte, abbiamo optato per un sistema di raccolta indiretto, e cioè l'invio po­stale di questionari. La risposta finora ottenuta appare abbastanza deludente, con una percen­tuale di risposte molto bassa (5% circa), che speriamo dovuta ai ritardi postali.

Analizziamo comunque i dati dell'indagine to­rinese. Sono stati intervistati direttamente a mez­zo telefono 90 persone, mentre in 14 casi sono stati spediti i questionari relativi, le cui risposte saranno conglobate a quelle che ci perverranno da tutto il Piemonte: esse faranno parte di una seconda indagine. In 8 casi, invece, non è stata possibile la raccolta, a causa dell'indirizzo sba­gliato o insufficiente.

Va detto che l'intervista telefonica non è mai stata una fredda raccolta di dati, ma, attraverso l'ottimo rapporto umano affiorato nella maggio­ranza dei casi, è stato possibile analizzare certe componenti psicologiche e socio-culturali difficil­mente quantificabili, ma estremamente impor­tanti al fine di una corretta ricerca di ipotesi operative.

Abbiamo suddiviso i 90 miodistrofici torinesi intervistati in cinque fasce d'età, e precisamen­te: da zero a 5 anni; da 6 a 13 anni; da 14 a 24 anni, da 25 a 40 anni; oltre 40 anni.

I dati raccolti sono stati analizzati dettagliata­mente e sintetizzati in tabelle e grafici.

 

Da zero a 5 anni

Questa fascia d'età si identifica con il periodo in cui generalmente viene diagnosticata la ma­lattia per le forme più gravi. È necessaria perciò una corretta informazione medico-scientifica alla famiglia.

Dal punto di vista dell'integrazione sociale, non si presentano ancora grandi problemi. Nella mag­gioranza dei casi (2 su 3) il bimbo frequenta la scuola materna ed il suo rapporto con i compagni è generalmente buono. È il periodo in cui, però, viene alla luce in rari casi, oltre alla D.M.P. (di­strofia muscolare progressiva), anche un lieve ri­tardo intellettuale. È quindi necessario individua­re questi casi, e sensibilizzare la famiglia sull'im­portanza dell'inserimento nella scuola materna, in modo da creare intorno al bambino fin dall'ini­zio le condizioni più favorevoli per il suo inse­rimento.

 

Da 6 a 13 anni

Per valutare correttamente queste note, rela­tive alle varie fasce d'età, bisogna sempre tenere presente che alle naturali mutazioni psicofisiche, che avvengono nell'organismo, si sovrappone nel nostro caso lo sviluppo della D.M.P.

Gli anni dell'adolescenza sono quelli in cui vengono messi in discussione e abbandonati i principi e le idee dell'infanzia e con fatica ven­gono creati e sviluppati comportamenti più adatti al diverso ruolo di cui il giovane si sente in­vestito.

Questo processo di sviluppo avviene attraver­so esperienze diverse, che hanno quasi sempre la loro radice nella famiglia, nella scuola e nei compagni. Sono questi gli anni, già di per sé dif­ficili, in cui la D.M.P. in molti casi diventa tale da costringere alla sedia a rotelle; in altri casi il processo è più rapido e già verso gli 8-9 anni ci si ritrova seduti.

In qualsiasi modo, l'epoca dell'adolescenza vie­ne vissuta in una situazione di inabilità. Ciò com­porta in primo luogo la necessità di una corretta informazione sessuale, che, se è importante per un ragazzo normale, lo è doppiamente per un mio­distrofico, che vive molteplici e traumatizzanti situazioni di inserimento e che deve essere aiuta­to più di un altro a vedere chiaro in se stesso, nei suoi istinti, nelle sue pulsioni, per evitare angosce e preconcetti svianti.

Su 24 miodistrofici intervistati, tutti apparte­nenti a questa fascia d'età, ben 12, ovvero il 50%, non camminano più e usano la carrozzina. Il li­vello di scolarizzazione è comunque buono e su 24 casi 22 frequentano la scuola. Solo 2 hanno smesso di frequentare verso la quarta elemen­tare per l'inadeguatezza dei servizi e le notevoli barriere architettoniche che si presentavano. Quelli che continuano a frequentare sono ben inseriti nel contesto scolastico e, generalmente sono portati a scuola e riportati a casa dall'appo­sito pulmino comunale.

È da rilevare a questo punto come sia risultato nettamente, sia attraverso l'intervista diretta a coloro che già frequentarono le classi speciali, sia attraverso le esperienze di coloro che attual­mente frequentano la scuola normale, la superio­rità didattica e di inserimento sociale di quest'ul­tima, per il caso specifico di persone colpite da D.M.P.

Nonostante ciò, siamo convinti della necessità di potenziare e istituire adeguate strutture me­dico-scolastiche, al fine di garantire all'interno della scuola normale e della famiglia i necessari interventi terapeutici, in modo particolare di fi­siochinesiterapia.

