Prospettive assistenziali, n. 49, gennaio - marzo 1980

 

 

SONDAGGIO DEL CENSIS SULLA POVERTA' (1)

 

 

Come si è già accennato nell'introduzione, l'opi­nione pubblica italiana tende oggi a sottovalutare e quasi a negare, più o meno coscientemente, che ci siano situazioni di povertà. Ciò in parte è certo dovuto a fatti soggettivi di rimozione del brutto e di slittamento verso il meglio delle aspi­razioni individuali e collettive; ma è dovuto (è inutile nasconderselo, per voler ad ogni costo accentuare i lati negativi dell'attuale periodo), ad una situazione congiunturale in cui:

- non si è ancora spenta l'eco del «boom immisurabile dell'economia sommersa» e la ca­pacità di tenuta-rilancio del nostro tessuto socio­-economico, profondamente radicato in mille ri­voli di risorse ed energie insospettabili, produce una facile accondiscendenza verso esiti quasi inevitabilmente sufficienti degli attuali processi di sviluppo;

- la tendenza ad un riflusso nel privato, che investe tutto l'occidente, ha trovato nei compor­tamenti delle giovani generazioni un alibi decisivo per l'emergenza e la codificazione di un generale appiattimento della società nella non-partecipa­zione e nel non-coinvolgimento responsabile, co­lorandosi di consumismo parossistico e di varian­za soggettiva dei comportamenti che sono modelli tipici delle società opulente;

- la prolungata immersione nella «vacanza di governo» ha disinteressato la società civile e mostrato una società politica del tutto insensi­bile agli stimoli che provengono dal drammatico incalzare dell'inflazione, del terrorismo, della cri­si energetica;

- la propensione al risparmio non finisce di far salire vertiginosamente il livello dei depositi bancari e nel consumo dei beni durevoli (auto, elettrodomestici, ecc.) si continua a registrare una solida tendenza ascendente;

- la crisi di efficienza delle strutture di politica sociale non cessa di alimentare mercati privati di servizi primari, all'interno dei quali il «gusto» della personalizzazione delle risposte sociali sem­bra prevalere sul «disgusto» della mancata ga­ranzia pubblica e della conseguente pesante mo­netizzazione delle prestazioni;

- nel mercato del lavoro a fronte di 1.580.000 lavoratori disoccupati, si registrano continui ri­fiuti di giovani alle chiamate della 285 e si stima una presenza di lavoratori stranieri certamente non inferiore al mezzo milione di unità, impiegati in settori di lavoro che non riescono a reclutare manodopera nostrana per motivi di disaffezione socio-culturale più che di bassa rimunerazione.

 

La povertà sommersa

Eppure la «povertà» serpeggia pericolosamen­te tra le fitte maglie della nostra società, anche se alcuni dei suoi acuti più drammatici (il male oscuro di Napoli, la mancanza di acqua in Sicilia, i sette suicidi di anziani in 10 giorni in Maremma, ecc.) sorprendono quasi infastidiscono, comun­que ci colgono tutti impreparati ed increduli.

Si tratta anche qui di una «povertà sommer­sa», per riprendere un aggettivo assai di moda oggi in Italia. La qualifica di «sommerso», infatti, ben esemplifica la natura dei fenomeni in una società ad alto tasso di complessità, ma nel caso specifico della povertà questa connotazione as­sume una rilevanza tutta particolare, tale cioè da rappresentare, come vedremo, una componente essenziale del fenomeno stesso con effetti sia di induzione che di moltiplicazione.

È come, cioè, se la povertà fosse tale soprat­tutto quando è «sommersa» e tanto è maggiore quanto più rimane «sommersa».

Ma la povertà è anzitutto «sommersa» perché si è modificata la conformazione stessa del feno­meno. Ad una povertà di tipo essenzialmente ver­ticale, che colpiva gli strati inferiori di una pira­mide sociale ordinata sulla variabile del reddito economico, si è gradualmente sostituita una po­vertà di tipo orizzontale, con un allargamento ed una diversificazione dei possibili meccanismi di emarginazione.

La matrice di povertà non è più soltanto di carattere economico, ma sembra annidarsi in ogni ambito della vita sociale, insidiando e accomu­nando di fronte a certe carenze istituzionali (si pensi alla sanità, ai servizi sociali) e a certe crisi di identificazione (si pensi al malessere dei gio­vani, delle donne e degli anziani) ceti e classi sociali che pur hanno diversa capacità di reddito. Ne risulta allora che la povertà oggi non è più facilmente identificabile entro categorie rigide e sulla base di condizioni oggettive che si impon­gono alla semplice osservazione.

