Prospettive assistenziali, n. 50, aprile - giugno 1980
HANDICAP E TERRITORIO:
UN’ESPERIENZA
CAFFARENA CLAUDIO, DELSEDIME ISABELLA,
MONTENEGRO TERESINA, NEGRI TIZIANA, PASTORE ANGELO (1)
Premessa
Nell'anno 1978 il Comune di Settimo torinese si inseriva con un proprio progetto nel piano di intervento
nei confronti degli handicappati ultraquattordicenni promosso dalla Regione
Piemonte (finanziato dalla CEE).
Tale progetto si articola in tre tipi di interventi:
- struttura diurna
socio-formativa;
- inserimenti nella formazione professionale;
- inserimenti lavorativi (normali, tirocini e
«pilotati»).
La globalità del progetto è scaturita da un lavoro precedente di censimento, analisi delle situazioni
ed interventi conoscitivi (domiciliari, individuali e collettivi utilizzando i
centri di incontro) che hanno posto le basi per la individuazione delle
risposte ritenute più idonee in relazione alle risorse a disposizione (è in
atto, a livello di Unità locale, l'avvio di un progetto che affronti
globalmente la problematica degli handicappati ultraquattordicenni).
Ci pare utile, in presenza
di una serie di iniziative (il piano regionale CEE, il progetto speciale sui
«gravissimi») che si collocano all'interno delle indicazioni che la Regione
Piemonte ha espresso sul problema dell'handicap (si veda la recente pubblicazione
regionale DPR 21) avviare un approfondito confronto tra le esperienze in atto.
L'articolo che segue è dedicato all'analisi dell'intervento
attuato attraverso la «struttura diurna socio-formativa» e si pone come
tentativo di una «lettura» dell'esperienza in atto da circa sette mesi, una
riflessione «dall'interno» del servizio. Certamente non è facile scrivere su una esperienza operativa di recente avvio (in atto
dall'ottobre '79), inserita in un progetto sperimentale, e che assorbe
quotidianamente le nostre forze nella gestione complessiva, dagli aspetti
materiali, alle problematiche di formazione e di relazione con i ragazzi, al
ripensamento critico e alla continua invenzione e programmazione.
D'altra parte ci pare utile lo sforzo di una, se pur iniziale, teorizzazione
sulla prassi quotidiana. La motivazione immediata deriva dal pregio particolare
dello scrivere che permette di ripensare a ciò che si
è attuato, prendendone minimamente le distanze, ed essendo costretti ad essere
più complessivi nella analisi di quanto non si faccia nella discussione
quotidiana di verifica dell'esperienza.
Un'ipotesi di fondo
La prassi quotidiana del nostro gruppo (2) si
articola dialetticamente ad ipotesi di fondo, che ne costituiscono il presupposto e che sono da
essa continuamente messe in discussione e riverificate.
La principale concerne la condizione stessa di
handicap (fisico, psichico, sensoriale). Tale condizione esprime uno stato
fondamentale di depauperizzazione, di solito a più
livelli interrelati tra loro: dal livello neurologico e motorio a quello della
comunicazione e dei rapporti interpersonali, dal livello delle esperienze
emotive ed affettive a quello delle esperienze di inserimento
nella vita sociale.
Dato emergente è come il grado ed il livello di
privazione vissuta dal l'handicappato, non siano stati e non siano inevitabili
e fatali, ma trovino bensì una motivazione in fatti
precisi. Di qui la convinzione che sussista, almeno
parzialmente, una reversibilità di queste privazioni e che permangano nei
ragazzi stessi numerose risorse da sviluppare.
Una tale ottica fa passare in secondo piano la
preoccupazione per una sofisticata e «scientifica»
classificazione basata sugli aspetti nosografici
dell'handicap (3), per proiettarci verso una più accurata e precisa
individuazione di tutti quegli aspetti (relazionali, comportamentali, potenzialità
residue) sui quali poter costruire, con gli utenti stessi, il loro «progetto di
vita».
