PROSPETTIVE ASSISTENZIALI   N. 49 bis     marzo 1980

 

 

COMUNICAZIONE di Marino Peruzza (U.L.C.E.S. di Venezia)

 

 

Questa comunicazione, che tiene conto degli elementi emersi dal dibattito in corso a Venezia fra alcuni operatori e forze di base, lungi dal voler codificare ed imporre precisi modelli di intervento, vuole essere un pretesto per l'allar­gamento di dibattiti e l'approfondimento dei nu­merosi aspetti dell'assistenza agli anziani.

Quindi le riflessioni in essa contenute sono aperte a tali contributi e suscettibili di modifiche.

 

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Fra le numerose forme di degradazione e di perdita di ruolo alle quali sembra essere inevi­tabilmente soggetto l'anziano, spiccano per la loro evidenza immediata, per l'apparente irrepa­rabilità e per la frequente progressività, i vari volti della decadenza psico-fisica.

Eppure, a ben osservare, diversa ne è l'appa­renza e anche la effettiva incidenza fra persona e persona.

È questo dato puramente casuale oppure esi­stono dei modi per influenzare, in positivo o in negativo, il processo di invecchiamento e le ma­lattie che abitualmente vi si accompagnano?

Possiamo sospettarlo, con ottime ragioni, quan­do osserviamo come differiscono le medie di mortalità e di morbilità secondo la classe di ap­partenenza, la professione esercitata, le abitudini e gli ambienti di vita.

Oppure quanto distanti appaiano le capacità, anche psico-fisiche, di autonomia nei diversi stra­ti sociali e come, in quello a reddito più elevato, la vita delle persone anziane si dimostra più ricca di possibilità e di ruoli da esercitare con soddisfazione. Ciò dipende in buona parte dalle opportunità socio-economiche ma anche, in mi­sura tutt'altro che trascurabile, dalle condizioni di autonomia materiale e ancor più spirituale che consentono la possibilità di evitare le più pesanti nocività, di godere cure più pronte ed adeguate, di prevenire o di riabilitare le eventuali infermità.

A differenza dell'handicappato, l'anziano non è portatore di bisogni diversi da quelli normali ma di una generica diminuzione di capacità fisica, caratteristica dell'età, e di una specifica patolo­gia attuale o potenziale la quale crea i bisogni particolari, in gran parte di tipo sanitario.

L'emarginazione dell'anziano, in quanto sogget­to non più capace di produzione va combattuta con armi adeguate. Una fra queste è un'equa di­stribuzione, nel corso della vita e della giornata, dei tempi dedicati al lavoro, allo studio e alla ricreazione.

Ciò significa rivedere molte convinzioni e ri­strutturare radicate abitudini, particolarmente per evitare lo sfruttamento dell'anziano (e di ogni altro) come consumatore. A questo riguardo si fanno invece spesso capziose distinzioni, in­coraggiando o almeno tollerando i consumi su­perflui e, molto spesso, dannosi in nome di una presunta libertà (quella degli sfruttatori di sotto­mettere la collettività ad irrazionali e nocivi im­pulsi, stimolati dalla pubblicità diretta o indi­retta).

Si usa, d'altro canto, criticare i consumi sani­tari in modo indiscriminato.

Quando sentiamo parlare di eccesso di speda­lizzazione, di medicalizzazione, di abuso del far­maco non possiamo che condividere l'idea che è molto meglio non stare in ospedale, non aver bisogno del medico, non usare farmaci se si sta bene o quanto meno non usarli a sproposito.

Le condizioni di salute dell'anziano però rara­mente sono così buone da offrire simili splendide opportunità.

Non è allora possibile ritenere che la campa­gna contro la medicalizzazione non sia, almeno in una certa misura, che una delle tante spregiu­dicate campagne pubblicitarie per la promozione di una merce al posto di un'altra? Ne abbiamo le prove dai risultati pratici delle recenti discussio­ni sui farmaci in Italia che hanno portato scarsis­simi risultati positivi e un complessivo, pesante aumento della spesa sia da parte della colletti­vità che, mediante il famigerato ticket, da parte di singoli, con l'unico sicuro effetto di un aumen­to del fatturato delle internazionali farmaceutiche che ne hanno, tra l'altro, approfittato per liqui­dare la minuta concorrenza.