Se fino a qualche anno fa si era poveri quando non si aveva da mangiare, quando mancava il la­voro o quando si abitava in situazione precaria; oggi, pur persistendo con sconcertante dramma­ticità, come si è visto, alcune di queste situazioni limite, la povertà è però anche qualcosa di diver­so, di impalpabile; che si sente nell'aria ma non si riesce a definire; che si confonde con l'ango­scia e con la disperazione, con il disservizio o con l'assenza di servizi in una società che è pur perennemente afflitta dai mali della spesa sociale crescente e della terziarizzazione di tipo assi­stenziale.

Ma è possibile allora in questi casi parlare ancora di povertà? Il dibattito è molto serrato sul piano della concettualizzazione e le opposte scuole si fronteggiano con le definizioni di pau­perismo, di marginalità o di emarginazione, di precarietà, di alienazione.

Quanto a noi abbiamo deciso di ribadire in questa sede il concetto di «povertà» e non solo perché è quello che meno si colora di sfondi ideologici, ma perché in esso ci sembra che l'attenzione sia posta prioritariamente sulla con­dizione dell'uomo con i suoi bisogni in una sua fondata autonomia rispetto al sistema sociale qualsiasi esso sia nel tempo e nello spazio.

Se ci serviamo del termine di povertà per indi­care una situazione in cui viene a mancare una legittima e necessaria soddisfazione dei bisogni essenziali dell'uomo, è evidente, allora, come nel­la misura in cui si modifica la natura di questi bisogni, sono anche soggetti a cambiare i conte­nuti stessi della povertà.

 

Dalla povertà tradizionale a nuove forme di povertà

Alla povertà in senso tradizionale, fondata su basi strutturali di natura economica in quanto dipendenza dai bisogni materiali di prima neces­sità, si è così progressivamente affiancata nel tempo una natura nuova e diversa delle situa­zioni di povertà che sembrano affondare le sue radici più specificatamentte nel terreno socio­culturale e dei rapporti interpersonali, con intera­zioni minime e spesso insignificanti con la dimen­sione economica.

L'elevazione generale del tenore di vita; la forte spinta conflittuale dei movimenti sociali di stampo egualitario; l'estrema variegazione di risposte ai bisogni che la complessità del sistema è in grado di offrire; così come l'alto tasso di soggettività individuale e la capacità adattiva dell'operatore famiglia: sono alcuni degli elementi che hanno permesso di superare o comunque attenuare il condizionamento esclusivamente eco­nomico e materiale dei bisogni primari.

D'altra parte, gli effetti perversi di una logica di sviluppo industriale troppo totalizzante e la conseguente rigida compressione della «natura interna» del sistema hanno determinato un di­squilibrio tra «ruoli» e «status».

I rapporti sociali si sono rarefatti e perdono costantemente in profondità di scambio e di sen­so; l'affettività è contratta in mille secche di in­comprensioni tra le generazioni, di perdita di identità, di difficoltà di comunicazione, asimme­tria e diverso grado di soddisfazione delle espe­rienze esistenziali; la socializzazione si vanifica per l'insopportabile disproporzione tra la ricchez­za degli stimoli e delle opportunità e la scarsità assoluta di obiettivi individuali e collettivi verso cui indirizzare coerentemente i processi di ap­prendimento; i ritmi di vita e le sollecitazioni esterne di ogni tipo scandiscono così intensa­mente la nostra vita quotidiana da erodere sem­pre maggior tempo alla riflessione, la concentra­zione, l'identificazione individuale.

Sono di fatto aumentate le richieste da parte della società di «ruoli» funzionali ad un modello così polarizzante come quello industriale ed è parallelamente venuta meno la possibilità e quin­di la capacità dei singoli e dei gruppi sociali pri­mari di incidere sulla realtà sociale attraverso la ricchezza degli «status» individuali.

È probabilmente questo allora uno dei nodi principali di quelle che abbiamo definito le «po­vertà post-materialistiche», quelle povertà che interessano i giovani, le donne, gli anziani e quan­ti altri oggi soffrono la carenza di quei rapporti sociali indispensabili alla propria identificazione di «status».

Certo è che le tensioni sociali sono prepoten­temente esplose proprio in quelle aree di politica sociale - come la scuola, la sanità e i servizi sociali, la casa e il territorio - dove vi è un forte coinvolgimento di rapporti sociali.

Questa conflittualità di tipo nuovo rispetto ai tradizionali conflitti tra lavoratori e datori di la­voro sono allora sintomo di un diverso tipo di povertà che può colpire qualsiasi membro della collettività e che ha come soggetto interlocutore l'istituzione e la sua incapacità a dare risposte valide ai bisogni sociali.

