Prospettive assistenziali, n. 52, ottobre - dicembre 1980
Allegato
ALCUNE NOTE IN MERITO
AI GRUPPI DI FAMIGLIE AFFIDATARIE
GIUSEPPE ANDREIS (1)
Prendere un bambino in affidamento familiare
significa inserirlo in un gruppo, la famiglia affidataria,
spostandolo da un altro, la famiglia d'origine o affidante.
Le vicende del bambino nella nuova situazione
possono essere osservate e conosciute razionalmente usando i concetti e i
riferimenti di una psicologia e psicopatologia individuali, cioè localizzando
l'attenzione prevalentemente su di lui e seguendolo poi nella sua evoluzione,
intesa come maturazione della personalità.
Questa impostazione della clinica infantile è pur
sempre valida, attuale, necessaria, soprattutto quando vengono
affidati bambini con gravi carenze di strutturazione della personalità, per i quali
un buon affidamento può ottenere effetti positivi paragonabili a quelli di una
vera e propria psicoterapia. Ma poiché il bambino è
diventato anche membro di due gruppi familiari, egli si viene
contemporaneamente a trovare come attraversato e coinvolto dalle
corrispondenti dinamiche di relazione interpersonale.
Usando una immagine, egli si
trova all'incrocio di una specie di «otto» i cui due cerchi corrispondenti
rappresenterebbero le due famiglie.
La sua vicenda è contemporaneamente intra e interpsichica. Se ci sono dei problemi che è più utile trattare secondo la clinica individuale che
privilegia l'«intra»-personale, ci sono altri aspetti
di questa vicenda che attendono di essere affrontati con l'ottica che sarebbe
loro specifica, cioè col gruppo, nel quale assumono
maggiore importanza le dinamiche inter-personali.
Del resto, in questi anni, sul piano della ricerca,
l'attenzione al momento della relazione interpersonale ha assunto una
rilevanza centrale nella pratica dell'operatore
sociale. E ciò non solo riferendomi a quelle scuole dette
«sistemiche» che hanno introdotto e portato avanti il discorso del soggetto nei
gruppi sociali, ma pensando anche all'evoluzione della psicoanalisi, la quale
ha spostato gradualmente il suo interesse dagli aspetti più centrati
sull'individuo quali «le difese» a quelli più relazionali quali il «transfert
- controtransfert».
Benché anche nei nostri servizi
questa posizione sia largamente acquisita sul piano teorico, sono
ancora vive tuttavia una difficoltà, per così dire, «ideologica» e una
difficoltà pratica che limitando l'attuazione dell'affidamento in genere,
ostacolano, in specie, la formazione di gruppi di famiglie affidatarie.
La difficoltà «ideologica» riguarda una concezione solo sociale della problematica del singolo
individuo e porta a mantenere fermo il principio di non separare il bambino
dalla sua famiglia, ma di intervenire su di essa nel suo insieme, per rimuovere
le cause della difficoltà.
A questa posizione, che condivido
in parte per alcune fondamentali analisi della devianza che la caratterizzano,
rispondiamo che non si può però prescindere dalla constatata, quotidiana
impotenza del singolo operatore o anche dei servizi ad attuare la complessa
serie di interventi collettivi e sociali che sarebbero necessari. Si pensi a
casi come quelli di un genitore alcoolista, o a certi singolari rapporti di
coppia che evolvono in tensioni incontrollabili e
autodistruttive e che coinvolgono in modo grave uno o più figli; ma anche in
casi più chiari, quando ad esempio il problema è la mancanza di un alloggio
adeguato, non sempre succede che, ottenutolo, venga realmente superata la
problematica psico-patologica della famiglia.
Si rischia allora, mantenendo un approccio di questo
tipo anche in pratica, e non limitandosi ad ispirarsene sul piano culturale, di
non fare né l'intervento sociale né l'intervento sul
singolo. Ciò è palesemente contraddittorio quando si
tratta di bambini, per i quali l'aiuto può essere anche visto come una
importante prevenzione di problemi sociali del futuro adolescente e adulto.
Mi pare, comunque, che vi
sia una possibilità di intervento che ritengo potenzialmente importante e
comunque da attuare (non mi risulta che sia già stato fatto a Torino): le
riunioni di caseggiato, fra l'altro, rappresenterebbero un corretto modo di
recepire l'istanza di prevenzione e non emarginazione che è presente
nell'impostazione «sociale». Si è anche pensato a riunioni di famiglie
d'origine, ma il rischio di «ghettizzazione» nell'attuale lacerato tessuto sociale della città pare controindicare questa
ipotesi.
Nelle riunioni di caseggiato il problema della
famiglia affidante potrebbe essere calato con immediatezza nell'insieme degli
altri problemi umani, abitativi, sociali, sanitari, familiari degli inquilini.
