Prospettive assistenziali, n. 50, aprile - giugno 1980
SENTENZA SUL DIRITTO DEL COMITATO DI
BASE DI ENTRARE NEL LAGER DI BISCEGLIE
Il
Pretore, letti gli atti, osserva in fatto e in diritto.
Con ricorso depositato il 3 gennaio 1980 il «Comitato
per l'attuazione della legge 180/1978», in persona del segretario, G.S. e M.C.
esponevano che il 19.12.1979 a numerosi componenti
del suddetto comitato, a parenti dei ricoverati, come la G.S.,
e a comuni cittadini, come M.C., era stato impedito
dal personale di servizio e, quindi, dallo stesso vice presidente dell'ospedale
psichiatrico «Casa Divina Provvidenza» di Bisceglie
l'accesso nei reparti dell'ospedale per visitare i degenti, parlare con essi e conoscerne le condizioni di vita;
Ravvisando in tale comportamento una lesione, con
pregiudizio irreparabile, del proprio diritto primario alla comunicazione,
garantito dall'art. 15 della Costituzione e corrispondente, del resto, al
diritto, sancito dall'art. 1 co. 4, L. 180/1978, degli stessi degenti in ospedale psichiatrico
di comunicare con chi ritengano opportuno, chiedevano
che venisse ordinato alla congregazione religiosa «Ancelle della Divina
Provvidenza», proprietaria dell'ospedale suindicato,
di «consentire il libero ingresso degli istanti nei luoghi abituali di vita
(reparti, sale di ricreazione ecc.) dei degenti, ospiti della stessa
istituzione, al fine di realizzare una piena e libera comunicazione con gli
stessi)».
Resisteva la Congregazione convenuta, osservando che
il 19.12.1979 una delegazione del Comitato si era incontrata con il vice
presidente della «Casa Divina Provvidenza», L.L., dal quale aveva ottenuto informazioni circa
l'applicazione della L. 180/1978 nell'ospedale.
In diritto eccepiva il difetto di legittimazione ad
agire del Comitato, sia perché non individuabile con certezza nelle persone dei singoli aderenti, non
generalizzate, sia perché titolare non di un diritto ma di un mero interesse
all'attuazione della legge 180/1978, «sfornito di presidio giudiziario»; ne
deduceva, perciò, anche la inammissibilità della procedura ex art. 700, intesa
a tutelare un diritto - e non l'interesse «generico di voler comunicare con i
degenti dell'ospedale psichiatrico per accertarne le condizioni di vita» -,
per cui vi sia minaccia di un pregiudizio imminente ed irreparabile: del che,
osservava, nessuna indicazione i ricorrenti avevano fornito.
Sentite le parti e assunte sommarie informazioni dalle persone da esse indicate, all'udienza del
12.2.1980 questo pretore si riservava di decidere.
È pacifico che il 19.12.1979 ai ricorrenti è stato impedito dal personale di servizio all'ingresso
dell'ospedale e dal vice presidente L.L. l'accesso
all'interno dei reparti ospedalieri per visitare i degenti: univoche sono in
proposito le informazioni assunte, anche da parte dell'informatore indicato
dalla congregazione resistente.
La circostanza, del resto, è stata ammessa dallo
stesso L.L. quando ha parlato della sua disponibilità, manifestata
nell'incontro in questione, «a valutare in futuro con serietà le richieste di
autorizzazione eventualmente presentate» e confermata dalla direzione
sanitaria dell'ospedale nel parere, depositato, con il quale riconosce il diritto
di ingresso solo a chi ne faccia richiesta, allegando un giustificato motivo
«in ragione del suo ufficio» o per avervi «familiari ricoverati», e lo nega a «chiunque
(inteso come persona non appartenente alle precedenti categorie)».
Tali limitazioni e impedimenti all'esercizio del
diritto fondamentale di comunicazione con chiunque (art. 15 Cost.) è illegittimo e ne va ordinata, pertanto, la rimozione.
Ciò è evidente, e pacifico, perché neppure minimamente
contestato dalla resistente, per i ricorrenti G.S. (addirittura sorella di un ricoverato) e M.C., che agiscono
personalmente, ma va affermato anche per il Comitato, sul cui difetto di legittimazione
ad agire in giudizio, e ad agirvi con procedimento di urgenza, si sono
incentrate particolarmente le eccezioni della difesa della resistente:
eccezioni da disattendere, siccome ancorate ad inammissibili impostazioni di
tipo formalistico sull'esistenza delle associazioni e di tipo privatistico e patrimonialistico
su diritti e la loro azionabilità.