 

 

 

da 0 a 5 anni

da 6 a 13 anni

da 14 a 24 anni

da 52 a 40 anni

oltre i 40 anni

totali

numero casi

100%

100%

100%

100%

100%

100%

carrozzina

 

50%

73%

41%

21%

44%

patente

 

 

13%

35%

37%

20%

sposati

 

 

 

29%

58%

21%

amici

100%

66%

54%

70%

87%

71%

vita sociale est. amici

 

 

36%

35%

20%

19%

vita sociale est. famiglia

100%

100%

50%

58%

58%

68%

frequenza scolastica

66%

91%

40%

 

 

36%

non scuola

33%

9%

60%

 

 

17%

livello scolastico

 

 

 

 

 

 

diploma

 

 

 

58%

37%

21%

media

 

 

31%

17%

21%

16%

elementare

 

9%

22%

23%

41%

23%

analfabeti

 

 

7%

 

 

1 %

lavorano

 

 

4,5%

70%

50%

27%

interesse al presente lavoro

 

49%

81%

41%

16%

44%

vivono in famiglia

100%

95%

90%

94%

91%

93%

donne

 

4%

27%

17%

45%

23%

uomini

100%

96%

73%

83%

55%

77%

 

 

 

da 0 a 5 anni

da 6 a 13 anni

da 14 a 24 anni

da 52 a 40 anni

oltre i 40 anni

totali

numero casi

3

24

22

17

24

90

carrozzina

 

12

16

7

5

40

patente

 

 

3

6

9

18

sposati

 

 

 

5

14

19

amici

3

16

12

12

21

64

vita sociale est. amici

 

 

8

6

5

19

vita sociale est. famiglia

3

24

11

10

14

62

frequenza scolastica

2

22

9

 

 

33

non scuola

1

2

13

 

 

16

livello scolastico

 

 

 

 

 

 

diploma

 

 

 

10

9

19

media

 

 

7

3

5

15

elementare

 

2

5

4

10

21

analfabeti

 

 

1

 

 

1

lavorano

 

 

1

12

12

25

interesse al presente lavoro

 

11

18

7

4

40

vivono in famiglia

3

23

20

16

22

84

donne

 

1

6

3

11

21

uomini

3

23

16

14

13

69

 

 

 

In tutti i casi in cui la scuola non è più fre­quentata, o viene frequentata una scuola spe­ciale, abbiamo constatato rilevanti problemi d'in­tegrazione. La percentuale di giovani miodistro­fici torinesi che frequentano le scuole speciali attualmente è abbastanza ridotta, circa il 16%. Questa percentuale è comunque destinata a di­minuire notevolmente, a causa della chiusura, con il prossimo anno scolastico, della scuola an­nessa all'ospedale Maria Adelaide, che ospita an­cora tre miodistrofici e due motulesi.


 

 

I problemi d'integrazione sopraddetti si mani­festano in primo luogo a causa del diverso livello di apprendimento che viene raggiunto in una scuola speciale (molto più basso) rispetto ad una normale; in secondo luogo, e ben più gravemen­te, la scuola speciale non permette un corretto sviluppo della personalità.

L'abitudine di vedere e di incontrarsi in modo prevalente con coetanei inabili crea poco alla volta delle difficoltà sempre più rilevanti, special­mente quando vengono vissute nel periodo della adolescenza, ad intrattenere rapporti veramente paritari, almeno dal punto di vista psicologico, con coetanei sani.

La frequenza giornaliera con persone colpite da inabilità per un giovane motuleso impedisce il formarsi e lo svilupparsi della coscienza della sua «non-diversità», costringendolo in modo de­primente a rendersi conto dei suoi limiti fisici. A questo punto, se non si è aiutati attraverso frequentissimi contatti con coetanei sani esterni alla scuola speciale a sviluppare la presa di co­scienza delle proprie capacità, esiste il rischio enorme e frequentissimo di isolarsi dai contatti umani con persone sane, perché sentite come «diverse». In questo caso, i limiti psicologici e la distrofia muscolare, per cause sociali, econo­miche e psicologiche più o meno indipendenti dalla volontà del soggetto, provoca pure una «di­storsione mentale», tale da pregiudicare la pos­sibilità di costruire una esistenza soddisfacente.

Su 24 casi presi in considerazione in questa fascia d'età, in 16 (66%) esistono rapporti di amicizia con coetanei sani, basati su frequenti visite a casa, giochi, conversazioni, ecc. Il rima­nente 34% invece, anche se va a scuola, non è riuscito a spostare il momento della socializza­zione dalla scuola alla propria abitazione, anche per cause oggettive, quali la scuola lontana, la giovane età, ecc. Questi sono evidentemente i casi su cui dovrà appuntarsi maggiormente la no­stra attenzione, nel momento in cui cesseranno di frequentare la scuola, perché evidentemente, se non coadiuvati, troveranno notevoli difficoltà ad uscire dalla loro emarginazione.

Per quanto riguarda questa fascia d'età, la fun­zione e la responsabilità di rompere in qualche modo l'isolamento, per esempio con qualche gita, e col cercare e assecondare nuovi rapporti uma­ni, spettano particolarmente alla famiglia.

Questo fatto è evidente se si considera che su 24 casi il 100% ha modo di uscire di casa, ed avere esperienze «esterne» solo con persone dello stesso ambito familiare. Ciò d'altra parte è abbastanza naturale se si pensa alla giovane età dei miodistrofici in questione.

