Prospettive assistenziali, n. 52, ottobre - dicembre 1980

 

 

DIBATTITO

 

 

GRUPPO «COME NOI»

 

Rappresento il gruppo «Come noi» che da qualche mese collabora con il Tribunale per i minorenni di Torino per quanto riguarda le ado­zioni internazionali.

Il gruppo «Come noi» è nato circa quattordici anni fa ed è formato da famiglie volontarie (cir­ca 150) che si autotassano per finanziare inizia­tive di promozione umana e sociale delle popo­lazioni rurali, collaborando allo sviluppo delle stesse verso l'autosufficienza e l'autogestione.

Il nostro intervento si svolge principalmente nel sud India dove a Vellore, vicino a Madras, possiamo contare sulla collaborazione di un'or­ganizzazione locale «The Plough» formata da famiglie indiane e avente le nostre stesse carat­teristiche. L'ultimo progetto, in fase di realizza­zione, ha ottenuto un riconoscimento ufficiale ed un sostanzioso contributo economico da par­te della Comunità Economica Europea.

Nell'ambito di questo impegno, alcune famiglie del gruppo organizzatore di «Come noi» hanno adottato bambini indiani ed è venuto naturale che esse mettessero a disposizione la loro espe­rienza verso gli amici del gruppo, od anche ester­ni al gruppo, che avevano intenzione di fare que­sto passo.

Nel corso degli anni abbiamo, pertanto, po­tuto verificare personalmente l'importanza di que­sto scambio di esperienze ed anche come l'ado­zione internazionale si stia sempre più diffonden­do come domanda. Sappiamo, per i nostri contat­ti con l'India, che laggiù i bambini in stato di ab­bandono presso orfanotrofi sono molto più nu­merosi che in Italia, date le diverse condizioni socio-economiche. Ci siamo quindi offerti, nell'autunno scorso, di collaborare con il Tribunale per i minorenni di Torino per agire da tramite fra questi due bisogni.

Premesso che noi non entriamo in merito alla analisi circa l'idoneità delle coppie all'adozione che viene svolta totalmente dalle assistenti so­ciali dell'ufficio unico adozioni del Tribunale per i minorenni, il nostro servizio volontario si svol­ge a tre livelli:

a) fornire alla coppia un'assistenza tecnica per tutto quanto riguarda la parte burocratica, la­sciando però ai diretti interessati il compito di prepararsi i documenti necessari, le relati­ve traduzioni, asseverazioni, ecc. ed interve­nendo soltanto al momento della spedizione di tali documenti in India;

b) aiutare le coppie a maturare ed approfondire la loro decisione attraverso incontri presso le famiglie del nostro gruppo che hanno già vissuto questa esperienza;

c) essere promotori di momenti di incontro per mantenere collegate tra loro le famiglie che hanno adottato bambini stranieri.

Per tutti noi, l'adozione dei nostri bambini in­diani è stata una naturale conseguenza del no­stro interesse per i problemi di questo paese, in mancanza del quale ci sembra che questo tipo di adozione diventi privo di significato. In altre pa­role occorre, a parer nostro, che la famiglia adot­tiva si interessi profondamente della realtà dalla quale giungerà il suo bambino, proprio per po­terlo comprendere ed amare in modo più com­pleto ed anche perché questo gesto non diventi un fatto di ripiego.

A nostro avviso l'adozione internazionale non è affatto da considerarsi come un'adozione più facile ma, al contrario, richiede una preparazione più approfondita della coppia. Essa, infatti, oltre alla capacità di dare a questo bambino tutto l'af­fetto e la sicurezza che solo l'amore di due ge­nitori può assicurare, deve anche essere in gra­do di aprirsi e di tenere i collegamenti con la terra da cui il bambino arriva e della quale lui in qualche modo deve continuare a sentirsi par­te, pur integrandosi nella realtà in cui vive. Que­sto risulterà facilitato se la coppia continuerà a tenere i contatti con altri che vivono questa espe­rienza.

Per quello che riguarda più particolarmente i problemi che questo tipo di adozione presenta, dobbiamo premettere che la nostra esperienza è per ora limitata e quindi non è sufficientemente valida dal punto di vista statistico.

