Prospettive assistenziali, n. 50, aprile - giugno 1980

 

 

LE AUTONOMIE LOCALI IN RELAZIONE ALL'AVVIO DELLA RIFORMA SANITARIA (1)

 

 

La particolare importanza che in questo pe­riodo riveste il settore dei «Servizi sociali», data la situazione reale che vede l'avvio dell'at­tuazione di leggi di riforma (D.P.R. 616, legge 833) e di contro il verificarsi di spinte in senso antiriformistico di alcuni settori politici, ammi­nistrativi e di opinione, hanno stimolato la for­mazione di un gruppo di lavoro permanente sul tema: «Autonomie locali e servizi sociali».

Il gruppo è costituito da una ventina di mem­bri, espressione dei tre livelli istituzionali (na­zionale, regionale, locale), della Lega delle au­tonomie e delle forze sociali, con diverse com­petenze (politiche, tecniche e amministrative).

È stato formulato un programma di lavoro, con la previsione di seminari semestrali della durata di alcuni giorni, diretti ad approfondire temi spe­cifici definiti per ogni seminario e ad elaborare, di volta in volta, un documento di sintesi del lavoro svolto da diffondere presso le forze poli­tiche, gli amministratori, gli operatori e gli utenti.

Il primo seminario, promosso dalla Lega regio­nale piemontese per le autonomie e i poteri lo­cali, si è svolto a Torino nei giorni 6-7-8 marzo 1980 ed ha trattato del tema specifico: «Le Au­tonomie locali in relazione all'avvio della rifor­ma sanitaria».

Il lavoro del gruppo si è incentrato intorno a tre problemi individuati come « nodi >• la cui soluzione è ritenuta fondamentale per una cor­retta impostazione del tema specifico, nel qua­dro della problematica generale dei servizi so­ciali:

- il nodo istituzionale

- il nodo metodologico-organizzativo

- il nodo operativo sotto l'aspetto specifico del personale.

Relativamente a ciascuno di questi, il gruppo ha analizzato la situazione reale, sotto l'aspetto delle normative regionali di attuazione della leg­ge 833 e delle prime esperienze di applicazione ed ha formulato linee propositive, nell'ottica del­la globalità del settore dei servizi sociali.

 

Il nodo istituzionale

Si è rilevato come le Regioni, nella prima at­tività legislativa in ordine alla riforma sanitaria, non abbiano colto l'importanza di una contem­poranea attuazione della previsione del D.P.R. 616, riguardante l'Associazione obbligatoria dei Comuni. La sola Toscana che ha percorso que­sta strada si è vista condizionata dal Governo che ne ha limitato il potere agente nei confronti dei Comuni alle sole materie sociali e sanitarie. In tal modo la ridefinizione dei poteri e dei rap­porti tra Governo e Parlamento da un lato ed Au­tonomie locali dall'altro, non ha esplicato l'effet­to riformatore generale teso alla rifondazione del Comune che è necessaria per una gestione inte­grante e programmata degli ampi poteri che lo stesso D.P.R. 616 ha trasferito ai Comuni.

La rifondazione del Comune è intesa nel senso di entità politica avente un territorio, un numero di abitanti, mezzi e strumenti tali da proporsi come momento reale ed efficace di organizzazio­ne e gestione globale di tutti i servizi di base, e quindi non solo di quelli sanitari e assistenziali.

L'indubbia e rilevantissima portata della ri­forma in senso democratico dello Stato, prospet­tata dal D.P.R. 616 ed anche dalla legge 833, è risultata nei fatti offuscata, mentre ne è stato evidenziato il limite settorialistico.

Tale limite, nelle Regioni che fin qui hanno emanato leggi attuative, si è manifestato come preoccupazione di continuità politico-amministra­tiva di settore, la quale sembra aver prevalso sulla consapevolezza che l'aggregazione di ser­vizi nell'Unità locale è in primo luogo un arric­chimento del potere autonomistico ed un nuovo modo del suo esercizio. Essa costituisce perciò un primo passo verso la riforma generale delle autonomie e non può quindi refluire nella perpe­tuazione a livello locale di corpi separati, pur nella forma di nuovi enti settoriali.

Vanno pertanto battute le tendenze in atto, in­dotte dalle contraddizioni della legge 833 ed ispi­rate dalle elaborazioni culturali tecnocratico­-aziendalistiche, a concepire l'U.S.L. come una azienda municipalizzata della salute.

E ciò va fatto con riferimento:

1) all'individuazione degli ambiti territoriali mi­rata alla realizzazione del principio: «un gover­no - un territorio». Ciò comporta che le prece­denti zonizzazioni delle Comunità montane, così come dei Consorzi socio-sanitari, dei Distretti scolastici e delle Circoscrizioni nelle aree metropolitane, coincidano con l'area dell'U.S.L. in modo da realizzare il massimo possibile della poli-funzionalità.

