Prospettive assistenziali, n. 50, aprile - giugno 1980

 

 

DALL'ISTITUTO ALL'AFFIDAMENTO FAMILIARE

 

 

Sono una ragazza di 26 anni, figlia di una ra­gazza madre, e quindi anche lei piena di pro­blemi.

Sono stata messa in collegio per poter andare a scuola; non ho mai saputo esattamente se mia madre non poteva o se non voleva tenermi con sé.

Prima di andare in collegio abitavo con mio nonno materno che mi voleva molto bene, e ri­cordo che ero una bambina felice, attorniata dall'affetto del nonno e delle zie.

Il primo collegio nel quale sono stata ospitata era a Torino, fondato dalla marchesa Giulia di Barolo, in via della Consolata 18, ed era diviso in due nel senso che c'erano da una parte le cosiddette «orfane» o meglio «figlie di n.n.» e dall'altra parte le educande - le figlie di si­gnori - per le quali i rispettivi genitori paga­vano una retta mensile, ed erano trattate da vere signore, non facevano le pulizie, avevano altri orari per andare a messa o per andare in cortile a giocare ed il sabato e la domenica andavano a casa. Il cortile era un grande rettangolo di cui tre quarti erano per loro e il pezzettino che re­stava era per noi che eravamo quasi il doppio.

Con me c'erano tante altre collegiali grandi e piccole, in tutto una cinquantina, alcune senza padre o madre, altre senza entrambi i genitori, insomma bambine messe al mondo ma non ac­cettate dai rispettivi genitori.

Quindi tra di noi c'era una certa solidarietà, però esistevano anche la gelosia, l'invidia, tanti piccoli dispetti, insomma tutte quelle piccolezze che possono esservi fra delle bambine che face­vano a gara per farsi vedere più buone e più brave agli occhi delle suore.

La giornata si svolgeva press'a poco così: al mattino la sveglia alle sei per andare a messa, ed era un obbligo; certo che per me allora la mes­sa non aveva affatto significato: avevo sei anni e ricordo che tutte le preghiere (messa compre­sa) erano in latino e quindi per me andare a messa consisteva nell'inginocchiarsi, alzarsi in piedi e sedersi per una bella mezz'ora; poi si tornava nelle nostre camerate e si facevano le pulizie delle varie stanze, si rifaceva il letto, e ricordo che se il letto non era ben fatto, con tutte le pieghe al posto giusto e con gli angoli del copriletto uguali, le suore ce lo disfacevano fin­ché non era perfetto perché il letto ben fatto era indice di ordine e di pulizia, se facevi bene il letto eri una bambina ordinata e giudiziosa, altri­menti eri una sciattona. C'erano delle mie com­pagne che il letto lo dovevano rifare come casti­go nell'ora di ricreazione e non scendevano in cortile per tutta l'ora.

Poi si andava a scuola, che era interna, e oltre a noi collegiali era frequentata anche da esterne e qui naturalmente per noi orfane era sempre motivo di umiliazione perché se per caso non sa­pevi la poesia o non riuscivi bene in matema­tica o in qualche altra materia eri molto mal vista da tutte e la maestra ci lasciava indietro, non ci aiutava nemmeno perché sembra che insieme all'appellativo di «orfane» ci fosse anche quello di «asine».

Ricordo che avevo una maestra in seconda ele­mentare che aveva un po' in simpatia noi orfa­nelle e ricordo un fatto un po' ridicolo che è successo a me: io avevo una calligrafia piuttosto incomprensibile e in più essendo veneta facevo molti errori di ortografia (infatti tutte le suore che ci guardavano dopo le ore di scuola ce l'ave­vano con me perché ero scarsa nei dettati nei riassunti e nelle altre materie letterarie e non facevo mai bene i compiti del doposcuola) ma un giorno iniziai un quaderno nuovo e mi imposi di scrivere il meglio possibile e senza errori; quel giorno a scuola facemmo un dettato ed io feci solo tre errori di ortografia e scrissi benino; la maestra, quasi commossa di questo mio improv­viso cambiamento, mi fece fare il giro intorno ai banchi per far vedere a tutte le mie compagne di scuola come ero diventata brava; ricordo ora che vissi questo episodio come un fatto assolu­tamente insolito strano curioso: tutte, educande ed esterne mi facevano complimenti e mi mette­vano in tasca caramelline e tutto questo solo perché una maestra ci considerava uguali alle altre.