In ogni caso, possiamo affermare alcune cose:

a) a nostro avviso è un grosso rischio far giun­gere in Italia bambini che abbiano superato i quattro anni, in quanto il trauma del cambia­mento totale ed improvviso di ambiente, lin­gua, abitudini sarebbe molto più difficilmente superabile, e quindi ci sarebbero dei grossi problemi di adattamento (si pensi, ad esem­pio, all'inserimento nella scuola);

b) una componente da tener presente è lo stato di salute in cui questi bambini arrivano. So­vente presentano i caratteri della denutrizio­ne, accompagnati in alcuni casi da malattie della pelle, infezioni gastro-intestinali, affezioni bronchiali. A tutto questo i genitori devono essere preparati;

c) per quanto riguarda l'inserimento nell'ambien­te, almeno all'inizio, il problema non si pre­senta. Semmai c'è il problema opposto: facil­mente questi bambini attirano l'attenzione e la curiosità benevola della gente per cui c'è il rischio che si aspettino di essere sempre il centro dell'attenzione e non riescano mai ad avere un rapporto autentico con il prossimo. Lo stesso rischio possono correre i geni­tori che vedono tutto facile all'inizio e non si preoccupano quindi di preparare se stessi ed il bambino alle eventuali difficoltà future;

d) l'appartenere ad una razza diversa fa saltare continuamente agli occhi della gente il fatto che siano bambini adottivi e quindi questo è un argomento che sentono continuamente. Per questo motivo bisogna porre particolare atten­zione a come questa realtà viene loro presen­tata. Bisogna innanzitutto che i genitori abbia­no le idee chiare sul perché l'hanno voluto e a questo si ricollega il discorso dell'interesse che la famiglia adottiva deve porre nei con­fronti del paese da cui il bambino arriva perché nella misura in cui questo interesse è autentico, si giustifica la scelta che essi han­no fatto del bambino stesso. È comunque un problema da affrontare al più presto, appena possibile, inserendo, con semplicità, nei rap­porti con il bambino questa realtà di aver avuto altri genitori, ai quali lui deve il dono della vita, purtroppo realizzato in situazioni di difficoltà estrema che costituiscono, al di là di ogni responsabilità personale, una sostanzia­le ingiustizia e motivo per il futuro adolescen­te di pensare ai suoi primi genitori senza la convinzione di essere stato rifiutato. Ancora una volta il rapporto con il bambino si intrec­cia intimamente con il rapporto verso il suo paese d'origine.

Noi crediamo fermamente nell'adozione inter­nazionale perché per noi tutti i bambini del mon­do hanno il medesimo diritto all'affetto di una famiglia e, a tal fine, i confini non devono rappre­sentare delle barriere, anche perché abbiamo la speranza che questo contribuisca all'avvicina­mento fra i popoli e al superamento dei pregiu­dizi razziali.

 

 

LILIANA BAL E CARLA CASTAGNERO

Ufficio unico adozioni del Tribunale per i mino­renni di Torino (1)

 

Sulla base di una approfondita analisi del la­voro svolto in questi anni abbiamo constatato che, nella prassi, quelle che dovrebbero essere le caratteristiche peculiari dell'affidamento fa­miliare, e cioè l'essere un provvedimento tempo­raneo sulla base del quale esista una accertata validità di base della famiglia di origine del bam­bino affidato, validità che sia garanzia di un suo successivo rientro nel nucleo originario, una vol­ta risolto il problema che ha determinato l'allon­tanamento, sono andate progressivamente sna­turandosi.

Infatti, esaminando nella loro concreta realtà le singole situazioni, emerge chiaramente come siano una percentuale minima gli affidamenti fa­miliari veri e propri, mentre nella maggioranza dei casi si tratta in realtà di affidamenti spuri, che mascherano vere e proprie adozioni gestite e retribuite per tempi indefiniti dai vari enti e prive però di sufficienti garanzie giuridiche sia per la famiglia affidataria che per il minore.

Sulla base dei dati esaminati ci sembra di poter individuare il seguente ventaglio di possibilità:

1) affidamenti in cui non vi sono più legami con la famiglia di origine che ormai se ne disin­teressa;

2) affidamenti che risultano «di comodo» per la famiglia originaria che non si impegna a mi­gliorare in alcun modo la propria situazione, in vista di un rientro in famiglia del figlio;

3) affidamenti in cui vi è un decadimento della patria potestà che i genitori biologici non hanno accettato per cui esigono di continuare a vedere il bambino e talvolta di fatto hanno ancora dei contatti che si rivelano estremamente distur­banti;

4) affidamenti in cui viene continuamente ri­mandato, con vari pretesti, il rientra in famiglia, pur essendovi stato in precedenza un impegno in tal senso.