Occorrerebbe cominciare dalle cosiddette «case rischio».
La seconda difficoltà che ostacola in parte lo stesso
affidamento, ma soprattutto l'attuazione di gruppi di famiglie affidatarie,
dipende, a mio modo di vedere, dalla scarsità di operatori
dei servizi che si rendono disponibili per un lavoro di gruppo. Sovente il
disinteresse e la diffidenza verso il gruppo dipende
da una specifica carenza di formazione in questo campo. Viene
così privilegiato il tradizionale rapporto individuale di faccia-faccia per la
probabile ragione che in esso il «buon senso», con cui l'operatore crede di
compensare la carenza di formazione, pare meno insufficiente a condurre il
rapporto stesso.
Motivo di fondo per cui i
gruppi di famiglie affidatarie sono opportuni e necessari è dare spazio e
occasione di mobilitare e riordinare le energie psichiche individuali e
familiari che l'affidamento ha smosso.
Infatti, inserire un bambino nella
propria famiglia implica che il gruppo familiare aumenta la quantità
delle proprie relazioni significative; inoltre non può mantenere, nelle
vecchie relazioni, solo i precedenti modi di comunicazione. Questi erano il
risultato di un aggiustamento, nel tempo, dei rapporti reciproci nel modo di un
graduale apprendimento di ciò che può dare ansia al
membro più potente (genitore, fratello maggiore o comunque in posizione
temporaneamente privilegiata) e da favorire ciò che non dà reciprocamente
ansia. Ma l'inserimento di un «estraneo», che entra
nel gruppo portando con sé un suo passato, delle esigenze e abitudini non
filtrate, né rapidamente filtrabili nel modo suddetto, crea una situazione di
tensione assai forte, anche se non coscientemente percepibile nella sua intera
portata. La risposta a questo disquilibrio, quando è positiva, porta all'ampliamento del campo di azione e di
comunicazione della famiglia e della utilizzazione a tale scopo di energie
latenti, perché non necessarie nel suo precedente più rigido funzionamento.
È per questo motivo che l'affidamento non si limita ad
essere una iniziativa educativo-assistenziale,
ma per bambini con problemi di personalità mette in moto, quando è valido, un
processo psicoterapeutico.
L'energia per la guarigione è attinta da questi
dinamismi i quali sono potenzialmente assai più ricchi e più forti dei
corrispondenti rapporti educativi delle usuali situazioni di
istituto.
È intuitivo nondimeno che educatori capaci di
mettersi realmente in gioco possono dare al bambino più di una famiglia che
tende invece a irrigidirsi per non cambiarsi.
Il bambino può crescere, può maturare, può addirittura
guarire perché si inserisce in un processo che nella
stessa famiglia è evolutivo. È vero anche che nei casi di non riuscito
abbinamento bambino-famiglia questa stessa energia viene
messa al servizio di un rafforzamento della rigidità, anziché di una sua
rottura.
L'aggressività distruttiva ed espulsiva domina allora
il campo in modo più o meno visibile ed esplicitato, e
la crisi lascia infine il bambino e la famiglia su posizioni talvolta più arretrate
del punto di partenza.
Ogni dinamica ha sempre due
versanti: uno positivo e uno negativo. Se da un lato non ci si deve mai
scoraggiare dai tentare strade terapeutiche e
assistenziali forse meno comode, ma più ricche di potenzialità, occorrono nondimeno
riflessione e preparazione per avventurarvisi e percorrerle.
* * *
I genitori affidatari vengono al gruppo di discussione portando con sé questi conflitti i quali si
presentano come rappresentazioni, idee, emozioni in movimento, aspirazioni che
sono, per così dire, venute a galla, ma che attendono di essere ordinate in
modo da coesistere all'interno di ognuno come parti di sé sufficientemente armonizzate.
Il principale fattore che agisce nel gruppo è la
creazione di nuovi canali di rapporti e di comunicazione facendo leva sulle
energie nascoste, inutilizzate dei singoli componenti
e del gruppo familiare nel suo insieme; fa tuttavia da ostacolo il fatto che i
modi di rapporto che sono stati abbandonati o quelli che non sono mai stati
aperti corrispondono sovente a tratti di particolare vulnerabilità nel senso
dell'ansia, del dispiacere, del timore di singoli membri della famiglia. Vi è
una tendenza a non comunicare su quei piani, su certi argomenti, in certi modi.
Nondimeno il bambino affidato «provoca», per una
sicura intuizione, proprio le zone di maggior sensibilità e rigidità in uno
sforzo di spingere la famiglia affidataria a
rifiutarlo e nel quale si impegna, non è paradossale
dirlo, «totalmente». Questa condotta gli serve sia da
difesa dal cambiamento interno, che sente necessario ma anche pericoloso, sia
da prova della solidità delle nuove figure parentali in quanto atte a reggere
l'impegno sul piano esistenziale del cambiamento stesso e conseguentemente a
poter anche sostenere e svolgere il compito vitale di figure di
identificazione.