Per raggiungere l'obiettivo delineato, la defi­nizione degli ambiti territoriali, pur senza intro­durre elementi di precarietà, dovrà comunque es­sere suscettibile di revisione nel medio termine;

2) alla composizione dell'Assemblea dell'As­sociazione intercomunale, tenendo saldo il prin­cipio che i membri di essa devono essere consi­glieri comunali e che lo stesso requisito deve avere il Presidente, mentre per il Comitato di gestione deve essere garantita almeno la mag­gioranza di consiglieri comunali, anche là dove le leggi regionali permettono scelte diverse.

Ciò dovrà essere oggetto di particolare atten­zione da parte delle forze politiche, democrati­che ed autonomistiche le quali, in occasione della prossima consultazione elettorale ammini­strativa, si dovranno impegnare ad individuare candidature particolarmente qualificate;

3) al mantenimento di stretti rapporti tra l'As­sociazione ed i Comuni membri, sia attraverso il rispetto della rappresentanza proporzionale dei Comuni in seno all'Assemblea, sia attraverso la qualificazione dei rappresentanti stessi, sia in­fine attraverso l'introduzione di istituti quali:

- la più ampia informazione ai Comuni dell'attività dell'Assemblea e del Comitato di ge­stione; il controllo dell'Assemblea sugli atti del Comitato di gestione, mediante la formazione di Commissioni permanenti; la possibilità di revoca da parte dei Comuni dei propri rappresentanti.

Sono queste le condizioni essenziali affinché la attuazione del D.P.R. 616 e l'avvio della riforma sanitaria possano assumere il significato di una concreta esperienza, sulla base della quale le forze democratiche ed autonomistiche potranno formulare proposte tese a rilanciare una riforma generale delle autonomie costruita su un'ampia partecipazione.

Il gruppo ha sottolineato, a questo proposito, come il nodo dell'Ente intermedio dovrebbe es­sere affrontato solo dopo la messa a regime dell'esperienza di programmazione e gestione di Regioni e Comuni e quindi non risolto in modo preconcetto e generalizzato con legge nazionale.

 

Il nodo metodologico-organizzativo

Il gruppo ha individuato come posizione corret­ta delle Autonomie locali rispetto all'avvio della riforma sanitaria, là scelta della programmazio­ne come metodo di lavoro.

Il processo di programmazione implica: la de­finizione degli obiettivi in termini di scelte poli­tiche, la definizione di strumenti e procedure per la realizzazione degli obiettivi, la verifica dei risultati.

La programmazione è responsabilità dell'Ente locale ai diversi livelli: la Regione cui compete di definire gli indirizzi generali; l'Associazione dei Comuni o i Comuni singoli che nell'ambito di tali indirizzi devono definire sub-obiettivi in rela­zione alla propria area territoriale e alle proprie condizioni ed esigenze specifiche, evitando il riferimento a modelli organizzativi rigidi e pro­cedendo con il metodo della gradualità.

Così come la programmazione dell'Ente loca­le deve essere globale, così la partecipazione dei cittadini al processo di programmazione non de­ve frammentarsi in relazione ai diversi settori di servizio, ma deve essere promossa con rife­rimento alla globalità degli interventi, anche ad evitare spinte settoriali e corporative.

Presupposti di una partecipazione reale e non fittizia delle aggregazioni sociali sono:

- l'informazione sistematica sulle scelte poli­tiche da assumersi e assunte e sugli elementi conoscitivi e di interpretazione della realtà po­sti a fondamento delle scelte proposte;

- il dibattito e il confronto sulle decisioni;

- la verifica delle realizzazioni.

In relazione all'avvio della riforma sanitaria, si pone con particolare urgenza il problema degli strumenti di programmazione.

A questo riguardo vanno utilizzati sia gli sta­tuti delle Associazioni dei Comuni, sia i rego­lamenti relativi al funzionamento e alle attribu­zioni degli organi dell'U.S.L. Essi devono essere formulati in modo da garantire agli amministra­tori ed ai tecnici, nell'ambito delle reciproche competenze, il confronto e il dibattito costrut­tivo nel momento della definizione delle norme e in quello della loro gestione.

Strumento di base della programmazione è l'analisi dei bisogni: essa è possibile se si svi­luppa la rilevazione, la trasmissione e il con­fronto su elementi strettamente collegati con gli obiettivi e le iniziative che si intendono perse­guire.