Le conseguenze, sul piano psicologico, del continuo stato di precarietà affettiva e di provvi­sorietà materiale inerente alle situazioni finora delineate, risultano estremamente deleterie per un equilibrato e sano sviluppo psico-fisico del bambino. Infatti lo stato di conflittualità che vie­ne a crearsi inibisce o intacca nel bambino la fi­ducia che egli può nutrire nei confronti degli affi­datari, sia nel caso in cui egli ha vissuto negati­vamente le esperienze relative alla famiglia di origine (e vive di conseguenza come ingiusta co­strizione le visite permesse ai suoi), sia nel caso opposta, in cui l'allontanamento dalla famiglia di origine é stato percepito dal bambino come vio­lenza psicologica verso i legami affettivi (se pu­re ambivalenti) che prova verso i genitori ed altri componenti della famiglia.

In entrambi i casi il minore riversa, più o me­no inconsciamente, la propria sofferenza e l'ag­gressività emergente sugli affidatari che (incon­sciamente) egli incolpa della situazione venuta­si a creare.

La famiglia affidataria, da parte sua anche se, nei casi migliori, preparata e disponibile, si tro­va così a dover far fronte, nel primo caso, al di­sorientamento del bambino che chiede loro: «se è vero che mi volete bene perché mi fate andare (o mi costringete a ricevere) da quelli là?» (i genitori), nel secondo caso a reggere l'aggressi­vità e la disperazione sottesa alla domanda op­posta: «se è vero che mi volete bene, perché non mi lasciate tornare a casa mia?».

Rispondere che questa è una decisione presa dal Tribunale e qualsiasi altra risposta, se pur credibile e logica sul piano razionale non tran­quillizza certo il bambino né elimina la sua ag­gressività e sofferenza.

In particolare per i bambini più piccoli (fino ai tre anni di vita) a causa della confusione inge­nerata dalla mancata identificazione di una sta­bile figura materna che viene confusivamente percepita come sdoppiata (e di fatto lo è: madre reale - madre affidataria) i traumi agiscono ad un livello profondo, anche se apparentemente il comportamento di tali bambini può non esprime­re segnali preoccupanti.

Inoltre i rapporti che si instaurano tra le due famiglie, qualora non esistano i presupposti di validità di base del nucleo originario e di tempo­raneità dell'affidamento stesso, sono inevitabil­mente caratterizzati da una competitività più o meno manifesta che si ripercuote negativamen­te sull'equilibrio del bambino. Inoltre, con l'in­serimento del figlio in un affidamento familiare, quasi sempre viene a mancare nella famiglia originaria lo stimolo a migliorare la propria situazione in vista del rientro del figlio nel proprio nucleo.

Ci sembra pertanto che, qualora si configurino situazioni diverse da quella dell'affidamento fa­miliare vero e proprio (così come delineato all'inizio) andrebbero tenute presenti alcune indi­cazioni di minima.

Sarebbe auspicabile che nei primi tre anni di vita del bambino i tempi dell'affidamento non superassero i sei mesi (periodo questo che ci sembra sufficiente perché una famiglia adeguata­mente sostenuta ed aiutata dai servizi sociali possa dimostrare quanto meno una buona volon­tà di migliorare la propria situazione, tenendo presente che invece per il minore il tempo in questione può essere già traumatizzante sul pia­no psicologico e tale da turbare il suo sviluppo). Per i bimbi in età superiore, cioè dai tre agli otto anni il tempo di affidamento dovrebbe tendenzial­mente essere lo stesso, potendo al massimo giungere ad un anno per situazioni molto com­plesse.

Ci sembra comunque indispensabile, nel mo­mento in cui il reinserimento nella famiglia di origine si profilasse come impossibile, richiede­re tempestivamente la apertura o riapertura del­lo stato di adottabilità.

Sulla base degli affidamenti familiari realizzati con adolescenti e rivelatisi troppo costosi in ter­mini di coinvolgimento psicologico in rapporto ai risultati ottenuti, ci sembra di poter vedere un utilissimo impegno da parte delle coppie o delle famiglie in una azione di sostegno a carat­tere continuativo anche se limitato, per lo meno inizialmente, ai weekend e a tutti i periodi di vacanza.