Un altro dato importante affiorato dalla nostra inchiesta, è che, su 24 casi, ben 23 ovvero il 95% vivono in famiglia. Sono interessati a cercare in­sieme a noi una soluzione ai loro problemi di in­tegrazione sociale il 49%. Questa percentuale, relativamente bassa, è dovuta al fatto già prece­dentemente accennato, che i veri problemi di in­tegrazione si presentano nel periodo dell'adole­scenza, mentre nel periodo precedente (6-10 an­ni), più propriamente legato all'infanzia, il pro­blema presenta ancora contorni più sfumati e meno appariscenti.

 

Da 14 a 24 anni

In questa fascia d'età, in cui, sono stati presi in esame 22 casi, rileviamo un notevole incre­mento del livello di inabilità: infatti, 16 casi usa­no la carrozzina, vale a dire il 72,7% rispetto al 50% precedente. Il grafico delle età, in cui si sono manifestati i primi sintomi, ci dimostra pure come in questa fascia di età le forme di Distrofia Muscolare siano più varie.

Vi sono infatti casi di Duchenne, casi di distro­fia dei cingoli, alcuni casi di neuromiopatie. Que­sta promiscuità di forme fa sì che si possano ri­scontrare 3 persone (13%) che sono in grado di condurre automezzi e una quarta che svolge un lavoro esterno (4,54%). È perciò questa una fa­scia di età in cui si possono trovare situazioni, dal punto di vista dell'integrazione sociale e di quello diagnostico molto diverse. Dovremo per­ciò tenerne doverosamente conto nella valuta­zione dei dati.

Hanno frequenti e continui contatti con coeta­nei, per motivi di amicizia, 12 su 22 intervistati (54%), ma solo in 8 casi (36%), queste amicizie sono tali da dare la possibilità al miodistrofíco di avere contatti ed esperienze con il mondo esterno alla sua famiglia con il solo tramite delle proprie amicizie (attraverso gite, spettacoli, di­scussioni). Non occorre ulteriormente sottolinea­re l'importanza di questo fatto, che permette al miodistrofico di rendersi conto della realtà in cui vive, in misura grandemente superiore a quel­la che avrebbe se questa esperienza fosse vis­suta attraverso il «filtro culturale» inibitorio im­posto generalmente dalla famiglia.

In 11 casi (50%) i contatti e le esperienze con il mondo esterno avvengono solo attraverso la famiglia. In altri 3 casi è stato riscontrato, attra­verso l'intervista, che costoro, praticamente, non escono mai di casa. In qualsiasi modo la fre­quenza di uscita, quando dipende dalla famiglia, è risultata bassa e, nella maggioranza dei casi, si aggira su 2 o al massimo 3 volte al mese, men­tre per quelli che escono con gli amici, essa è molto più alta, e si aggira su 6/7 volte al mese, tenendo doverosamente conto della stagione e dei fattori climatici.

Questo fatto ha le sue radici in motivi socio­economici. Generalmente, infatti, coloro che han­no avuto la possibilità di farsi delle amicizie vi­vono in famiglie da cui hanno modo di trarre sti­moli e indicazioni culturali, utilissimi al fine di raggiungere un certo livello di integrazione so­ciale. Queste famiglie, più preparate culturalmen­te, sono anche quelle che, nella maggioranza dei casi, hanno un certo livello economico, e quindi disponibilità di tempo e di denaro per realizzare gite ed altre attività ricreative o di studio.

In qualsiasi modo però, sul comportamento della famiglia, incidono pure moltissimo motivi «culturali», nel senso di estrazione etnica, di storia e tradizioni che possono essere ancora più o meno attive a seconda della provenienza e della «cultura» del luogo di origine. La situazione a questo proposito delle ragazze miodistrofiche è abbastanza indicativa. In questa fascia di età ne abbiamo contate 6 su un totale di 22 casi, quindi il 27% circa, ed anche se non si può dire esista una situazione per loro sostanzialmente diversa, è però comunque indubitabile che esse trovino più difficoltà e una maggiore cautela da parte del­la famiglia nel lasciarle libere di uscire di casa, o di intrattenere e sviluppare rapporti di amicizia con propri coetanei. In questa fascia di età la percentuale di coloro che frequentano ancora la scuola scende da 91 % a 40%.

I motivi sono diversi e si può avere un'idea più precisa del fatto considerando che, dei 13 miodistrofici su 22 che non frequentano più la scuola, 7 hanno conseguito la licenza di scuola media, 5 hanno terminato le scuole elementari e solo uno non ha alcun grado di scolarizzazione.

Un aspetto molto importante che è venuto alla luce attraverso il lavoro di intervista diretta, è la constatazione della maggiore capacità di rea­gire a livello psicologico alla D.M.P. da parte di coloro che hanno un buon livello di scolarizzazio­ne, o almeno interessi culturali (leggono, scri­vono, suonano), rispetto a quelli che questi inte­ressi non hanno e che quindi tendono a far «pas­sare il tempo» guardando la televisione o dedi­candosi ad attività poco costruttive, atrofizzando sempre di più quelle capacità creative ed espres­sive che sono in ognuno di noi.

La percentuale di coloro che vivono in famiglia si mantiene in questa fascia abbastanza elevata: il 90% rispetto al 95% della fascia precedente, mentre sono interessati a ricercare insieme a noi una soluzione ai loro problemi di integrazione so­ciale circa l'81% degli intervistati rispetto al 49% precedente. È questa infatti la fascia di età più interessata a questo problema, sia per l'alto grado di persone costrette in carrozzina (72,7%) sia per il livello molto basso di integrazione nel mondo del lavoro (4,54%).