Nel gruppo di famiglie affidatarie le sfaccettature
dei modi personali di vedere, compresi quelli che il
coniuge sente personalmente ansiogeni e da evitare, possono essere più
facilmente espressi «proiettandoli», per così dire, su altri membri del gruppo
diversi da lui. Le risposte che il singolo può ricevere possono essere positive e non bloccanti nella misura in cui l'altro, nel
gruppo, ha tolleranza verso quel problema, o quella difficoltà; la comunicazione
dell'esperienza «in casi simili» può allargarsi ad altri membri, i quali
intervenendo a rispondere, danno vita a uno scambio che si allarga al di là del
tema inizialmente trattato, e che trasmette ora anche nuove valenze, quali
atteggiamenti di interesse, simpatia, partecipazione, appoggio, ecc.
Anche le dinamiche negative
di aggressività e rifiuto possono comparire e svolgervi più apertamente e
visibilmente la loro funzione dialettica.
Gradualmente l'interesse dei membri del gruppo si orienta dalle impostazioni conoscitive, culturali,
morali, ideologiche, abituali e proprie di ogni famiglia, verso ciò che succede
nel «qui e adesso» del gruppo, cioè nella immediatezza e vivezza della nuova
situazione. In questo punto il gruppo si rivela un sorprendente e rassicurante
contenitore di quelle ansie e timori che la nuova esperienza dell'affidamento
aveva sollevato. Appoggiandosi al gruppo la coppia di coniugi trova i sostegni
sufficienti per arrischiarsi ad utilizzare le risorse potenziali presenti in sé
e nell'insieme della famiglia; procede così l'evoluzione verso un nuovo
equilibrio di coppia e di famiglia caratterizzato da livelli più alti di
libertà di comunicazione e di possibilità dei singoli.
Mi avvio a concludere perché
questo articolo è già troppo lungo rispetto ai limiti che mi ero posto, benché
proprio il discorso che sto ora facendo sia tutt'altro
che esaurito, ma rappresenti nient'altro che il punto di partenza di una
trattazione più vasta. Mi sono riferito infatti a una
situazione di gruppo che è quella che io preferisco, ma che non è assolutamente
l'unica che mi è successo di sperimentare. Vi sono gruppi di famiglie
affidatarie che cercano altre strade, per «trovare» le possibilità di nuovi
equilibri. Talvolta, ad esempio, viene cercata una
coesione di tipo più ideologico con un «noi» del gruppo che tende a prendere
corpo attorno a delle esigenze di attuare un impegno politico in campo
assistenziale e della sensibilizzazione sociale; altre volte il gruppo trova
difficoltà a superare una posizione di dipendenza dai conduttori e rimane per
lungo tempo su un piano di comunicazione caratterizzato dalla ripetitiva
ricerca della «giusta tecnica di comportamento», ecc.
Tralascio ugualmente altre importanti questioni che
voglio comunque elencare quali la frequenza di
riunione dei gruppi, le modalità, la durata, i rapporti fuori gruppo fra
singoli membri e gli operatori, o fra questi e le famiglie. A questo proposito
mi riferisco all'assistenza tecnica che non si esprime solo nel gruppo, ma viene attuata soprattutto mediante visite al bambino e alle
famiglie da parte dei tecnici, e questi talvolta sono gli stessi che sono
presenti nel gruppo.
Accettando di scrivere queste brevi note mi proponevo soprattutto lo scopo di contribuire a tenere vivo,
nel discorso sull'affidamento, la seguente idea: benché il rapporto
strutturante fondamentale sia quello bambino - famiglia affidataria, questo
non deve però essere considerato a sé stante, come succedeva nella vecchia
pratica assistenziale di un certo baliatico, ma piuttosto deve essere visto
come un momento di una catena di rapporti che attraverso i gruppi familiari si
estende ai più ampi gruppi di caseggiato e di quartiere e, al limite, al
quartiere stesso. In particolare è possibile paragonare il rapporto famiglia affidataria-gruppo di famiglie
affidatarie, al rapporto che il bambino ha con la famiglia affidataria.
Come il bambino «sta» alla famiglia, così questa nei momenti caldi della crisi tende a «stare» al gruppo,
nel senso di una rassicurazione, uno scarico, un appoggio e anche di più, una
autentica evoluzione. Ciò può risultare decisivo per
le sorti dello stesso affidamento.
(1) Psicologo. Provincia di Torino -
Servizio psichiatrico di zona - Via S. Ottavio 48. Già membro dell'équipe provinciale
curante il primo servizio di affidamento familiare
della Provincia di Torino.
www.fondazionepromozionesociale.it