Ci sembra infine utile riesaminare la prassi del baliatico in funzione dell'esperienza acquisi­ta in tema di affidamenti familiari. Siamo dell'idea che debba essere rivalutato questo prov­vedimento temporaneo in attesa che venga defi­nita giuridicamente la posizione del minore. A tale scopo è però necessario una seria e rigorosa selezione e preparazione delle famiglie che si dichiarano disponibili in modo che non si verifi­chino quelle ambiguità psicologiche e quei fra­intendimenti cui gli affidamenti familiari che non rispondono ai requisiti che abbiamo messo in evidenza, hanno, troppo sovente, dato luogo.

In tale prospettiva, le famiglie scelte per as­solvere a tale compito svilupperanno delle aspet­tative realistiche nei confronti del bambino loro affidato. In termini psicologici questo significa, con un atteggiamento di realtà estremamente chiaro e preciso, limitare le fantasie e gli inve­stimenti affettivi che vengono effettuati troppo spesso a danno del bambino, coinvolto in una rete di rapporti affettivi, senza sicurezza di con­tinuità e di controparte concreta.

In definitiva le caratteristiche dell'affidamento sono tali che esso costituisce uno strumento da usare in modo estremamente attento e dopo ap­profondita analisi riferita sempre alla specificità del caso. Allorquando esso sia stato invece usato indiscriminatamente come soluzione di como­do e/o di compromesso, si è constatato che le conseguenze psicologiche subite dal minore sono state forse incalcolabili nella loro drammaticità. Da tale constatazione emerge chiaramente come la soluzione dell'affidamento familiare sia stata talvolta il risultato dell'indecisione di cui (sia pure per l'oggettiva complessità della materia) si dibattono spesso gli operatori sociali e i giu­dici.

Dovrebbe esserci uno sforzo di chiarezza, fin dall'inizio, per individuare quale strada percor­rere (adozione da un lato, recupero del nucleo originario dall'altro), e poi percorrere detta stra­da fino in fondo.

 

(1) A cura di Liliana Bal, psicologo, e di Carla Casta­gnero, assistente sociale, dell'Ufficio unico adozioni del Tribunale per i minorenni di Torino.

 

 

FRANCO DANTE

 

Sono incaricato dei servizi socio-assistenziali del Comune di Torino che si occupano di minori ed handicappati, quindi anche dell'affidamento familiare.

Innanzi tutto volevo darvi alcuni dati informa­tivi sul servizio dell'affidamento familiare a To­rino.

Già nel 1976 l'Amministrazione comunale di Torino ha deliberato il servizio dell'affidamento familiare. Gli affidamenti effettuati dal 1977 ad oggi (i primi affidamenti sono infatti partiti nel febbraio 1977) sono stati 205 di cui 133 tuttora in corso e 72 conclusi; di quelli in corso 123 sono di minori, 8 di minori handicappati, 2 di handicappati ultra-quattordicenni. Conclusi 72 di cui 67 relativi a minori, 2 relativi a minori handi­cappati, 2 a handicappati ultra-quattordicenni e 1 ad anziano. L'unico caso.

Questi sono unicamente gli affidamenti dispo­sti dall'Amministrazione comunale riguardanti persone di competenza dell'Amministrazione co­munale.

Attualmente, però, il Comune, in seguito al DPR 616 e alla legge 641, ha in carico i casi ex ENAOLI; inoltre, in seguito alla convenzione con la Provincia, anche i casi IPIM ed ex OMNI vengono gestiti dai servizi socio-sanitari di cir­coscrizione.

In totale si hanno i seguenti affidamenti (oltre ai 133 sopra citati) 32 affidamenti dell'ex Enaoli, 15 dell'ex OMNI e 18 dell'IPIM per un totale di 65. Quando parlo degli affidamenti dell'ex Enaoli, mi riferisco agli affidamenti a non parenti, per­ché, come sapete, l'Enaoli molto spesso affidava il minore a parenti tenuti agli alimenti. Una set­tantina sono gli affidamenti di minori a parenti.

Il Comune di Torino, con delibera dell'ottobre scorso, ha disposto l'aumento del contributo pre­visto per l'affidamento adeguandolo, da 150.000 più o meno il 30% a 190.000 più o meno il 30%, e quindi con un arco di possibilità che oscilla da 130.000 a 250.000.