Allora la scuola ci occupava quasi tutto il gior­no; si andava al mattino alle otto e mezzo, si usciva per il pranzo e poi si ritornava a scuola fino alla sera alle cinque. Erano le ore per me più brutte perché si doveva stare quasi tutto il giorno insieme ad altre bambine che ti critica­vano o perché non riuscivi bene a scuola o per la divisa che noi orfane portavamo - oh quanto odiavo quel grembiule nero! - e le educande e le esterne venivano a scuola con i loro vestiti e facevano a gara a chi aveva il vestitino più bel­lino, mentre noi sempre con quel grembiule ne­ro! (alla domenica bianco). Un giorno durante la ricreazione mi strappai il grembiulino ed allora la suora per punizione me lo fece rammendare e mi mandò a scuola in uno stato pietoso: ero pic­cola e non ero ancora capace a rammendare, così cucii lo strappo il meglio possibile ma era tal­mente grande e vistoso che venne fuori un di­sastro; ricordo che non volevo presentarmi alle compagne in quello stato e mi misi a piangere; mi vergognavo troppo conciata a quel modo e risposi pure in malo modo alla suora la quale mi mise pure in castigo e così dovetti stare un bel po' in ginocchio con le mani sotto le ginocchia; ma di questo non mi importava poi granché, la cosa peggiore era di andare a scuola vestita così sapendo che mi avrebbero riso dietro tutto il giorno e questo era per me una vera e propria umiliazione.

Oltre alla scuola ricordo altri momenti più o meno belli o brutti di quel collegio; momenti brutti come per esempio i funerali delle persone anziane che morivano a Torino allora; ricordo che indossavamo delle mantelle nere e poi si andava a cantare la messa funebre e si accompa­gnava la salma fino al cimitero e questo accadeva due o tre volte la settimana e noi bambine, sia d'inverno con il freddo, la pioggia o d'estate col sole, non c'era niente che ci fermasse; se moriva qualcuno in qualche ospizio l'accompagnamento al funerale era compito nostro. Un altro momen­to brutto per me era la domenica quando c'era la visita dei parenti. Ricordo che ci vestivamo bene, col grembiulino bianco, ci pulivamo le scar­pe belle lucide e poi aspettavamo i parenti.

Penso che per tutte noi quei momenti fossero momenti di panico, chissà se mi vengono a tro­vare..., ed eravamo tutte lì in attesa, ad aspettare che qualcuno si ricordasse di noi almeno alla do­menica.

Io ricordo di aver passato tante domeniche in attesa di qualcuno che non veniva; a volte veniva a trovarmi la mia madrina di cresima, a volte mia madre, però erano momenti strani perché io non sapevo mai cosa dire, come comportarmi; di un po' d'affetto non se ne parlava nemmeno o forse sì, però se c'era non me ne accorgevo, però la cosa più bella era quando se ne andavano i pa­renti; allora ci si riuniva tra noi compagne e ci raccontavamo quello che era successo e se qual­cuna era uscita ci raccontava dove era andata e cosa aveva fatto, e poi ci facevamo vedere le cose che ci portavano e a volte ci scambiavamo caramelle o i vari giocattoli.

I momenti belli che il collegio offriva erano le ricorrenze dei vari santi più importanti, come S. Giuseppe, oppure l'8 dicembre, festa della Madonna; si facevano delle feste in quei giorni, si mangiava bene, a volte ci davano il gelato e per noi erano salti di gioia, cose piccole che però per bambine come noi che non avevano mai niente sembravano delle cose bellissime. Un'al­tra grande festa era il giorno di S. Giulia: era una ricorrenza molto importante perché quel collegio era stato fondato dalla Marchesa Giulia di Barolo apposta per le orfanelle, che eravamo noi, anche soprannominate le «giuliette». In quel giorno due «educande», scelte dalle suore, due tra le più ricche, venivano vestite da Marchese e Mar­chesa di Barolo e andavamo tutto il giorno in giro così, a messa a pranzo a giocare. Comunque quella che avrebbe dovuto essere la nostra fe­sta diventava invece la «loro» festa e noi povere tapine ci accontentavamo delle briciole ma era­vamo lo stesso contente.

In questo collegio ci sono stata per cinque anni - il periodo della scuola elementare - però era un edificio molto vecchio e nel frattempo le suore si erano fatte costruire un altro edificio a Moncalieri di loro proprietà per cui le orfanelle non erano più ammesse perché lì tutte dovevano pagare una retta mensile, era un collegio privato. A me tutto sommato è andata bene, la mia assi­stente sociale era d'accordo nel pagare la retta e così ho potuto frequentare le scuole medie, ma tante altre mie compagne i cui genitori o parenti non potevano permettersi di pagare la retta han­no dovuto interrompere la scuola e questo a me è dispiaciuto molto perché non è giusto che sol­tanto le persone ricche potessero permettersi di continuare a studiare E tutto questo in fondo mi fa pensare che i collegi non servano molto alle persone bisognose; sei povera, non puoi permet­terti di pagare, allora resta povera e ignorante.

Gli anni trascorsi in collegio a Moncalieri sono stati piuttosto tranquilli, ero trattata come tutte le altre, qui eravamo tutte educande, a scuola or­mai andavo abbastanza bene, le suore erano ab­bastanza brave e ci trattavano bene però a me restava sempre un vuoto dentro; era il posto che avrebbe dovuto occupare l'affetto materno, que­sto le suore non me lo davano, anche se ero trattata bene.

I sabati e le domeniche li passavo sempre in collegio, ero diventata amica di tutte le suore, pure il prete del collegio mi trattava bene, però era tutta compassione, poverina non viene mai nessuno a prenderla... vieni, vieni con me che andiamo a pregare... queste frasi me le sentivo dire tutte le sante domeniche.