In tal modo ci sembra scaturiscano elementi utili per
tutti coloro che sono coinvolti nell'intervento:
- il ragazzo sollecitato a divenire protagonista
della propria vita, delle proprie scelte;
- l'operatore, il quale è
orientato a preoccuparsi e a ricercare ciò che di positivo esiste nel ragazzo
con cui lavora: le sue potenzialità, le sue capacità, i suoi interessi; tutti
elementi sui quali poter contare in una prospettiva di crescita globale;
- la famiglia, troppo spesso legata
ad una visione «organicistica» e pessimistica
dell'handicap del proprio figlio.
La trasmissione delle scoperte che quotidianamente vengono
fatte nel lavoro con i ragazzi, possono introdurre elementi di maggiore
serenità in situazioni cariche di tensione.
Ovviamente tali osservazioni valgono come linea di
tendenza e come indicazione di metodo che, nella prassi, si cerca di seguire.
Nella realtà ci scontriamo con la nostra oggettiva difficoltà di leggere
fedelmente e di interpretare correttamente ciò che succede; con la incomprensione e la divergenza di obiettivi fra noi e le
famiglie; con le barriere che, in particolare in presenza di handicaps fisici, il contesto pone.
Note metodologiche
Proponiamo una lettura della realtà in cui ci siamo
trovati ad operare e dell'intervento che si è effettivamente fatto fino ad ora
su questa realtà.
Ciò a partire da una scelta
metodologica precisa, che è anche un modo particolare di vedere la relazione
che intercorre tra strumenti e obiettivi. Quindi due
considerazioni:
- per raggiungere certi obiettivi finali (inserimento,
autonomia piena, lavoro...) è opportuno lavorare per costruire delle tappe
evolutive intermedie nel ragazzo, nella relazione che riesce ad instaurare,
nelle capacità, nelle consapevolezze. Quindi è
necessario pensare ad un lavoro graduale e non ad esperimenti casuali ed improvvisati,
ideologicamente corretti ma perdenti nella pratica;
- d'altro lato, obiettivi o fini quali quelli sopraddetti non possono essere pensati come entità
separate o addirittura contrapposte agli strumenti, ai mezzi tentati per
raggiungerli. E solo se questi obiettivi si ritrovano tutti rispecchiati
dentro ogni momento di costruzione intermedia, se diventano principi di
fondo irrinunciabili allora effettivamente il pensare a momenti interme di
non significa giustificare una prassi arretrata con obiettivi (raggiunti chissà
quando) avanzatissimi. In conclusione quindi
individuiamo delle tappe di cambiamento e lavoriamo gradualmente per
raggiungerle. Queste non sono legate a una rigida
consequenzialità, i tempi sono a volte diversi e per alcuni ragazzi certe
tappe non saranno superate.
Ciò non viene però fatto
all'interno di una esperienza educativa chiusa fra quattro mura che aspetta
grandi cambiamenti nell'evoluzione dei ragazzi e nella ricettività del contesto
sociale per inserirsi nella vita normale, ma al contrario con la verifica
continua data dall'apertura, dalle quotidiane uscite e da tutti i momenti di
presenza sul territorio.
Servizio e territorio
Se l'intervento con gli handicappati è sempre stato
appannaggio di istituzioni segreganti (istituti,
laboratori protetti, corsi di formazione professionale speciali) la linea che
muove il servizio in cui lavoriamo è al contrario fortemente territoriale.
Non solo per l'orario diurno, per il contatto con le famiglie, per la collocazione nel Comune d'appartenenza, condizioni queste
necessarie ma non sufficienti per garantire una logica di territorio
effettiva.
Elemento caratterizzante del progetto è l'individuazione
del territorio, nelle sue istituzioni, nei suoi luoghi di aggregazione,
nella sua totalità, come luogo ove hanno origine problemi, disagi e
contraddizioni e dove pertanto questi vanno riportati ed affrontati.
In questa direzione la struttura socio-formativa si
articola pertanto con le altre forme di intervento
nei confronti degli handicappati ultraquattordicenni: gli «inserimenti al
lavoro» (attuati attraverso i contatti con il sindacato, l'Ufficio di
collocamento e le forze imprenditoriali) e gli inserimenti, con formule
diverse, nella scuola professionale ENAIP. Più specificamente, per i ragazzi
portatori di handicap che vengono alla struttura, non è la struttura il campo
fisico di collocazione, ma la città. La biblioteca diventa la sede naturale
dei momenti di scolarizzazione e di informazione, la
«chiamata pubblica al lavoro» è un appuntamento settimanale con le difficoltà
del mondo del lavoro, il centro d'incontro di quartiere articola i suoi
progetti per i giovani con quelli della struttura, l'utilizzo di piscina e
palestra pubbliche è un obiettivo che abbiamo raggiunto.