Ancora, quando esprimiamo delle critiche al modo autoritario e a senso unico di gestire la medicina, ci preoccupiamo a sufficienza di un modello alternativo che sia efficace e realistico? Che parta cioè da una seria valutazione dei biso­gni, nella loro complessità, e che sia capace di utilizzare in modo completo e utile le attuali co­noscenze scientifiche? E di promuoverne di più avanzate, finalizzate ad obiettivi socialmente po­sitivi?

Altrimenti si approda alla triste condizione di oggi che vede gli anziani espulsi dall'ospedale, per andare nella casa di riposo, che funge da ospedale di seconda categoria, e per di più spes­so a pagamento, oppure, nel caso migliore di salute, usufruire di un'assistenza sanitaria sca­dente e distratta ed essere costretti a ricorrere alla pratica professionale privata.

Ciò non porta ad altro risultato che favorire le imprese private rispetto a quelle pubbliche, ag­gravando le già precarie condizioni economiche e fisiche degli anziani.

Fermo restando il punto critico di partenza, è invece necessaria una proposta alternativa che non sia meramente esortativa o utopistica.

L'unità dell'atto assistenziale, la sua integrità, anche e non solo professionale, traggono alimen­to non da una genericità di rapporto ma dalla sua specificità, dalla capacità cioè di essere e non di avere, di rappresentare quindi un valore non di puro scambio, simbolico e di lucro, ma di uso reale.

Nel primo caso, al contrario, si rimane fermi alla vecchia concezione paternalistica: mediante una buona parola o un generico aiuto, chi esibi­sce la propria sofferenza o rivendica il proprio diritto viene tacitato e invitato a rientrare nel­l'ordine, nel secondo si esplica la volontà e, se possibile, la capacità, di dare ad ogni bisogno una risposta efficace, se non nell'immediato, al­meno come programma di ricerca e di lotta.

Questi concetti si oppongono alle idee preval­se per un certo tempo in alcuni ambienti demo­cratici e che, per il loro provenire da una matrice profondamente diffidente nei confronti della scienza, pur ammantandosi di parole d'ordine progressiste, si sono rivelate, nella realtà, con­servatrici, spesso addirittura reazionarie.

Tra le più banali e dannose di queste teorie spicca la negazione della geriatria, come effetto del radicale e preconcetto disconoscimento della realtà umana della vecchiaia, alla quale si è pre­ferito sostituire uno stereotipo, tanto falso quan­to attraente, scotomizzando così l'idea del pe­sante futuro che ci attende tutti, come candidati all'anzianità e come membri della società, in as­senza di iniziative adeguate.

La realtà, purtroppo, non é fatta di bei vecchiet­ti, lindi e simpatici, divisi tra la pratica del golf e la frequenza ai concerti e alle mostre d'arte, ma di dolore, di miseria, di strazio corporale e mentale, delle terribili, umilianti cicatrici con cui il brutale sfruttamento capitalistico e la abietta distorsione dei consumi, segnano irrimediabil­mente i vecchi di oggi e dell'immediato domani.

Certamente oggi ci si pone, per ora teorica­mente, il problema della prevenzione. Se le lotte sociali riusciranno a trasformare l'assetto pro­duttivo e l'assistenza sanitaria, tra 50-100 anni è possibile prevedere una vecchiaia diversa e per questo obiettivo mi auguro che ci batteremo con l'accanimento necessario.

Per ora dunque la prospettiva concreta dell'an­ziano è la malattia.

Chi nega questa evidenza non discute seria­mente oppure ha la lucida consapevolezza che affrontando questo tema si apre un problema condizionato a molte esigenze che non si voglio­no soddisfare, di contraddizioni laceranti che si teme di affrontare.

Quali sono allora gli obiettivi possibili che ne derivano?

Il primo e il più importante fra questi è il man­tenimento dell'autosufficienza dell'anziano.

Se si vuole evitarne l'emarginazione (nella casa di riposo, nel reparto-lager o agli arresti domiciliari) è necessario che egli conservi mar­gini sufficienti di autonomia, economia, fisica e mentale.

Altri si occupano dei problemi economico­sociali; per quelli fisici e mentali è indispensa­bile ricorrere ad un riscontro obiettivo e ad un intervento professionale adeguato.

Ciò non vuol dire affatto concedere una delega a specialisti non controllati e non controllabili, confermando ad essi il dispotico potere, che og­gi è di fatto esercitato dal medico della mutua o dal generico ospedaliero, il quale preferisce il paziente giovane e il «caso interessante» e la­scia l'anziano marcire nei propri escrementi, esi­gendone l'allontanamento verso la casa di riposo o anche il ritorno a casa: «tanto non c'è nulla da fare».