Alle vecchie «povertà assolute» di tipo mate­riale ed alle «povertà post-materialistiche» viene così ad affiancarsi un terzo livella di povertà che abbiamo indicato come «nuove povertà».

Queste «nuove povertà» di tipo istituzionale hanno a loro volta diverse sfaccettature che pos­sono andare dall'assoluta mancanza del servizio, all'inefficienza del personale preposto alla gestio­ne, all'inadeguatezza rispetto alla natura dei bi­sogni del modello di organizzazione e delle pre­stazioni previste dal servizio medesimo.

Senza contare, infine, che la tendenza alla pri­vatizzazione dei servizi scolastici e sociali rein­troduce una categoria economica in queste po­vertà di tipo istituzionale, provocando una nuova frattura all'interno della formazione sociale tra gruppi sociali che possono monetizzare i servizi e gruppi sociali che non possiedono questa capa­cità di reddito.

 

La povertà diffusa

L'immagine della povertà non ha più quindi con­torni ben definiti: essa è meno specifica ed og­gettivabile, ma più diffusa e difficilmente quanti­ficabile; si manifesta in maniera estemporanea con degli eccessi deflagranti, ma è disseminata nelle sacche interne dell'intero sistema sociale appesantendolo e rendendone incerta ed inadat­tabile la navigazione.

È una povertà «composita», dove i tre livelli che abbiamo considerato della dimensione eco­nomica (povertà assolute di tipo tradizionale), della dimensione istituzionale (nuove povertà) e della dimensione umana (povertà post-materiali­stiche) si intrecciano e convivono nello stesso quartiere delle grosse città metropolitane, realiz­zando un sincronismo perverso di civiltà diverse, che vanno dai modelli di arrangiamento tipici di una società pre-industriale, alle povertà di lavoro del modello industriale, fino alle forme di auto­espulsione ed angoscia che sono prodotto della civiltà post-industriale.

Ne risulta una formazione sociale in cui i rife­rimenti di classe sono sempre più contraddittori ed indefinibili, dove i gruppi sociali si articolano e disarticolano a seconda della momentanea fun­zione sociale, dove si frantumano le basi stesse di una solidarietà collettiva per scadere nel cor­porativismo di maniera e nell'egoismo particola­ristico di salvezza.

Gli individui si aggregano e si disaggregano, a seconda del momento di partecipazione sociale, ora per interessi economici, ora per interessi isti­tuzionali, ora tenuti insieme dall'angoscia col­lettiva della crisi di valori, di certezze e di rife­rimenti di sviluppo che caratterizza questa nostra epoca.

In questo senso allora la povertà è più orizzon­tale che verticale, più sommersa che manifesta, in agguato in ogni momento della vita quotidiana, difficile da scoprire, da capire, quindi da guarire.

 

La povertà negata

Ma vi è un secondo aspetto del carattere som­merso della povertà sul quale vale la pena di sof­fermarsi.

Le società fortemente industrializzate come la nostra si caratterizzano principalmente per il ruo­lo determinante che in essa assumono i canali di comunicazione di massa - dalla radio, alla tele­visione, alla stampa, alla mobilità territoriale ed all'informazione - che determinano una massic­cia esposizione passiva della comunità ad un flusso inarrestabile di informazioni.

È il caso allora di chiedersi quali possano es­sere le conseguenze di questa esposizione pas­siva ai mass-media in relazione alle condizioni di povertà, in una situazione storica in cui il princi­pio dell'uguaglianza sociale sembra entrato ormai stabilmente a far parte delle coscienze collettive.

La sensazione più immediata che se ne ha è che i mezzi di informazione costituiscano uno strumento utile, se non indispensabile, per la conoscenza e quindi il superamento delle povertà che ancora sono presenti nella nostra società.

Eppure le cose non sembrano andare proprio in questo modo. L'intensificazione dei mass-media di ogni tipo, infatti, produce sì una trasparenza delle condizioni di vita dei singoli gruppi sociali di una collettività, ma con l'effetto di spostare costantemente verso l'alto le aspirazioni all'ugua­glianza che vengono percepite come legittime.

Il principio ineccepibile dell'uguaglianza sociale determina cioè una genesi delle aspirazioni for­temente condizionata verso la conquista di mo­delli di comportamento e livelli di soddisfazione sempre più elevati all'interno dell'orizzonte delle condizioni esistenziali dei diversi gruppi sociali offerto dai mass-media.