Ma prima ancora di queste cose vi è la chiara
decisione di non collocare all'interno della struttura nessun servizio già esistente
sul territorio, o che ivi possa essere creato (dalla
fisioterapia, alle visite mediche e specialistiche, alle proiezioni
cinematografiche). Questo è a nostro parere, uno dei modi in cui invece più
sottilmente continua a passare in strutture anche nuove, la vecchia logica
istituzionale.
Ma un serio lavoro di territorio va fatto senza
illusioni.
La crisi del nucleo familiare e dell'istituzione
scuola, le gravi difficoltà nel mondo del lavoro, le profonde contraddizioni
della vita sociale tracciano il quadro di una realtà ove è molto più marcata
la responsabilità di produrre disagio che la capacità
di risolverlo autonomamente.
È in questa condizione diffusa, fortemente intollerante
e cieca ai problemi dei deboli, che trova un senso la
funzione di difesa, e di sostegno che il servizio in cui operiamo ha, e che si
concretizza nell'ambiente-struttura.
Dunque la struttura socio-formativa è uno spazio ben
delimitato al cui interno ci si propone di conoscere e individuare i bisogni
particolari di una particolare utenza e, insieme a
questa, individuare, ricercare, sperimentare possibili risposte. Due esempi
per chiarire questa funzione:
- all'interno della struttura tutte
le barriere architettoniche sono state eliminate nei lavori di
ristrutturazione, perché l'ambiente presentasse il minor numero di difficoltà
alle persone con handicap fisico, ma anche perché potesse divenire un
possibile modello di situazione abitativa di questo tipo;
- la socializzazione della struttura viene favorita
e in qualche modo «guidata» ed i rapporti con le altre persone vengono, da una
parte ricercati, dall'altra in qualche modo filtrati dagli operatori e dal
gruppo (ad esempio, gli operatori della struttura insieme a
quelli del centro d'incontro stanno lavorando con una attenzione particolare
alle relazioni tra i due gruppi di ragazzi, attraverso gite, uscite e
discussioni comuni).
In questo senso la struttura costituisce, per la
maggior parte dei ragazzi, soltanto un momento di passaggio che va a sfociare,
in tempi lunghi o brevi, in un inserimento pieno ed autonomo nel territorio.
Accenniamo soltanto in questa sede ai
numerosi problemi che insorgono per la presenza di ragazzi portatori di
handicap tali da rendere oggettivamente impensabile un inserimento senza
appoggi costanti.
La pratica di lavoro
Elemento qualificante di tutto l'intervento diretto
con i ragazzi è che esso è totalmente gestito non a livello del singolo operatore
ma dall'intero gruppo.
Ciò che si è collettivamente progettato diventa
operatività comune, nello sforzo di non irrigidirsi in ruoli e di porsi ai
ragazzi come gruppo unito, che discute molto al suo interno, e che si propone
come punto di riferimento omogeneo e globale.
Il rapporto più individualizzato con i vari operatori
è ben accetto nella sua spontaneità ed è riconosciuto come una modalità
preziosa e non sostituibile di contatto, attraverso cui passano
messaggi di comprensione, di sicurezza e di confidenza. Esso si inserisce comunque però all'interno di una verifica di
gruppo senza la quale corre il rischio, a nostro parere, di assumere degli
aspetti che possono essere regressivi («l'operatore che si occupa di me come
una mamma», «l'operatore più buono e l'operatore più cattivo»...) e che possono
determinare un rapporto logorante e falsificato.
Possiamo individuare tre grandi aree, che in parte si
sovrappongono e si comprendono, che l'intervento copre e su cui incide:
-
SOCIALIZZAZIONE
-
MATERIALITÀ
- APPRENDIMENTO
Intendiamo per socializzazione tutto ciò che scaturisce dalla vita
collettiva quotidiana, dai rapporti dei ragazzi tra loro, con gli operatori e
con il mondo esterno.