In effetti l'aberrante atteggiamento di rifiuto della geriatria è stato spesso convincente in quanto si trattava per lo più di una falsa geria­tria, di un mezzo clientelare per dare un prima­riato di seconda categoria ad un generico un po' più incapace di altri.

La principale verifica di un geriatra responsa­bile, per difendere gli angusti limiti di autosuffi­cienza dell'anziano malato senza opprimere in modo intollerabile i suoi familiari, si saggia sul terreno della prevenzione, anche secondaria o terziaria e della scrupolosa valutazione se nelle condizioni del paziente esistono possibilità di evoluzione, margini di recupero, attuando un programma riabilitativo che consideri come va­lore principale la capacità di rapporti sociali po­sitivi.

Si scopre, allora, non come ipotesi teorica o come esigenza moralistica, il valore della parte­cipazione.

Per primo è l'anziano stesso che deve sapere i motivi della sofferenza, i mezzi per alleviarla, condividere le cure e le altre iniziative, condotte molto meglio con le regole di vita che con i far­maci; si tratta, con un consapevole sforzo comu­ne, di liquidare annose, sbagliate convinzioni e di comprendere e di gestire razionalmente la propria realtà biologica.

I familiari devono discutere, capire e collabo­rare con controlli ed interventi, supplendo a ciò che l'anziano non può, aiutandolo in un nuovo modo di vita, attuando contemporaneamente una più precoce prevenzione per se stessi.

Così il problema diventa di tutta la comunità che partecipa in vario modo e che deve assumere su di sé l'impegno di una assistenza difficile ed onerosa sia nel senso organizzativo che finan­ziario.

La partecipazione - per avere tutto il neces­sario contenuto di informazione reciproca, in gra­do di vivificare il rapporto tra collettività ed operatori e di svolgere una efficace e costante funzione di direzione politica - non può quindi avvenire come mero dibattito teorico, ancor peg­gio se formalistico o fazioso, ma esplicare una propria consistenza corporea nell'essere mate­rialmente presente nelle varie attività e nei luo­ghi dove esse si svolgono.

È questo tipo di partecipazione e di presenza che realizza nell'Unità locale ogni servizio in rap­porto ad ogni bisogno, radicata come è nell'am­biente e in tutti i soggetti.

In questa corretta prospettiva devono essere situate le giuste critiche sollevate da molti, me­dici e non, contro le numerose strumentalizza­zioni perpetrate dalla medicina ufficiale, la quale obbedisce, com'è risaputo, al comando capitali­stico.

Sembra di dire una cosa ovvia, anche se spes­so ci si imbatte in curiosi e dannosi equivoci, ripetendo che, come non esiste una scienza neu­trale, al di sopra delle parti, così non esiste scienza buona o scienza cattiva ma un uso che della scienza si fa e che noi chiamiamo buono 0 cattivo a seconda se tende agli obiettivi che con­dividiamo o meno.

In ogni caso questi obiettivi non basta indi­carli ma bisogna raggiungerli; o per lo meno fare di tutto per raggiungerli.

Francamente l'impressione, in questo momen­to, è che, nello sforzo riformatore si siano com­messi errori di prospettiva, perdendo di vista gli oggetti e i soggetti del rinnovamento e la cor­retta metodologia di intervento, facendo più spes­so questioni di principio che di fatto.

Il verificarsi di questi errori, per quanto, presu­mibilmente, almeno in parte inevitabili, ha reso più incerto il quadro della riforma, ne ha ritardato il cammino e, quel che più conta, ha scosso pro­fondamente la fiducia di molti operatori demo­cratici e, ancor più grave, delle masse sulle cui forze solo può appoggiare la lotta per la sua rea­lizzazione.

Ho già affermato di essere convinto che la critica alla geriatria, come si è realizzata in Italia, ha fondatissime ragioni quando non si è ravvisata in essa che una brutta copia della medicina in­terna e si è mostrato un evidente disinteresse (o una strumentalizzazione?) per quegli elementi qualificanti che dovrebbero caratterizzarla: l'at­tenzione ai fenomeni sociali e psicologici, il pri­vilegio della prevenzione e della riabilitazione, la continuità e l'unità dell'intervento.

Si deve però evitare di gettare il bambino con l'acqua sporca.

I bisogni insoddisfatti rimangono.