A ciò va ad aggiungersi quello che è stato agli inizi degli anni '60 il mito della società del benes­sere, con la fede cieca nella capacità risolutrice del modello capitalistico-keinesiano e la conse­guente spinta al consumismo ed a livelli illimitati di soddisfazione.

Le situazioni di precarietà e di povertà vengono così di fatto «censurate» dalla scala delle per­cezioni e degli atteggiamenti individuali e collet­tivi e l'intera formazione sociale persegue, con livelli diversi di coscienza, una esilarante «esca­lation» verso la società del benessere uguale per tutti: nasce così il meccanismo di «slittamento verso l'alto delle aspirazioni».

Da questo meccanismo derivano allora effetti di diversa natura ai fini della «sommersione» del fenomeno povertà:

- si guarda tutti avanti verso l'alto, preoccu­pati di raggiungere uguaglianza con chi è sopra di noi, e nessuno guarda indietro verso il basso, con la conseguenza che globalmente il sistema sociale ha una scarsa accumulazione di cono­scenza rispetto ai propri poveri;

- si sostituisce via via alla coscienza della povertà, l'ansia delle condizioni migliori e ci si priva di fatto degli strumenti indispensabili per gestire le proprie povertà che come abbiamo visto sono diversificate, nascoste, al limite igno­rate;

- le povertà sono di cattivo gusto, fanno paura, sono corpi estranei in un sistema sociale in cui vige una ideologia del benessere e quindi un imperativo del benessere;

- sulle povertà si stende, così, un velo silen­zioso, come sulla morte, sulle malattie, meglio non parlarne;

- le povertà fanno notizia, ma non mobilitano; sono troppo dolorose, non possiamo sopportarle, vengono di fatto «cancellate» dalle coscienze individuali;

- le povertà sono inattese, quindi disattese dall'intervento politico-istituzionale e dalla soli­darietà della società civile.

La nostra è quindi una «povertà negata» per l'inconsistenza degli sforzi orientati a conoscerne la natura, l'entità ed i meccanismi di genesi; per l'incapacità sostanziale della nostra emotività, della nostra solidarietà e della nostra cultura di vivere con i nostri poveri e di riconoscere le nostre povertà.

 

La società contro i poveri

Ecco allora che, se indubbiamente oggi è forte­mente diminuito il tasso complessivo di povertà nel nostro paese, d'altra parte la povertà ha as­sunto anche nuove immagini ed esistono all'inter­no della nostra società dei meccanismi di espul­sione della povertà non già a livello di interventi politici ed istituzionali, quanto piuttosto a livello di percezione e conoscenza del fenomeno.

L'effetto perverso della trasparenza sociale unita all'ideologia del benessere sarebbe quello di tendere alla negazione delle situazioni di po­vertà. Ciò determina allora conseguenze dram­matiche anzitutto per coloro che soffrono di po­vertà assolute di tipo materiale, ai quali viene del tutto a mancare ogni sede di ascolto e conside­razione dei propri problemi.

Ma l'intero sistema sociale finisce per essere colpito dalla scarsa conoscenza delle situazioni di povertà e dallo slittamento verso l'alto delle aspirazioni. Ognuno di noi vive al di sopra dei propri mezzi, con modelli di comportamento ed obiettivi ottimali che non solo non sempre sono alla nostra portata, ma che spesso non esistono in nessuna situazione concreta.

E quando allora ci si trova di fronte alla frattura tra desiderio e realtà l'angoscia è totale poiché manca ogni strumento di difesa e si ha una im­perfetta percezione dei margini reali dei bisogni da soddisfare. Nasce così la propensione a scam­biare i bisogni fittizi per i bisogni reali e ci si abbandona a comportamenti di compensazione, quando non si arriva a razionalizzare una appro­priazione selvaggia dei beni ritenuti indispen­sabili.

Una «società contro i poveri», dove della po­vertà parlano episodicamente le notizie esplosive e poi degli aridi dati statistici, come alcuni di quelli che riportiamo in questo nostro sondaggio.

Una società destinata a perdere ogni legame di solidarietà e restare «bloccata» su procedure e concezioni private dell'uguaglianza sociale, se continua a non interrogarsi mai sui propri poveri e a non essere né interessata né motivata ad individuare i meccanismi che determinano le nuove povertà orizzontali.

Una società fatalmente orientata verso un au­mento costante del suo tasso globale di povertà, se non si interviene in tempo sulle nuove povertà orizzontali e sulle povertà post-materialistiche che costantemente sottraggono senso e prospet­tiva allo sviluppo sociale.

 

 

(1) Considerazioni conclusive tratte dal n. 316-317, 1979 del «Quindicinale di note e commenti» del CENSIS.

 

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