Inoltre, è proprio questo il periodo in cui si prende coscienza della propria situazione, del mondo che ci gira intorno, degli altri che sono «diversi» e di quelli che ci sono simili, per cui la ricerca del nostro ruolo all'interno della so­cietà si fa sentire in modo sempre più impellente.

Se riusciamo a sentirci solo noi i responsabili diretti della nostra esistenza, allora comprendia­mo come i primi artefici della risoluzione dei no­stri problemi non possiamo che essere noi stes­si. Questo spiega l'interesse che è affiorato nei confronti di questa nostra iniziativa.

 

Dai 25 ai 40 anni

In questa fascia di età abbiamo contato 17 casi di cui solo 7 usano la carrozzina: la percentuale scende quindi dal 72,7% precedente al 41,1%, mentre svolgono un lavoro esterno retribuito ben il 70% rispetto al 4,54% precedente.

Sono sufficienti queste poche indicazioni, per comprendere come i problemi e il tipo di distrofia muscolare che si può riscontrare in questo pe­riodo di età, siano sostanzialmente diversi da quelli precedenti. Abbiamo qui molti più casi di forme cosiddette «benigne» tipo distrofia mu­scolare dei cingoli, od altre che comunque com­promettono di meno la mobilità e consentono quindi un'esistenza normale.

Alcuni dati: 6 su 17 hanno la «patente» (35%), 5 su 17 sono sposati (29%), 12 su 17 posseggono delle amicizie (70%). Escono di casa prevalentemente con gli amici 6 su 17 (35%). Questa per­centuale relativamente bassa non deve però trar­ci in inganno; infatti, bisogna calcolare che 5 su 17 sono sposati e quindi hanno modo di uscire di casa con la loro famiglia (ogni giorno, se fanno parte del 70% che lavora). Il numero delle per­sone che escono frequentemente di casa per mo­tivi extralavorativi sale perciò a 11 (5+6) men­tre, dei rimanenti 6, uno non esce mai a causa di enormi blocchi psicologici; gli altri 5 escono pre­valentemente con i familiari o parenti. Questi da­ti, così diversi da quelli presi in esame dal pe­riodo precedente, non devono farci dimenticare però le grosse difficoltà, specialmente psicologi­che, di inserimento che esistono anche in questo periodo.

Per molti infatti la malattia, iniziata nel periodo dell'adolescenza e oltre, incomincia a farsi sen­tire in modo notevole, e generalmente questo fatto viene vissuto in modo molto più traumatiz­zante, rispetto a quello di un ragazzo di 10/14 anni, che non ha ancora piena coscienza del suo problema. In questo periodo, per coloro che non si sono sposati, o che comunque non hanno una relazione stabile con una ragazza o un ragazzo, il problema assume a volte dimensioni enormi. Ci si sente incapaci di costruirsi un'esistenza normale, ci si vergogna a volte di uscire, di in­contrarsi con gli altri su di uno stesso piano, e poco alla volta nasce la tendenza ad autoisolarsi, ad autoemarginarsi dal contesto sociale.

A questo punto, è bene prendere in visione il livello di scolarizzazione raggiunto: possiamo così vedere che, su 17 casi, 10 hanno un diploma di scuola media superiore, 3 la licenza media, e 4 hanno frequentato le classi elementari. Sono questi casi, in cui si riscontra un più basso livello di scolarizzazione, quelli in cui sono più vive le tensioni e l'angoscia, a meno che la persona coin­volta non abbia saputo darsi degli interessi di­versi, in modo da superare la tendenza alla pas­sività e allo sconforto. In questa fascia di età le persone interessate a ricercare insieme a noi, una soluzione ai loro problemi di integrazione, scende dall'81% precedente al 41%: infatti, solo 7 casi su 17 si sono detti interessati, ed è abba­stanza indicativo il fatto che anche 7 sia il nu­mero di persone che usano la carrozzina in que­sta fascia d'età. I motivi di questo calo sono da ricercarsi, come già detto precedentemente, nel migliore e a volte ottimo livello di inserimento sociale raggiunto dai soggetti considerati.

Alcune ulteriori indicazioni prima di esaurire l'esame di questo periodo: gli uomini sono 14, le donne 3. Inoltre, vivono presso la famiglia, op­pure in alcuni casi da sole ma in alloggio pri­vato, 16 persone su 17, ovvero il 94% rispetto al 90% precedente. Anche qui un dato più positivo.

 

Oltre i 40 anni

Questo periodo è caratterizzato da persone che hanno constatato i primi sintomi della loro ma­lattia, nella maggioranza dei casi, fra i 14-15 anni e i 23-24 anni (vedi grafico).

Esistono poi 3 casi su 24 che invece li hanno notati verso i 40 anni. Le persone che usano la carrozzina sono 5 su 24 (20,8% rispetto al 41,1% del periodo precedente).