D'altra parte sopravvive anche la medicina in­terna, nella sua genericità e nella sua incompe­tenza, come unica risorsa e tende, in questa si­tuazione di privilegio per esclusione, ad accen­tuare tanto i criteri di medicalizzazione dispotica, quanto le spinte all'istituzionalizzazione, senza alternative praticabili.

Alla genericità vogliamo oggi contrapporre un concetto nuovo di globalità.

In essa devono sommarsi specificità di compe­tenza ed unità nell'intervento che devono essere perseguite con tenacia per una realizzazione efficace della geriatria, in quanto effettivamente ca­pace di soddisfare almeno í più importanti biso­gni degli anziani.

Essa, insomma, come tutti i settori «nuovi» della medicina (psichiatria, droga, consultorio), si caratterizza per essere sempre meno medicina in senso chiuso e per realizzarsi invece in senso forte, ricco di contributi confluenti, esplicito nel rifiuto della chiusura nell'istituzione - che, oltre agli altri difetti ben noti, dimostra un palese ten­tativo di celare l'insuccesso terapeutico - im­mersa nel sociale, da cui trae linfa morale ma anche tecnica, che esige la convergenza delle nozioni e delle esperienze e, come elemento del suo divenire culturale e operativo, per tutto que­sto nega la rigidità della forma, l'immutabilità della dottrina, il vincolo della gerarchia, ma al tempo stesso, trae da queste diversità, anche contraddittorie, l'esigenza metodologica di coe­rente unità.

Unità nel gruppo di lavoro, capace di accoglie­re in sé, senza stratificazioni gerarchiche, com­petenze molto diverse e complementari, mediche e non mediche, non come semplice somma di consulenze ma come interazione e potenziamento di attività e di idee.

Unità nella prevenzione, cura e riabilitazione, al fine di non creare stacchi e incomprensioni che ne rendano impossibile la realizzazione.

Unità dei momenti di cura e di assistenza: dal­le terapie intensive, alle normali degenze, dal day-hospital alla comunità protetta e al reparto per cronici.

Unità fra momenti assistenziali di tipo terapeu­tico e di tipo sociale.

Unità dell'assistenza, della ricerca, dell'educa­zione sanitaria e della formazione professionale permanente, che avvengano in un rapporto di continuo scambio e di reciproco controllo, ai fini, anche, di realizzare un qualificato strumento per la partecipazione.

Questo sforzo unificante non può che sconvol­gere l'attuale assetto, caratterizzato da una tra­dizionale separatezza la quale, consentendo la deresponsabilizzazione reciproca degli operatori, funge da potente mezzo di emarginazione.

Richiede pertanto un radicale cambiamento del­le prerogative della divisione ospedaliera che dev'essere trasformata e trasfusa nel dipartimen­to, non con un semplice cambio di etichetta, ma modificando la propria struttura in ogni sua arti­colazione; richiede anche, d'altronde, il supera­mento delle tradizionali forme di assistenza ge­nerica e specialistica di tipo «mutualistico» e ancora, l'integrazione di ciò che rimane della casa di riposo e di ciò che deve essere realizzato di nuovo (ambulatorio geriatrico, day-hospital, as­sistenza domiciliare) in un'unica organizzazione flessibile, all'interno della quale si verifichi una mobilità permanente degli operatori secondo cri­teri di competenza e di utilità e non di gerarchia o di diritto acquisito.

Questo è un quadro piuttosto ambizioso, tanto che qualcuno può considerarlo velleitario. Risponde tuttavia a precise esigenze operative, commisurate alle effettive e notevoli necessità della popolazione anziana ed è quindi l'unico ca­pace di adattarsi, sulla base dell'esperienza e delle opinioni degli utenti e degli operatori, alle esigenze che via via si manifestano, a causa della sua versatilità e della sua plasticità.

L'Unità locale - che sta per nascere - è in grado di recepire e di gestire almeno un em­brione di questa ipotesi, da cui solamente, al tempo stesso, può trarre quelle spinte allo svi­luppo che le consentano di essere la cellula viva di un nuovo tessuto assistenziale, funzionante in sintonia con i bisogni delle masse e, nel nostro caso, dei vecchi e non un ulteriore mostro buro­cratico come alcuni funesti segni fanno temere.

Quindi limitarsi a discuterne teoricamente e trascurare l'occasione di oggi e i conseguenti impegni di lotta, vorrebbe significare una scon­fitta decisiva della medicina pubblica, delle pro­spettive di riforma, dei bisogni degli anziani e di tutta la comunità.