L'analisi dei bisogni va intesa quindi non come conoscenza enciclopedica del territorio, ma co­me conoscenza mirata ai cambiamenti necessa­ri: in tal senso è qualificante la scelta, di volta in volta, di indicatori specifici della realtà so­ciale (mortalità infantile, durata della degenza ospedaliera, ecc.).

Tali indicatori vanno letti nel tempo per veri­ficare come la realtà si è modificata e misurare l'efficacia degli interventi.

L'analisi dei bisogni deve inoltre coinvolgere i gruppi sociali e tener conto delle eventuali pro­gettazioni delle forze sindacali e sociali, al fine di rendere la programmazione aderente alle ne­cessità della popolazione locale, resa partecipe e non passiva.

Vanno posti in evidenza alcuni problemi di funzionamento dei servizi che, pur essendo gli elementi più evidenti della disfunzione qualifi­cativa e organizzativa esistente, rischiano di non essere affrontati e avviati a soluzione.

Problema centrale è il rischio di separazione tra intervento sanitario e interventi sociali: va ribadito che fin da ora occorre avviare la riorga­nizzazione dei servizi sull'integrazione dei due aspetti, pur tenendo conto degli elementi che, a causa degli attuali vincoli legislativi, debbono essere ancora tenuti distinti.

Questa integrazione non deve essere inter­pretata come formalistica addizione di operatori sociali e operatori sanitari nell'ambito della or­ganizzazione esistente dei servizi: essa va vista invece nella prospettiva di globalità di interven­to dell'Ente locale, sull'insieme dei bisogni del territorio, senza che, a priori, questi vengano ca­nalizzati da logiche settoriali.

A questo riguardo si osserva che nelle propo­ste di legge nazionali di riforma del settore assi­stenziale e nelle leggi regionali di attuazione della legge 833, i servizi di assistenza sono spes­so denominati servizi sociali.

Si rileva in particolare che il D.P.R. 616 inclu­de fra i servizi sociali: l'assistenza sanitaria, la assistenza scolastica (settore che propriamente dovrebbe essere denominato diritto allo studio), l'assistenza sociale, i musei e biblioteche di enti locali (o più propriamente servizi culturali), ecc.

A questi settori di intervento occorrerebbe inoltre collegare quelli relativi all'assetto del ter­ritorio, alla casa, ai servizi sportivi e ricreativi.

In merito ai servizi sociali sopra indicati oc­corre però, pur in una visione globale degli in­terventi, tener presente che, mentre per i ser­vizi sanitari, prescolastici e scolastici, culturali, sportivi, ricreativi, abitativi, l'obiettivo deve es­sere l'estensione a tutta la popolazione, per la assistenza invece l'obiettivo prioritario deve es­sere, attraverso una accorta politica di preven­zione, quello di ridurre le cause che provocano il bisogno assistenziale. È evidente che in que­sta ottica la prevenzione è intesa nel senso più completo e unitario e deve cioè accorpare gli interventi di prevenzione sanitaria e quelli di prevenzione sociale.

È quindi necessario che, contestualmente al perseguimento degli obiettivi diretti ad eliminare o ridurre le cause che provocano il bisogno assi­stenziale, vengano ricercate e attuate modalità di intervento assistenziale che abbattano i pro­cessi di emarginazione e di segregazione in atto, assicurando adeguati interventi alle persone e ai nuclei familiari comunque in stato di bisogno e promuovendo il loro reinserimento nel normale contesto sociale.

Gli interventi rivolti a soddisfare le esigenze delle persone e dei nuclei familiari più deboli, e perciò più esposti ai rischi dell'emarginazione, non possono essere rinviati, ma devono essere considerati come prioritari dalle istituzioni, in particolare dalle Regioni e dagli Enti locali.

Altro problema centrale è il rischio di mante­nere la prevalenza delle prestazioni ospedaliere: da questo punto di vista non appare sufficiente l'istituzione dei dipartimenti ospedalieri.

Occorre procedere a un riaccorpamento delle competenze in relazione alla fasce di bisogni emergenti dal territorio. Occorre in particolare accorpare le funzioni preventive e medico-so­ciali dell'U.L. in una struttura polivalente terri­toriale, che faccia da contrappeso credibile al vecchio potere degli ospedali, e rappresenti pri­mo filtro di tutte le domande emergenti, che si articola territorialmente secondo una logica di­strettuale.

Il distretto di base non è da identificare come ufficio periferico dell'U.L:, ma come l'unità ele­mentare per l'analisi permanente dei bisogni del­la zona, per l'erogazione delle prestazioni rico­nosciute necessarie e adatte alla specificità del­la zona stessa, luogo quindi di informazione, di partecipazione e di prestazione per una équipe polivalente di base che faccia da cerniera tra bisogni soddisfacibili sul posto con le risorse esistenti e bisogni soddisfacibili altrimenti. In tal caso il distretto di base è anche sede di at­tuazione dei Programmi dipartimentali, e termi­nale delle attività centralmente coordinate.