Oltre all'affetto di mia madre mi mancava pure la conoscenza del mondo esterno e quando alla fine della terza media il marito di mia madre è venuto a prendermi (secondo lui avevo studiato già anche troppo, sarei diventata troppo intelli­gente se avessi continuato) mi dispiacque molto, volevo continuare, fare il liceo scientifico; andavo molto bene in matematica e le suore erano d'accordo con me e penso che avrei potuto an­che continuare se non fosse stato appunto che mia madre nel frattempo si era sposata. Come ho già detto non conoscevo affatto il mondo esterno, sempre vissuta chiusa tra quattro mura, mi fidavo di tutto e di tutti, non credevo che nelle persone esistesse il male, no, per me tutti erano buoni, come le suore per esempio. Invece ho dovuto constatare di persona che purtroppo non è così; negli anni vissuti con mia madre e suo marito ne ho subite di tutti i colori, perché ero molto, ma molto, ingenua. Appena uscita di col­legio mia madre mi ha mandata a lavorare in una bettola, proprio il posto meno adatto per una persona come me (mezza suora). In quell'ambien­te ho veramente sofferto, è stato il periodo più brutto della mia vita, sentivo tutto il giorno solo sempre bestemmiare e parolacce; io mi sentivo un pesce fuor d'acqua, uomini che scherzavano pesantemente con me che, cretina, a volte cre­devo che fossero complimenti ed ero persin con­tenta, invece i fini di queste persone erano ben altri. Sono andata avanti per circa un anno, poi non ce l'ho più fatta e quando una signora anzia­na che trascorreva le vacanze estive in una casa vicina alla mia mi ha proposto di andare a lavo­rare da lei a Torino, l'ho fatto di corsa, senza neanche chiedere il permesso di mia madre alla quale del resto non importava nulla di me del mio lavoro del mio futuro. Anche qui è stato piutto­sto difficile e duro perché mi ritrovavo a Torino ma per me era una città sconosciuta, fuori da quelle mura protettive che erano state il collegio. Stare ad elencare tutte le mie peripezie sarebbe troppo lungo, comunque dopo vari lavori cercati sempre da me, sola senza poter mai contare su una persona amica, sempre incerta su tutte le decisioni da prendere, sempre con la paura di sbagliare, di passare dal male all'ancora peggio, con una insicurezza totale in me stessa, spesso e volentieri facevo cose che volevano gli altri senza nemmeno stare a pensare se a me andava bene, se faceva parte del mio modo di pensare, se mi serviva come esperienza per maturare, ad­dirittura senza neanche stare a pensare se ero d'accordo, a volte non mi andava proprio eppure lo facevo ugualmente, mi andava bene così pur­ché fossero gli altri a pensare e a decidere per me. Ero sbattuta un po' qua un po' là senza essere mai considerata e a me a volte andava bene così, a volte mi ribellavo...

Nel frattempo ero tornata a casa di mia madre ma anche qui le cose non erano cambiate, anzi. È finita che un giorno sono scappata di casa, non ne potevo più, avevo quasi diciannove anni, non ero ancora maggiorenne, ero ancora sotto la tu­tela dell'ONMI.

Ho abitato per una settimana con una assi­stente sociale la quale mi ha proposto l'inseri­mento in una famiglia. Io non sapevo che pesci pigliare: ho accettato pur di non tornare a casa di mia madre.

Sono venuta ad abitare con questa famiglia; subito mi sembrava di sognare, così completa­mente diversi, più aperti, persone che vivevano tranquillamente.

Però io avevo un mio passato, le mie idee e non accettavo alcune loro idee e non riuscivo a capire certi loro modi di comportarsi; io volevo essere sempre al centro dell'attenzione, non ac­cettavo mai uno sgarbo, e quindi pensavo che in fondo non mi volevano veramente bene. Inve­ce ero io che non capivo loro, che trattavano me e i loro figli allo stesso modo.

Pretendevo di più, ma forse perché in effetti io non sapevo cosa voleva dire vivere in una fa­miglia normale, ci sono dei momenti belli e mo­menti brutti, ma per il bene della famiglia biso­gna saperli affrontare.

Abitando con questa famiglia ho iniziato a vi­vere, ho acquistato fiducia negli altri, ho fatto diverse amicizie e ho conosciuto altre famiglie, anche loro coi loro problemi, ma sono problemi reali, di sentirsi qualcuno, di poter servire a qual­cosa e di essere utile.

Nel frattempo ho migliorato anche la mia po­sizione nel lavoro e ho così acquistato una certa fiducia in me e un certo equilibrio e ho miglio­rato sempre più il mio rapporto con la famiglia in cui mi sono inserita e dove abito tuttora. Certo non sono i miei veri genitori, però sono riusciti a fare in modo che io sia (e lo sono!) libera, indi­pendente, sapendo di poter contare sul loro ap­poggio in qualsiasi momento e situazione.

Per ora continuo a non considerare mia madre, perché non ho ancora accettato il fatto che mi abbia abbandonata e quindi non saprò mai come mi comporterò.

Ora però posso vivere serenamente, credendo in qualcuno.

GIULIANA

 

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