Si deve perciò concludere richiamando sinte­ticamente alcuni concetti espressi e avanzando alcune proposte di massima per trasformarle, dopo opportuna discussione, in battaglie opera­tive.

Per ribadire il concetto che l'anziano non va discriminato dagli altri sul piano del diritto all'assistenza sanitaria, è necessario evitare prete­stuose classificazioni in lungodegenti, cronici e così via, che non sono concetti né obiettivi né clinici, ma prevalentemente amministrativi.

La pratica del «progressive patient care» con­sente di poterne recuperare i vantaggi organiz­zativi senza esercitarne la violenza implicita, purché si rimanga fedeli alla visione unitaria espressa.

Per esercitare questo metodo nella sua pie­nezza si deve farne un obiettivo ubiquitario e per­manente, comprendendovi la medicina di base.

Il medico «mutualista» deve farsi carico degli anziani del quartiere: è uno dei suoi compiti fon­damentali, ma bisogna dargliene la possibilità.

Deve quindi essere motivato a farlo e poter usufruire da un lato del personale necessario alle cure domiciliari e dall'altro di consulenti geria­trici.

Questi devono risiedere nel poliambulatorio di settore, ma avere un'ampia disponibilità ad inter­venti domiciliari e a sostenere con i loro consigli il personale impiegato a domicilio.

Il poliambulatorio di settore dovrà essere ubi­cato nell'ospedale generale o avere stretti colle­gamenti funzionali con questo: solo così è possi­bile realizzare l'ampio scambio interprofessionale necessario, usare attrezzature anche sofisticate (intensivamente o sporadicamente secondo le necessità) e, ciò che più importa, consentire la osmosi territorio-ospedale, senza la quale si rea­lizza una prima spinta alla segregazione e alla deresponsabilizzazione.

Una sede particolarmente importante di questa osmosi può essere il day-hospital, quando riesca a realizzare quei trattamenti curativi o riabilita­tivi, protratti o ripetuti che sono così spesso necessari agli anziani evitando così, in positivo, il realizzarsi di necessità insopprimibili e legit­time di ricovero.

Poliambulatorio e day-hospital sono in grado di raggiungere i loro obiettivi assistenziali solo qua­lora possano funzionare «come un ospedale» nel senso di fornire tutte le possibilità di dia­gnosi e di cura che non richiedano degenze a causa dell'inabilità del paziente. In caso contrario ogni obiettivo di deospedalizzazione è puramente illusorio e demagogico.

Il trasferimento di funzioni sanitarie, più o me­no vicarianti, alle case di riposo è invece una prassi da criticare e abolire al più presto.

Mediante queste equivoche iniziative si cerca infatti di giustificarne la sopravvivenza e quindi la più condannabile, inutile e costosa forma di segregazione, realizzando inoltre una medicina di categoria inferiore che l'anziano o i suoi parenti sono costretti a pagare con i propri soldi.

Così non è per nulla opportuna l'istituzione di «case protette» o di analoghe istituzioni ambi­gue: è l'anziano come categoria che deve godere di un'adeguata protezione sanitaria, ovunque egli abbia la propria residenza. Il geriatra - del quale è necessario riconoscere e al tempo stesso esi­gere la preparazione specifica - deve essere a sua disposizione, senza limiti di sede che non siano dipendenti da esigenze operative, secondo modelli organizzativi i più ampi e flessibili.

Le strutture paraospedaliere protette sono sta­te caldeggiate da alcuni in base all'errata con­vinzione che esse fossero gestibili con minori oneri economici.

Questi conti sono fatti male o in mala fede. In pratica l'omogeneità delle spese fondamen­tali (manutenzione, retribuzione del personale, vitto, farmaci, ecc.) fa sì che ad eguale quantità e qualità di prestazione corrispondano costi uguali.

La differenza se mai è sensibile solo perché sui bilanci delle strutture non ospedaliere non pesano le attrezzature e i servizi più avanzati e più laboriosi.

In una organizzazione unitaria dei servizi sani­tari, anche queste attrezzature, lungi dal restare inoperose per molte ore al giorno e dall'essere utilizzate in modo discriminante, possono venire utilizzate - con frequenza ed intensità diverse - per tutti, suddividendo i costi e, meglio anco­ra, ammortizzando in modo più razionale le spese di impianto e di gestione e contribuendo ad evi­tare che l'obsolescenza tecnologica costringa a sostituire anzi tempo strumenti sfruttati in modo insufficiente.

In ogni caso una razionale ed elastica organiz­zazione dei servizi è in grado di ottenere il mas­simo di risultati dalle risorse disponibili.