La dimensione dipartimentale e la polivalenza rimarranno puramente formali se esse non in­vestiranno contemporaneamente non solo i livel­li organizzativi dell'U.L. ma anche i livelli regio­nali. In questo senso occorrerà fare una scelta chiara e univoca tra una organizzazione sulla ba­se delle vecchie competenze e delle modalità esistenti di erogazione delle prestazioni (ricon­fermando con ciò tutti gli aspetti che la riforma sanitaria dovrebbe superare) oppure una orga­nizzazione che veda nel distretto di base e nella programmazione fondata sull'analisi dei bisogni la sua nuova metodologia operativa.

La dimensione polivalente nella gestione e nel funzionamento dei servizi, non significa in nessun caso genericità e dequalificazione ma, al con­trario, inversione della logica che, dietro l'affer­mazione del valore prioritario della specializza­zione, nega ogni possibilità di visione sintetica e collegata dei bisogni globali degli utenti.

La polivalenza è l'accentuazione del momento unitario nel quale, tanto politicamente che tec­nicamente, devono essere decise le priorità, mantenendo il senso globale alla politica di in­terventi sociali. La polivalenza intesa in questo senso non contrasta dunque con la qualificazione degli interventi settoriali e specialistici: essi vengono così ricondotti alla dimensione di mo­menti particolari di una politica socio-sanitaria globale.

Nell'ambito delle scelte politiche della pro­grammazione, l'autonomia tecnico-funzionale dei servizi deve essere intesa come effettiva re­sponsabilità tecnico-organizzativa dell'attuazione dei programmi dell'U.L. Essa non va quindi inte­sa come rigida costituzione di équipes separate ed a competenza definita a priori una volta per tutte, ciascuna con la sua gerarchia fissa e con la sua operatività permanente ripetitiva.

L'autonomia tecnico-funzionale non contrasta né con l'accorpamento di funzioni e competenze prima attuate separatamente, né con la relativa mobilità dei ruoli professionali in relazione ai programmi triennali o annuali che vengono de­finiti dall'U.L.

 

Il nodo operativo sotto l'aspetto specifico del personale

Su questo problema il gruppo, per mancanza di tempo, non è giunto ad una discussione orga­nica e quindi alla definizione di linee propositive in analogia con gli altri nodi affrontati: questo tema sarà oggetto di apposito seminario previ­sto per il mese di ottobre 1980.

Di seguito si riportano alcuni spunti emersi dalla discussione.

La preoccupazione pure legittima, che in que­sto momento stimola gli amministratori ad af­frontare i problemi di organizzazione istituziona­le, non deve indurre a sottovalutare il ruolo che il personale assume per avviare la riorganizza­zione dei servizi.

È un dato che la bozza di piano sanitario na­zionale ed i piani delle Regioni si limitino ad affermazioni di principio, senza individuare stru­menti e risorse per la formazione, riqualificazio­ne ed aggiornamento del personale.

La stessa affermazione legislativa dell'obbliga­torietà dell'aggiornamento appare puramente for­male in assenza di adeguate politiche e di stru­menti perché si possa realizzare.

In particolare va denunciato il ritardo gover­nativo nel predisporre gli atti legislativi, come stabilito dall'art. 6 della legge 833, per la disci­plina organica della formazione degli operatori socio-sanitari e la definizione delle figure profes­sionali, dal momento che non è possibile man­tenere in vigore una normativa frammentata e disorganica sviluppatasi nell'arco di oltre 50 anni dal 1923 al 1974.

Si ritiene opportuno rivolgere agli amministra­tori delle Regioni, dei Comuni e delle Unità lo­cali una particolare raccomandazione affinché sia nelle leggi regionali, sia negli atti delle U.S.L. siano predisposti adeguati interventi per la for­mazione, la riqualificazione e l'aggiornamento del personale.

 

 

 

(1) Il documento è stato elaborato dal gruppo di lavoro permanente costituito dalla Lega regionale piemontese per le autonomie e i poteri locali (Torino, 6-8 marzo 1980) e composto da Berardi Paola, Bussolino Claudio, Carrino Lu­ciano, Chiellini Giovanni, Corrarello Giuseppe, Cravero Tommaso, Lucà Domenico, Migliasso Angela, Peano Atti­lio, Pellegrini Laura, Santanera Francesco, Trevisan Carlo, Zito Antonio.

 

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