Inoltre svolgono un lavoro esterno a tempo pieno il 50% delle persone considerate, rispetto al 70% del periodo precedente: questo calo è dovuto al fatto che alcune di esse sono già in pensione, o per aver compiuto gli anni di lavoro prescritti, o per aver fruito del pre-pensionamen­to per invalidità. Nove casi su 24 (37% rispetto al 35% precedente) hanno la patente; inoltre 14 su 24 (58%) sono sposati, rispetto al 29% pre­cedente. Questo fatto è dovuto principalmente all'aumento rispetto alla fascia precedente dell'età media d'inizio dei primi sintomi della ma­lattia, che ha permesso in molti casi una gioventù pressoché normale e quindi molte possibilità di matrimonio.

Anche il numero di persone che hanno normali contatti e rapporti di amicizia è molto alto: 21 su 24, ovvero l'87% rispetto al 70% precedente. Il rapporto è quindi ulteriormente migliorato, men­tre esce di casa prevalentemente con amici solo il 20% rispetto al 25% precedente, ma ciò è do­vuto alla maggiore età delle persone prese in esame, per cui, a volte, la carenza di amicizie è dovuta a fattori naturali.

D'altra parte, come ben si sa, i problemi di emarginazione sociale non esistono solo tra gli inabili, ma anche tra gli anziani e perciò, nel no­stro caso, i due fattori si assommano.

In questa fascia di età il livello di scolarizza­zione riscontrato è stato di 9 casi su 24 (37%) con diploma di scuola superiore, 5 su 24 (20,8%) con licenza di scuola media, mentre 10 su 24 (41%) hanno frequentato solo le classi elemen­tari. Nella fascia d'età precedente le percentuali erano rispettivamente: 58%, 17% e 23%. Un mi­nor numero di diplomati, quindi, ed uno nettamen­te superiore di persone con la sola licenza ele­mentare. Questo fatto è spiegabile, se si pensa alla maggiore età delle persone intervistate in questa fascia ed al fatto che nel periodo in cui erano giovani esisteva un grado molto più basso di scolarizzazione.

Un altro dato interessante emerso è il numero quasi simile di uomini e donne (13 e 11) riscon­trato in questa fascia d'età, mentre nelle prece­denti la percentuale era sempre nettamente in favore degli uomini (vedi tabella).

Inoltre 22 persone su 24 (91%) vivono in fa­miglia, mentre nella fascia precedente avevamo il 94%. Non è possibile comunque far valere tale dato anche al di fuori dell'ambito ristretto di que­sta indagine, perché i nominativi sui quali si è operato possono non essere sufficientemente rappresentativi della realtà. D'altra parte, ciò è valido per tutta l'inchiesta, che, se ben chiarisce certe tendenze e certe inconfutabili realtà, non può senz'altro subire un'elaborazione troppo este­sa dei dati, pena il decadere della sua veridicità.

Sono interessati a tentare insieme a noi di ri­solvere i loro problemi di integrazione sociale 4 persone su 24, ovvero il 16% rispetto al 41% pre­cedente. Un nuovo calo, dunque, che viene a dimostrare come in questa fascia d'età la situa­zione, dal punto di vista dell'integrazione sociale, sia ulteriormente migliorata. Non bisogna però dimenticare che anche qui esistono dei problemi. Il primo interessa principalmente le persone più giovani non sposate (verso i 40-50 anni), in cui la situazione familiare comincia a farsi difficile. I genitori sono ormai anziani, ed i miodistrofici non hanno più, a volte, la mobilità sufficiente per svolgere un lavoro esterno. Quando a questo si somma un basso livello di scolarizzazione e quin­di poche possibilità alternative, il problema si fa veramente grave.

Un altro problema, che si presenta abbastanza frequentemente, interessa i più anziani ed è do­vuto all'isolamento in cui alcune persone ven­gono a trovarsi. Qui il problema, come già accen­nato precedentemente, si fonde con quello più ampio della integrazione sociale dell'anziano e dell'utilizzazione creativa del suo tempo libero.

A questo punto, appare utile dare uno sguardo ai dati raccolti nella loro totalità. Emerge imme­diatamente un dato significativo: il numero delle persone interessate a ricercare insieme con noi una soluzione ai loro problemi di integrazione so­ciale è uguale a quello delle persone che usano la carrozzina. Inoltre si può osservare che circa il 17% del totale delle persone intervistate non frequenta più la scuola, nonostante faccia parte di fasce di età in cui potrebbe ancora frequen­tare una scuola superiore. Ciò vuol dire che su 49 persone che formano le prime tre fasce d'età, solo 9, ovvero il 18%, proseguono oltre la scuola dell'obbligo. Altri dati sono: il 27% dei miodistro­fici presi in considerazione lavora, mentre circa il 93% vive in famiglia. La percentuale di donne risultata globalmente è il 23%. Gli sposati sono risultati il 21%, mentre coloro che hanno la pa­tente e guidano la macchina sono circa il 20%.

 

Principali elementi favorevoli e sfavorevoli alla socializzazione

Fino ad ora abbiamo analizzato in modo speci­fica le varie fasce d'età; cerchiamo ora di trarre delle indicazioni generali, per vedere quali sono gli aspetti che conducono all'emarginazione e quelli, invece, che sono momenti essenziali d'in­tegrazione sociale.