Questo aspetto è particolarmente importante e significativo perché si contrappone alla condizione di
isolamento e di mancanza di identità subita dai ragazzi portatori di handicap.
Conoscere questi ragazzi vuol dire
infatti fare esperienza di una comunicazione povera, interrotta,
spaventata.
In primo luogo la comunicazione verbale: il
linguaggio è imperfetto, scorretto, posseduto solo in minima parte; dato
costante inoltre, la resistenza ad usarlo per farsi capire e capire.
Lo sforzo nostro è quindi quello di far parlare molto i ragazzi, discutere con
loro, informarli, interpellarli. Alcuni grossi temi sono ormai argomenti
abituali: le loro esperienze passate, la vita famigliare, la televisione, i
problemi personali, l'innamorarsi, la vita sessuale. A
questo scopo utilizziamo la lettura di giornali e riviste e la discussione in
biblioteca, la partecipazione per alcune ragazze al corso delle «150 ore»
sui problemi della salute della donna, organizzato dal consultorio famigliare.
Lo sforzo è anche di insegnare ad ascoltare
attivamente, criticamente, senza vergognarsi di chiedere spiegazioni quando non
si capisce.
In secondo luogo il vissuto di un corpo imperfetto,
malato, impotente che si porta dentro chi
quotidianamente si scontra con la propria condizione di handicappato fisico, o
il vissuto di un corpo goffo e impacciato, che non sa esaudire desideri e
dunque non sa esprimerli, pongono molte gravi difficoltà anche alla
comunicazione più istintiva, non-verbale. I momenti di gioco, di contatto, di
spontaneità (sui prati nelle gite in collina, ascoltando la musica) rilassanti
per tutti, sgombrano e liberano a volte questi canali e restituiscono in uno
sguardo, un gesto, la sensazione profonda di essere capito e capire fino in fondo, anche a chi, ai sensi di una
classificazione diagnostica rigorosa, non può che essere collocato a livelli
gravissimi.
L'altro aspetto di questa dimensione socializzante è
l'offrirsi della struttura come spazio sociale ricco, dove si costituiscono
precise norme sociali, ben diverse dall'unica norma che i ragazzi hanno conosciuto: quella che li esclude.
Queste norme che i ragazzi imparano a conoscere e a
riconoscere, a rispettare, a trasgredire e a costruire, costituiscono la rete
che lega ciascuno a tutti gli altri e che coinvolge tutti nella vita comune.
Il rispetto delle decisioni comuni, delle esigenze
dell'altro, la collaborazione, i conflitti, la appartenenza,
costituiscono esperienze in cui il «vaglio sociale» di ogni comportamento permette
una crescita nella propria identità.
Per molti ciò costituisce un'esperienza del tutto nuova, poiché
non è mai stata data prima d'ora ad essi la possibilità di accedere ad una
legge sociale (isolamento e reclusione in casa, permanenza in Istituti
spersonalizzanti, ruolo sociale irrigidito in una tollerata devianza);
diventano motivo di conflitto la resistenza alle norme e alle regole comuni,
le reazioni provocatorie nel momento in cui si chiede che queste vengano rispettate.
La struttura investe nell'intervento la materialità delle condizioni di vita dei ragazzi handicappati.
Nei casi dei ragazzi parzialmente autosufficienti e
non autosufficienti ciò significa farsi carico di momenti di vita quotidiana
quale imboccare, vestire, sollevare ecc., ma questo
non tanto e non solo per alleviare la famiglia su cui grava questo carico, e
generalmente perché questi aspetti del servizio sono inevitabili e necessari al
ragazzo.
Vi è infatti la precisa
scelta da parte degli operatori di impostare un rapporto che passi proprio per
le contraddizioni materiali che i ragazzi pongono.
Si parte quindi da un modo diverso di
affrontare questi momenti per mettere in discussione il rapporto che si
instaura fra l'handicappato e il sano che lo aiuta (normalmente il familiare,
la madre). Ciò significa, di fatto, mettere in discussione le dinamiche della dipendenza e della autonomia, rimescolando
le carte del dare e dell'avere.
I momenti del pranzo, del trasporto, del bagno, sono
occasioni per incidere sugli strumenti di sopravvivenza quotidiana col proprio
handicap.