Una corretta impostazione dei problemi, che si
annidano nelle eccezioni sollevate, non può che partire dalla considerazione
che «comitati» e «associazioni non riconosciute», rientrano nel fenomeno, estremamente diffuso nelle società Occidentali, e nel nostro
stesso ordinamento, delle formazioni sociali, garantite dalla Costituzione
(art. 2) per il solo fatto che esse, consentendo lo svolgimento della
personalità dell'uomo (art. 2), sviluppano un rapporto potenzialmente
indispensabile all'ordine politico, a prescindere dalle loro dimensioni, dal
numero degli aderenti, dal ricorso all'una o all'altra forma giuridica. Perciò, «l'esistenza di un'associazione non è condizionata
ad alcuna formalità». Alla sua costituzione, pertanto, non è necessario né
l'atto pubblico - prescritto soltanto per il conseguimento della personalità
giuridica - e neppure, salvi i casi specificamente disciplinati, l'atto scritto.
«L'atto scritto è bensì necessario ai fini della
prova (art. 2721 c.c.), ma, in quanto sia consentito dall'art. 2724, la prova
della costituzione e dell'esistenza di una associazione
non riconosciuta può essere data anche in via indiretta e presuntiva» (Cass.
10.12.1965, n. 2448, in Foro it., 1966, I, 1327; Conf.
Cass. 30.10.1975, ibid., Rep. 1976, voce Ass. non ricon., 1).
Nella specie, è sufficiente a provare l'esistenza
del Comitato ricorrente l'esibito «verbale di assemblea
costitutiva», di cui non vale «disconoscere» il valore, come asserito dalla
difesa della resistente, per il solo fatto che i sottoscritti del verbale non
sono individuati nelle loro generalità.
Intanto, alcuni di essi,
deponendo come informatori nel processo, hanno riconosciuto come propria la
sottoscrizione, di guisa che - nella misura in cui «la prova (... ) può essere
data anche in via indiretta e presuntiva» - è ragionevole presumere che anche
le altre sottoscrizioni sono vere.
Inoltre, i ricorrenti hanno esibito ritagli del
giornale «La gazzetta del mezzogiorno» del 16.11.1979 e del 14.12.1979, non
disconosciuti dalla resistente, sui quali compaiono informazioni sulla
costituzione e sull'attività del Comitato; anche per tal via, indiretta e
presuntiva, risulta provata la costituzione e
l'esistenza del comitato ricorrente.
Il quale, secondo la difesa della resistente, sarebbe,
tuttavia, privo di capacità di agire processualmente, in quanto portatore non di un diritto ma,
per definizione, di un semplice interesse, sfornito di tutela giudiziaria,
all'attuazione della legge 180/1978.
Ora, posto che la legge indicata intende tutelare la
salute mentale dell'individuo, disponendo che i trattamenti sanitari,
eventualmente necessari all'uopo, siano svolti «nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici
garantiti dalla Costituzione» (art. 1 cpv. L.
180/1978), è da ritenere che, nella specie, anche alla stregua del contenuto dell'esibito
«verbale di assemblea costitutiva» l'interesse del
Comitato all'attuazione della legge si risolva nell'interesse alla salute
(mentale), che, in quanto «interesse della collettività», è espressamente tutelato
dalla Repubblica (art. 32 Cost.).
Se - ancorché «diffuso», e cioè,
riferibile contemporaneamente ed indifferentemente ad un numero indefinito di
soggetti, alla «collettività» - un tale interesse è ugualmente tutelato; è
conseguente ritenere che la tutela, per operare realmente e non risolversi in
un mero orpello retorico, dev'essere di tipo
garantistico, proprio dei diritti fondamentali o «inviolabili» della persona
umana, azionabili da chiunque e da qualunque formazione sociale, che, come
nella specie, esista, partecipi dell'interesse della collettività (nel caso,
alla salute mentale dei cittadini) e persegua come proprio fine appunto la
realizzazione di tale interesse, che, in quanto diffuso, è perseguibile non
esclusivamente da particolari soggetti privati o dalla pubblica autorità ed è,
quindi, suscettibile di «appropriazione» anche da parte di formazione sociale.