Occorre tener conto, in primo luogo, dell'età; infatti, fin verso i 14 anni, è indubitabile che gran parte della responsabilità di una buona integra­zione sociale risiede sia nella società, che deve dare (ma non sempre dà) tutti gli strumenti e le agevolazioni strutturali necessarie ad una buona integrazione, sia nella famiglia, che può stimo­lare e aiutare a sviluppare interessi specialmente culturali, tali da diventare in seguito possibilità alternative di inserimento. A questo riguardo, va detto che occorre sensibilizzare le famiglie e gli stessi miodistrofici al fatto che l'unica strada realmente perseguibile con successo per una persona colpita da D.M.P. e che voglia inserirsi attivamente nella società, è quella della cultura e dello studio appassionato. Il lavoro intellettua­le, infatti, è quello che meglio si presta, nella nostra situazione specifica, e che per le sue ca­ratteristiche di relativa sedentarietà può essere svolto ovunque senza eccessivi vincoli di luogo e di tempo.

Ma vediamo quali sono le difficoltà e gli osta­coli che si frappongono al raggiungimento di que­sti obiettivi. Un'errata valutazione, sia da parte del miodistrofico, sia da parte della famiglia, cir­ca le possibilità future d'integrazione e scelta di una preparazione professionale che abbia un alto grado di manualità: in questo caso si verifica poi la spiacevolissima situazione di dover smettere il proprio lavoro per impossibilità fisica di com­pierlo.

Un altro ostacolo nasce da un malinteso senso di pietà e commiserazione della nostra situazio­ne, per cui la famiglia accetta il totale disimpe­gno da qualsiasi tipo di attività.

La carenza o mancanza di amicizie che svol­gono attività intellettuali. È molto più facile svi­luppare un interesse culturale per un giovane il quale abbia degli amici che studiano, che per uno che non li abbia; questo, sia per motivi di sti­molo, sia perché all'interno di un gruppo si tende ad uniformare i propri interessi a quelli degli al­tri. Inoltre, il preconcetto, abbastanza comune, che ci si possa accostare allo studio solo da gio­vani e che oltre i 30-40 anni non sia più possi­bile fare questo salto «qualitativo» nella propria preparazione culturale. Se però questo salto è ancora compiuto abbastanza sovente dalle per­sone sane, come può dimostrare l'elevato numero di studenti lavoratori, è molto difficile che ac­cada in un miodistrofico adulto, che vive giorno dopo giorno un lento processo di emarginazione e che può facilmente essere preso dallo scon­forto e dall'apatia.

Un altro aspetto negativo per la socializzazione è senz'altro lo stato di disoccupazione. Come già detto in precedenza, sono più frequentemente colpiti da disoccupazione lavorativa coloro che possedevano capacità prevalentemente manuali o che non possiedono un'adeguata preparazione culturale. Anche questi ultimi però, specialmente se giovani (fascia d'età dei 15-25 anni) trovano grandi difficoltà ad ottenere un lavoro.

È necessario quindi, a nostro parere, fare uno studio approfondito su tutti i lavori che possono essere svolti da un miodistrofico, sia a domicilio che all'esterno, tenendo conto del tipo di distrofia muscolare e indicando i mezzi necessari per ot­tenere una buona preparazione professionale nel­le varie specializzazioni possibili. Inoltre, occorre informare tutti i miodistrofici e le autorità pub­bliche delle conclusioni a cui si è giunti e con­temporaneamente, sempre sulla base di queste indicazioni, avere dei contatti diretti con tutte le aziende, le imprese o comunque le persone che potrebbero utilizzare le nostre capacità profes­sionali. Solo attraverso una corretta informazio­ne di questo tipo possiamo pensare di fare luce e risolvere, in una certa misura, il problema.

Generalmente un altro ostacolo all'integrazio­ne sociale è il vivere all'interno di un istituto. Questo ostacolo è senz'altro uno dei più gravi, a causa della struttura stessa dell'istituzione as­sistenziale generalmente dedita al ricovero e all'esclusione dalla vita sociale dell'handicappato. In alcuni casi però, ovvero quando ci si trova da­vanti ad una famiglia che non riesce o non può dare, per motivi sociali e culturali, gli stimoli e le possibilità integrative necessarie, diventa indi­spensabile una struttura di appoggio esterna alla famiglia. Questa, deve allora avere le caratteri­stiche di una piccola comunità che viva in un nor­male alloggio e che sia il più possibile autoge­stita.

Altro momento importantissimo nel processo di integrazione o di emarginazione è la presenza o la mancanza di amicizie. È bene specificare però cosa si intende indicare con questo termi­ne; esso infatti è sufficientemente vago da per­mettere interpretazioni scorrette. Per «amicizie» intendiamo delle persone che abbiano con noi in­teressi umani e culturali in comune. Consideria­mo quindi genericamente come amicizie tutte quelle persone che hanno un rapporto frequente, non legato necessariamente ad interessi profes­sionali, con il miodistrofico ed esclusivamente, o almeno in misura grandemente superiore, con lui, rispetto agli altri membri della famiglia o al gruppo in cui è inserito. Questo aspetto in un certo senso esclusivo dell'amicizia è molto im­portante ed è bene sottolinearlo, perché, proprio attraverso di esso, si afferma poco alla volta, no­nostante l'inserimento in un nucleo familiare che assorbe gran parte della nostra esistenza, anche un nostro spazio privato, che è il primo e neces­sario strumento per la nostra emancipazione fu­tura.