L'attuale separazione divisionale fra servizi di­versi ha prodotto il minimo di efficienza possibile con il massimo della spesa: questa contraddi­zione è destinata ad acuirsi se questa separa­zione verrà esasperata e lo possiamo capire me­glio sostituendo all'ottica efficientistica la più corretta valutazione di efficacia rispetto all'obiet­tivo della difesa attiva della salute.

È perciò necessario pronunciarsi contro il man­tenimento degli ospedali monospecialistici di qualsiasi genere, contro le divisioni di geriatria, di lungodegenza, contro qualsiasi divisione di qualsiasi tipo e struttura, ma a favore del dipar­timento come organizzazione operativo-culturale integrata che attraversa orizzontalmente territo­rio e ospedale, rendendo questo non un'isola a se stante ma un luogo del territorio; contro an­che la casa di riposo se non come momento organizzativo transitorio a cui si ricorra il minimo indispensabile e come ripiego quando non si rie­sca a raggiungere il fine primario del manteni­mento dell'autosufficienza anche relativa dell'an­ziano nel suo ambiente naturale: ciò è possibile anche con pazienti gravemente e cronicamente sofferenti se i metodi di intervento sono applicati correttamente, come risulta dalla nostra pratica quotidiana.

In questo dipartimento lo specialista geriatra, al pari ed assieme ad altri specialisti, fornisce un intervento, particolarmente competente, all'an­ziano - come il pediatra lo fornisce al bambino, il cardiologo al cardiopatico - seguendolo con continuità, si trovi egli in condizioni di emergenza o sia ricoverato in strutture semiresidenziali, o in casa sua, lasciando agli operatori sociali le fun­zioni che loro spettano e collaborando con essi senza prevaricarli.

Come accenno finale è necessario ricordare la necessità di svincolare la formazione degli ope­ratori geriatrici dal monopolio soffocante dell'Università, la cui gestione formalistica e acca­demica è dominata solo dall'ideologia corpora­tiva, volta a creare e mantenere un centro di potere simile e separato dagli altri, attraverso il quale difendere ed amministrare con metodo feu­dale un sistema di feudi e di vassallaggi, usando come strumento, in questo caso, anche le per­sone anziane.

La formazione di tutto il personale, medico e paramedico, va invece realizzata con moderni strumenti e secondo concetti socialmente e cul­turalmente avanzati, sul campo, nel quotidiano confronto dialettico con gli altri operatori e, pri­ma di tutto, con la realtà umana di chi soffre e con gli obiettivi democraticamente assunti, in modo tale che la buona formazione coincida con i buoni risultati assistenziali e ne sia frutto.

Evitiamo quindi il rischio che convinti di bat­terci per una buona causa, si finisca per realiz­zare un guazzabuglio confuso da cui riemergano, nostro malgrado, le vecchie istituzioni, segregan­ti, i vecchi centri di potere, in una situazione resa più grave, se non altro, dal numero crescente degli anziani del prossimo futuro.

Non è necessario prevedere quali forme cama­leontiche potranno assumere le vecchie struttu­re, monospecialistiche in senso assistenziale e statiche in senso culturale, o discutere se una soluzione sia teoricamente o «ideologicamente» più valida, confrontandole ad un modello astratto - questo è il metodo rispettabile, ma non scien­tifico della logica scolastica - ciò che è indi­spensabile è decidere, senza equivoci, sugli obiettivi da raggiungere, porsi dei ragionevoli limiti di tempo, accettare con modestia e onestà intellettuale i contributi concreti, senza pregiu­dizi ideologici ma con criteri molto rigorosi nella verifica dei risultati effettivi, e dubitare sistema­ticamente e vagliare criticamente i metodi e le strutture impiegate: metodi e strutture organiz­zative perciò, se vogliono rispondere a criteri di verifica scientifica e democratica non possono essere predeterminati ma costantemente modifi­cabili, affinché i giudizi politici e culturali pos­sano tradursi non in meri esercizi verbali ma in strumenti immediatamente e dinamicamente ef­ficaci.

Doverosa conclusione delle idee sostenute con profonda convinzione è il fermo impegno a bat­tersi conseguentemente perché il popolo degli anziani, di cui ognuno di noi spera e al tempo stesso teme di far parte, ottenga, in modo non equivoco, quell'assistenza specifica, competente e polivalente cui ha diritto e ne possa essere il protagonista attivo e determinante.

 

 

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