Opinare diversamente, nel senso che l'interesse
all'attuazione della legge 180/1978 e, cioè alla
salute (come, si potrebbe aggiungere, quello alla preservazione dell'ambiente
naturale, alla sicurezza sociale, all'ordinato sviluppo urbanistico), siccome
diffuso, è «sfornito di presidio giudiziario», significa vanificare la tutela
prevista dalla Costituzione, ponendosi in una « prospettiva secondo la quale
vi è protezione giuridica soltanto in caso di collegamento esclusivo fra un
bene (o una frazione di esso) ed un solo determinato individuo o un gruppo
personificato - e quindi assimilato all'individuo, che «è condizionata da
un'impostazione di tipo patrimoniale della giuridicità e rischia di
mortificare in ragione del condizionamento l'irresistibile tendenza all'azionabilità delle pretese che è cardine della nostra
Costituzione (art. 24)» (così, proprio in fattispecie di diritto alla salute,
Cass. sez. unite, 6.10. 1979, n. 5172, in Foro it.,
1979, I, 2302 ss. in particolare 2305).
Ma, nel caso in esame; v'è di più: non tale pretesa
(interesse collettivo alla salute mentale) è stata azionata
ma, per realizzare quell'interesse, il diritto di
comunicare con i degenti dell'ospedale psichiatrico.
Si tratta non, come asserito dalla difesa della resistente,
di un «interesse generico» ma di un diritto specifico, soggettivo e assoluto,
quale quello di comunicazione, di cui l'art. 15 della Costituzione garantisce
la libertà e la segretezza, che dichiara inviolabili.
Nessun dubbio può esservi che i ricorrenti siano
titolari del diritto fondamentale di comunicare
(anche) con i degenti dell'ospedale psichiatrico.
E, se - nel vigore di una legge come quella del 1904
(n. 36), che si preoccupava solo della «pericolosità a sé e agli altri» e del
«pubblico scandalo» dei malati mentali e ne disponeva, conseguentemente, la
«custodia» in manicomi (art. 1) - poteva dubitarsi
della compressione del diritto costituzionale di chiunque di comunicare con un
ricoverato in ospedale psichiatrico, non v'è dubbio che tale diritto si sia
nuovamente espanso in tutta la sua potenzialità in conseguenza della legge
180/1978 nella misura in cui corrisponde al reciproco
diritto dell'infermo di «comunicare con chi ritenga opportuno» (art. 1, co. 4, L. 180/1978).
Al diritto costituzionale del ricoverato di comunicare
con chiunque e, reciprocamente, di chiunque di comunicare con il ricoverato
non può che corrispondere l'obbligo dell'amministrazione e della direzione
sanitaria dell'ospedale psichiatrico di consentire l'esercizio effettivo di
questo diritto, rimuovendo ostacoli e limitazioni come quelli che selezionando
tutti i potenziali visitatori in ragione del loro
ufficio o del loro vincolo di parentela - impediscono al ricoverato di comunicare
con chiunque non sia parente o operatore psichiatrico e a chiunque non versi
in tali condizioni di comunicare con il ricoverato.
Ché - affrontando le obiezioni formulate dalla direzione
sanitaria dell'ospedale nell'esibito parere e recepite dalla difesa della
resistente -, se non pare dubbio che l'ospedale abbia il potere di regolamentare, per renderlo compatibile
con le finalità terapeutiche ed assistenziali perseguite, l'esercizio del
diritto d'ingresso di chiunque in ospedale per comunicare con i degenti (p.es., fissando un orario per le visite, destinando ai colloqui
apposite sale nell'ambito dei reparti e, in genere, seguendo la prassi di ogni
altro comune ospedale), è altrettanto indubbio che l'ospedale ha l'obbligo di
consentire l'esercizio di tale diritto, che è fondamentale e assoluto, a
chiunque e non il potere di consentirlo solo ad alcuni, autorizzandoli in base
a criteri limitativi, e incompatibili con l'assolutezza del diritto.
Il potere di escludere alcuno dalla comunicazione, di selezionare i visitatori, inerisce, infatti, allo stesso diritto di comunicazione e
spetta, quindi, all'altro titolare di tale diritto, cioè al ricoverato, il
quale comunicherà con chi, dei visitatori, «ritenga opportuno» (art. 1, co. 4, L. 180/ 1978).