È bene, perciò che la famiglia agevoli que­sta «privatizzazione» dell'amicizia, offrendo per esempio luoghi all'interno della casa e delle op­portunità al miodistrofico di vivere in modo vera­mente libero da ogni condizionamento questi suoi rapporti privati. Questo «privatizzare» i propri contatti umani isolandoli dal contesto «pubbli­co» della famiglia è, d'altra parte, un fatto natu­rale, al quale non si presta nemmeno più atten­zione nei giovani sani, che escono sovente di casa da soli, e possono quindi esprimersi libe­ramente.

Lo stesso sviluppo del «privato» è dunque a suo modo un elemento prezioso ai fini della so­cializzazione. Ciò è altrettanto vero se si consi­dera la situazione di certi istituti, dove l'inseri­mento in una struttura pubblica elimina ulterior­mente a livello psicologico ogni sentimento di un proprio «spazio privato», che la famiglia rie­sce invece in qualche modo ancora a salvaguar­dare.

Un altro aspetto importante è la frequenza con cui si incontrano gli amici. La frequenza di con; tatti è in alcuni casi addirittura più importante della «qualità» delle amicizie stesse, special­mente per i bambini e i ragazzi più giovani. È solo con una maggiore maturazione, infatti, che si im­pongono delle scelte dettate dalla propria perso­nalità, cultura, gusti personali, ecc., e quindi di­venta importante la «qualità» dell'amicizia. Oc­corre comunque che il miodistrofico si immetta in una mentalità tale da ricercare sempre nuove esperienze e nuovi contatti, in modo da salva­guardare la sua possibilità di avere dei rapporti umani formativi e soddisfacenti.

 

Anni e momenti di maggiore crisi

Come già abbiamo potuto osservare, gli anni più difficili dal punto di vista dell'integrazione so­ciale sono quelli in cui diventa impossibile cam­minare. Questo accade ad un'età che è difficile stabilire con precisione, perché dipende dal tipo di distrofia muscolare e dalle sue caratteristiche specifiche. Ad ogni modo, generalizzando, si può dire che questi anni sono compresi tra gli 8 e i 14 per le forme più gravi, e tra i 35 e 45 nelle forme cosiddette benigne. Vi sono alcuni casi, comunque, nei quali non si arriva mai alla carroz­zina; questo accade generalmente quando i primi sintomi sono apparsi in un'età piuttosto avanzata (40 anni circa) ed in cui il male progredisce con molta lentezza.

La mancanza di qualsiasi dolore fisico e l'im­percettibile incedere della malattia, se misurato sulla base di una settimana e oltre, fanno sì che una crisi depressiva vera e propria, che conduca all'apatia, sia rarissima. La lentezza del proce­dere del male permette infatti al miodistrofico di trovare sempre dello spazio per costruirsi inte­ressi ed obiettivi da raggiungere.

Ciò non significa, però, che non ci siano mo­menti di crisi e di depressione anche molto forte, ma questi sono appunto «momenti» legati in ge­nere a delusioni che vengono a sovrapporsi alla consapevolezza della propria situazione. In ogni modo, il ragazzo miodistrofico reagisce meglio a livello psicologico di un adulto. Egli infatti pos­siede una carica vitale e una voglia di conoscere e di esplorare il mondo che lo circonda, che l'adulto non possiede più. Inoltre egli ha meno coscienza di tutte le implicazioni del suo stato.

È importante comunque abituare il miodistro­fico in questo periodo ad un corretto tipo di assi­stenza, per cui egli non si abitui a sentire come «naturale» (quasi un prestito o una estensione appunto «naturale» della forza muscolare degli altri) solo l'aiuto materiale che gli viene da parte dei propri familiari, bensì si abitui a richiedere ed a instaurare con i propri amici questo stesso tipo di rapporto, cercando di abolire ogni tipo di timidezza o reticenza, causate da un inutile e quanto mai controproducente sentimento di «ver­gogna». Questo vale anche per gli adulti, anche se per motivi di maggiore «orgoglio personale» questi problemi sono vissuti con molta più an­goscia, specialmente nella età in cui si cerca un normale rapporto con l'altro sesso. Qui ritorna alla superficie, in modo però molto più rilevante e complesso, il problema sessuale, che si fonde con quello dei rapporti interpersonali. Entra qui in gioco la nostra capacità di comunicare, il no­stro modo di essere ed è a questo punto che comprendiamo se veramente siamo riusciti a li­berarci del sentimento di essere «diversi».

La vera «assistenza» non deve essere una fredda razionalizzazione dell'inabilità, magari at­traverso una sofisticatissima serie di apparec­chiature, che permettono per esempio di «vivere da soli con l'aiuto di una persona solo per due ore al giorno»; un sistema, quindi, elegante, mo­derno, razionale per emarginarci ulteriormente. La vera assistenza nei nostri riguardi deve es­sere condotta in modo da abolire se stessa. Que­sto non é un paradosso, tant'è vero che basta pensare a come si riceve l'assistenza in famiglia, dove il rapporto di consuetudine ed amore che lega le persone impoverisce il termine «assi­stenza» di gran parte delle sue implicazioni psi­cologiche negative. Questo concetto di «assi­stenza» come naturale estensione dell'affetto spiega pure come da questo punto di vista il bambino si trova senz'altro favorito rispetto all'adulto, avendo generalmente un ottimo e pro­fondo rapporto con la madre, mentre l'adulto è solo, nel senso che il rapporto con i genitori non può più costituire l'unico centro della sua esi­stenza.