L'aiuto nello svolgere certe funzioni veicola messaggi diversi da quelli dei genitori o del resto
delle persone: questo è un momento fondamentale nel rapporto perché si esprime
come accettazione del problema dell'altro e del diritto dell'altro a trovare
sostegno; ma anche come stimolo a trovare nuove soluzioni per conquistare più
autonomia.
Inoltre la vita quotidiana è l'occasione per inventare i mille accorgimenti che accompagnano lo
svolgimento delle azioni (la cannuccia per bere, il registratore con tasti
semplici da usare, ecc.).
In particolare questi momenti diventano significativi
nel rapporto con i ragazzi più gravemente handicappati, con i quali spesso la
comunicazione verbale è difficile e passa invece
facilmente attraverso questi momenti particolari.
Per i ragazzi autosufficienti portatori di handicap
psichico medio-lieve
l'intervento si propone di fornire gli strumenti per analizzare certi aspetti
della loro realtà, che li aiutino ad uscire dalla condizione di mancanza di
identità e scarsa coscienza di sé in cui spesso sono relegati.
Ciò significa sviluppare con loro un serio lavoro di informazione e formazione sui problemi sociali, sul mondo
del lavoro, sulla disoccupazione, attraverso discussioni, letture, confronti
con ragazzi che lavorano ed hanno altri problemi.
Più specificamente questo implica motivarli ad uno
sviluppo più complessivo della loro condizione finora
relegata in ambiti molto parziali e limitati dalla realtà. Un obiettivo non
meno importante è offrire ai ragazzi gli strumenti affinché
possano instaurare un diverso rapporto fra «se stessi» e le «cose che fanno»,
quindi tra le attività che svolgono e gli oggetti che producono. Molto spesso infatti i ragazzi hanno una scarsissima fiducia nelle cose
che possono e sanno fare ed una altrettanta sfiducia nei risultati che possono
ottenere.
È necessario quindi ricondurre
costantemente i ragazzi all'importanza del prodotto della loro attività, non
solo per il suo valore «intrinseco» (perché è ben fatto, ecc.), ma per ciò che
esso rappresenta, per il legame che esso ha con la persona che l'ha realizzato.
Il contenuto centrale della giornata è costituito
dall'apprendimento. Diciamo subito
che non per questo la struttura diventa un sostituto della scuola dell'obbligo,
dei corsi professionali o dell'apprendistato. Infatti
in questo senso ci si è immediatamente orientati verso strutture aperte a tutti
ove i ragazzi potessero inserirsi fianco a fianco alla popolazione «normale».
La collaborazione degli operatori di istituzioni e
servizi ha reso possibile: l'inserimento di 5 ragazzi nel corso di laboratorio
della scuola ENAIP; l'utilizzo autonomo della biblioteca; la partecipazione al
corso pubblico di tessitura organizzato dal centro d'incontro. È importante sottolineare come tutti gli inserimenti sono il prodotto di
lavoro concreto, che ha permesso il superamento dei gravi ostacoli che ogni
volta, esplicitamente o impercettibilmente, vengono posti alla concretizzazione
dello slogan «inserite gli handicappati». A causa di ciò può nascere a volte la
tentazione di rinunciare a perdere tempo e fatica per costruire momenti di inserimento e ripiegare su una gestione autarchica e
certo apparentemente più agile dei problemi. Ma non è
certo aggirando e coprendo le contraddizioni tra slogan e prassi, tra
inserimento di ognuno e massima produttività ed efficienza, che qualcosa
cambia. Pertanto anche nella dimensione formativa, che le è propria, la
struttura si appoggia, si integra, si verifica con le
altre strutture specifiche presenti sul territorio e non le sostituisce al suo
interno. Accanto a questi momenti di apprendimento
più strutturati che si collocano fuori dall'ambiente struttura, vi sono tutte
le attività che si svolgono all'interno e che, pur non essendo organizzate
secondo un programma rigido, si articolano in un progetto più generale volto al
raggiungimento di alcuni fini, quali:
- la conoscenza della realtà esterna (sia dell'ambiente
più prossimo che della più ampia società civile);
- l'acquisizione di strumenti, conoscenze, abilità,
in particolare di quelle essenziali per il raggiungimento
della propria autonomia o di una sempre minore dipendenza dagli altri;
- il raggiungimento di una maggiore
coscienza di se stessi intesa come riappropriazione
delle proprie potenzialità e come maggiore conoscenza dei propri bisogni e desideri.