Né a legittimare questa sorta di potere sostitutorio dell'ospedale - amministrazione e/o direzione
sanitaria - all'infermo nell'esercizio di un diritto personalissimo, come
quello di comunicazione, valgono le considerazioni
svolte sulla «peculiare caratteristica delle forme morbose esistenti in
ospedale», sui «motivi di riservatezza», sul «disagio morale, in cui
potrebbero venire a trovarsi i pazienti», sulla «morbosa curiosità»:
considerazioni, queste, che evocano principi forse formulabili nel vigore
della legislazione abrogata ma certamente incompatibili con la legge 180/1978,
che ha assimilato la malattia mentale a qualsivoglia altra malattia, disponendo
che essa venga curata negli stessi ospedali, in cui si curano altre malattie,
con esclusione di ospedali psichiatrici o reparti o divisioni separati: ciò
non toglie che, il medico curante possa vietare (come avviene, del resto, in
qualsiasi ospedale) in un determinato momento il colloquio con il ricoverato
per speciali e obiettive esigenze, derivanti dallo stato attuale della
malattia; ma per il resto, e cioè per i motivi soggettivi, giudice della
propria riservatezza, del proprio disagio, ecc., è lo stesso ricoverato, quale
titolare del diritto di comunicazione.
Tate principio, che la «legge
180/1978 sancisce finanche per i ricoverati sottoposti a trattamento
sanitario obbligatorio», a più forte ragione vale per i ricoverati della «Casa Divina Provvidenza», che, come ricordato
dagli stessi direttori sanitari nel parere esibito sono «tutti (. . .) dimissibili».
Nessuna «peculiare caratteristica delle forme morbose
esistenti in ospedale» può essere, pertanto, invocata per persone
dichiaratamente «dimissibili», che possono lasciare
l'ospedale quando lo vogliano e, se finora in gran
parte non lo hanno ancora fatto, è perché non sanno dove ricrearsi
un'esistenza libera e dignitosa né, come è detto nel parere, gli «Organi provinciali e regionali» vi hanno provveduto, comunicando
«dove, come e quando essi avrebbero potuto essere collocati».
L'ultima osservazione riguarda il preteso «annullamento
del segreto professionale»: i ricorrenti non hanno chiesto di conoscere la
diagnosi della malattia o altra attività sanitaria coperta dal segreto
professionale, nel quale non rientra certamente «l'identificazione del
ricoverato», che sarà lo stesso ricoverato, ove lo
ritenga opportuno, a fornire.
Nessuna valida ragione, in conclusione, giustifica,
dopo la legge 180/1978, un trattamento differenziato e deteriore, quanto
all'effettività del godimento dei diritti civili, e in particolare di quello di
comunicazione, degli infermi di mente rispetto agli altri infermi, quasi ch'essi debbano continuare ad essere oggetti da «custodire»
e «sorvegliare», come previsto dall'abrogata legge 36/1904.
Conseguentemente, appare più che lambito dal fumus boni iuris il diritto dei ricorrenti - non solo della G.S. e
del M.C., per cui nessuna
contestazione precisa è stata formulata, ma anche del «Comitato per
l'attuazione della legge 180/ 1978» - di comunicare con i ricoverati nei luoghi
abituali di vita all'interno dell'ospedale e, quindi, di accedervi
liberamente, come liberamente, ancorché nel rispetto del regolamento, si accede
in qualsiasi ospedale e, salvo che non vi osti momentaneamente lo stato della
loro malattia, si comunica con i degenti, se questi lo ritengano opportuno.
L'esistenza di un pregiudizio può considerarsi in re
ipsa per il fatto che dall'impedimento denunciato
può derivare una contrazione dei diritti civili dei ricorrenti con negativi
riflessi sull'interesse collettivo, e per la G.S., anche individuale, alla tutela della salute mentale, che
essi perseguono.
L'irreparabilità del danno consegue alla natura
dello stesso, che, incidendo, come s'è detto, sui diritti civili, inerenti al «pieno
sviluppo della persona umana» (art. 3 cpv. Cost.), appare in suscettibile di
valutazione economica e, quindi - nel giudizio di merito -, di risarcimento.
Nulla sulle spese in questa fase cautelare.
P.Q.M.
Ordina alla Congregazione religiosa delle suore ancelle della Divina Provvidenza - ospedale
psichiatrico di Bisceglie, in persona del legale
rappresentante, di non impedire ai ricorrenti il libero ingresso nei luoghi,
abituali di vita dei degenti all'interno dell'ospedale e la comunicazione
degli istanti con essi.
Fissa ai ricorrenti il termine perentorio di giorni
sessanta dalla notificazione della presente ordinanza per l'inizio del
giudizio di merito dinanzi al giudice competente.
IL PRETORE
Nicola Colaianni
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