 

Ipotesi operative

Il problema dell'integrazione sociale dei miodi­strofici si presenta quindi, come ci si è potuti rendere conto attraverso l'analisi dei dati raccol­ti, con una infinità di aspetti e di sfaccettature. È perciò difficile sintetizzare in poche schema­tiche possibilità e ipotesi d'intervento le varie strade che si possono e si devono seguire per giungere, se non alla soluzione, almeno ad un miglioramento della situazione attuale. Una cosa è certa, e cioè che molto potrà essere fatto se da parte delle famiglie avremo una buona colla­borazione e la sensibilità necessaria per sentire questi problemi come i propri problemi, non fa­cendo, quindi, considerazioni del tipo: «sì, va bene, esistono queste difficoltà, ma la nostra è una situazione diversa». Questo per quanto ri­guarda i bambini e i ragazzi più giovani.

Per quanto riguarda gli adulti, saranno loro stessi che dovranno prendere coscienza del pro­blema e porsi in mente che, se vogliamo che qualcosa cambi, dobbiamo essere noi i primi a darci da fare in questo senso. Occorre perciò trovare il modo e i mezzi necessari affinché si possano organizzare riunioni fra tutti coloro che sono interessati ad affrontare questo problema, cercando di instaurare fra noi un proficuo rap­porto di lavoro. Inoltre, speriamo che questa no­stra indagine abbia potuto chiarire qual è la reale situazione dei miodistrofici in Torino, in modo che coloro i quali desiderano collaborare con noi alla ricerca di una soluzione possano già fin d'ora impostare, sulla base delle informazioni acqui­site, delle ipotesi di intervento, in modo che già dalle prime riunioni si possa affrontare con il do­vuto approfondimento l'intero problema.

Non vogliamo qui condizionare in qualche mo­do quelle che saranno le decisioni sulla linea da adottare in futuro, ma ci sembra opportuno in questa sede informarvi di alcune indicazioni affio­rate attraverso il nostro lavoro d'interviste. Come già abbiamo visto, alcuni di noi si dedicano ad attività intellettuali (scrivono, leggono, suona­no, ecc.) ovvero hanno naturalmente utilizzato lo strumento più importante per la nostra emanci­pazione. Riteniamo quindi che sarebbe molto uti­le incentivare e potenziare queste attività, che per ora sono conosciute da un ristretto numero di persone, permettendo a chi abbia lavori di un certo impegno di poterli confrontare e divulgare e di poter utilizzare le strutture culturali di carat­tere pubblico (biblioteche, scuole, musei, teatri, istituti di ricerca, ecc.). Il nostro gruppo di lavoro potrebbe diventare, quindi, il tramite per cui i miodistrofici possano farsi ascoltare, non solo in merito alla loro situazione specifica, ma su tutti gli argomenti e gli aspetti della vita, della storia, della cultura che più li hanno interessati.

Un primo lavoro, quindi, che potrebbe essere compiuto insieme, sarebbe quello di raccogliere scritti o comunque testimonianze di attività crea­tive compiute dai miodistrofici piemontesi, in modo da poter documentare in un libro le diffi­coltà e i problemi della nostra esistenza, non ne­cessariamente nel senso di una «autobiografia dell'inabilità», ma attraverso la pubblicazione di lavori che trattino di vari e disparati argomenti.

Oltre a questo aspetto divulgativo, un lavoro di questo tipo avrebbe il grande pregio di coinvol­gere attivamente un gran numero di persone ed inoltre sarebbe possibile rendere partecipi tutti i miodistrofici piemontesi, indipendentemente dalla loro posizione geografica. È questa infatti, una delle maggiori difficoltà, che si frappone ad un allargamento degli interventi operativi a tutto il Piemonte: un aspetto, questo, che dovrà essere preso in considerazione, per evitare di rendere discriminante il nostro intervento.

Un'altra possibilità è quella di organizzare de­gli studi e ulteriori approfondimenti di alcuni aspetti peculiari dell'integrazione sociale, come, per esempio, il problema del lavoro già prece­dentemente accennato, o altri, di cui si senta la necessità.

Questo assetto prevalentemente «culturale», che si prospetta in questa sede, non significa che non si possano impostare ed attuare programmi più «pratici» per il cambiamento di strutture sociali inadeguate alle possibilità degli inabili, quali, per esempio, le barriere architettoniche, i trasporti, la legislazione sul lavoro degli ina­bili, ecc.; ma piuttosto significa che noi conside­riamo importante allo stesso modo una corretta crescita intellettuale, tale da permettere appunto proprio la richiesta «politica» e l'uso responsa­bile di nuove strutture adeguate alle nostre ne­cessità.

Un'altra ipotesi operativa potrebbe essere quella di operare al fine di favorire l'incontro tra persone sane e miodistrofici. Tutto ciò, chiara­mente, senza alcuna forma di «pietismo».

 

  

(1) Vice-Presidente della Sezione di Torino dell’U.I.L.D.M. (Unione italiana lotta alla distrofia muscolare).

 

 

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