I programmi di attività
vengono sistematicamente rivisti e modificati a seconda dei risultati
raggiunti, del manifestarsi inatteso di nuovi interessi, dell'evoluzione di
ognuno e del gruppo.
È proprio tale dinamicità che ci ha fatto prediligere
attività che fossero soprattutto stimolanti più che attività occupazionali o
professionali in senso stretto, volte ad un'acquisizione sempre più
perfezionata di selezionate capacità (spesso, infatti, nei confronti degli
handicappati ci si è limitati ad individuare un'attività particolare in cui i
soggetti «riescono bene» come la tessitura o la pelletteria e a perfezionarla
attraverso l'esercizio quotidiano).
Gli strumenti (dai laboratori, agli ateliers, agli attrezzi di lavoro) diventano quindi stimoli
per esprimersi, conoscere, realizzare, acquisire. I laboratori di falegnameria,
di artigianato, di stampa e fotografia, vengono usati
per realizzare progetti stabiliti con i ragazzi e non solo per acquisire
delle tecniche (si costruiscono gli scaffali per la biblioteca interna, si
stampano le foto per la ricerca sulle barriere architettoniche, ecc.); il
pranzo insieme è un'occasione per imparare a confezionare i cibi, a preparare e
spreparare la tavola, ad essere autonomi; mentre la
musica, il giardinaggio, la tessitura occupano parte del tempo libero.
Ovviamente, al fine di avere un quadro più completo
dell'esperienza in atto, sarebbe opportuno affrontare altri temi e
problematiche che lasciamo ad un secondo momento in quanto necessitano di ulteriori approfondimenti.
Un primo esempio è dato dai rapporti con le famiglie.
Sottolineiamo la necessità del coinvolgimento delle famiglie nella
gestione dell'handicap e il tentativo (in quanto il pericolo di richiesta di
istituzionalizzazione è sempre e massicciamente presente soprattutto nei
confronti di situazioni gravi) di superamento della delega totale. In tal senso
uno strumento, ancora in fase di sperimentazione, che
ci è parso utile, è l'incontro quindicinale tra operatori e genitori
finalizzato, da un lato al confronto ed alla verifica dell'operatività,
dall'altro all'attivazione in chiave collettiva in un esame della relazione e
del rapporto educativo con i ragazzi.
Un secondo tema che consideriamo
fondamentale nella operatività è quello della modalità collettiva, in quanto
équipe di lavoro, di discussione e di verifica costante. A ciò si collega
l'ampio discorso della formazione degli operatori che si sviluppa a partire dalle problematiche legate alla pratica quotidiana.
La possibilità infine di scambi di informazioni,
di confronto-verifica fra esperienze affini, in particolare nei confronti
degli handicappati ultraquattordicenni, costituisce un elemento essenziale
nella sperimentazione, all'interno dei servizi di territorio, di nuove formule
di intervento.
(1) Operatori del Comune di Settimo
Torinese, Assessorato ai servizi socio-sanitari.
(2) È necessario rilevare l'importanza
che ha assunto la composizione del gruppo di lavoro fondata su due parametri tra
loro complementari:
- la formazione: i componenti
dell'équipe sono tutti in possesso di una formazione di base relativa alle
problematiche sociali. La provenienza da ambiti diversi è stata molto proficua poiché spesso ha favorito la discussione e una analisi
più completa delle problematiche emerse;
- le esperienze:
rispetto alle problematiche sociali e, in particolare nei confronti del
problema handicap.
Anche questa componente ha svolto un ruolo
determinante, consentendo, attraverso la messa in comune delle esperienze
svolte, la reale attivazione di una comune modalità di intervento.
(3) Con tale affermazione non vorremmo
essere fraintesi. Se da un lato elementi diagnostici, in grado di delineare
in modo preciso e corretto la condizione del ragazzo, sarebbero un prezioso
punto di riferimento iniziale, dall'altro, solamente
un approccio nei confronti dell'handicappato che tenga conto della sua
collocazione nel contesto in cui vive, permette di intervenire in una
dimensione effettivamente globale.
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