Per ciò che concerne la proposta concreta avanzata dall'ANFAA relativa ad una scelta prio­ritaria di intervento nei riguardi dei minori privi­legiando la fascia più giovane della popolazione da 0 a 6 anni, identico progetto di intervento è allo studio da parte dell'Assessorato alla sani­tà e ai servizi sociali. Si sta approntando un pia­no di prevenzione e di deistituzionalizzazione dei minori da zero a 10 anni partendo dalle conside­razioni già fatte dall'ANFAA: una maggiore pos­sibilità di reperire famiglie affidatarie per bambi­ni piccoli, la maggiore possibilità di attivare ser­vizi primari: asili nido, scuole materne ed elemen­tari per minori da zero a 10 anni. In questa dire­zione, come uffici, siamo in contatto con le scuo­le civiche d'infanzia, avremo anche un incontro con loro per riproporre il problema dei minori che hanno bisogno della scuola materna non solo a aprile, maggio, giugno, cioè quando sono aperte le iscrizioni, ma in tutti i periodi dell'anno.

Sull'istituzione di nuove comunità alloggio di pronto intervento il Comune in particolare si sta impegnando. Dall'esperienza riteniamo, come uf­ficio comunità-alloggio, che sia prioritaria la co­stituzione di comunità alloggio di pronto-inter­vento per bambini da zero a 10 anni. Attualmen­te, ne funziona solo una, ma entro breve tempo, a Torino, se ne aprirà una in via Moncrivello ed altre due o tre sono previste entro la fine del­l'anno.

A questo proposito voglio però, far notare al­cune esperienze negative vissute, che denotano una realtà sociale che, molto spesso, osteggia le comunità-alloggio. Si, posso citare due esempi, di cui una, conosciuto dagli amici dell'ANFAA: la comunità alloggio che era stata prevista in Via Dina, nel quartiere Mirafiori-sud, quindi in un'area di rilievo notevole per i minori e dove purtroppo la popolazione, o per lo meno una par­te della popolazione ivi abitante, ha osteggiato e sta ancora osteggiando la costituzione di questa comunità alloggio chiedendo in suo luogo l'uffi­cio dell'anagrafe per cui sono già stati destinati locali poco distanti.

Questa sera ho un incontro con l'amministra­tore dello stabile sito in Via Cernaia 28-30 dove c'erano i locali ex-Enaoli. Infatti allorché gli in­quilini hanno saputo che l'Amministrazione co­munale aveva deliberato l'istituzione di una co­munità alloggio per minori, sono insorti prote­stando.

Questi sono problemi, purtroppo reali, con cui ci scontriamo e di cui dobbiamo tener conto, e che dimostrano ancora di più l'esigenza di una sensibilizzazione della popolazione su questi pro­blemi. Tuttavia, nonostante queste ed altre diffi­coltà entro due mesi, dovrebbe aprirsi la comu­nità di Via Moncrivello ed entro la fine dell'anno altre due comunità-alloggio di pronto intervento.

L'Amministrazione, inoltre sta per deliberare un provvedimento concernente l'affidamento a parenti tenuti agli alimenti in base all'art. 433 del codice civile.

Per questi casi di affidamento, motivato da par­ticolari situazioni, cioè da carenze educative, da malattia prolungata, da stato di tossicodipen­denza o alcoolismo, l'Amministrazione comunale, con la delibera che uscirà, predisporrà anche un adeguato contributo per far sì che appunto, all'interno del nucleo familiare stesso, sia anche privilegiato l'inserimento dei minori. Questo, na­turalmente, come potete immaginare, è cosa che senz'altro può salvare quel discorso di reinseri­mento nella famiglia d'origine, perché in questo caso c'è un mantenimento del nucleo familiare d'origine, anche con altre figure parentali quali il nonno, lo zio, la sorella.

Non avrei altro, per ora, da aggiungere.

 

 

GIOVANNA BODRATO

 

Ho alcune cose da chiedere.

Qual è il numero dei bambini ricoverati? In questo numero sano compresi tutti i bambini istituzionalizzati o solo quelli per cui gli enti lo­cali o altri enti pubblici pagano le rette?

Vorrei poi sapere se gli operatori dell'ufficio unico per le adozioni fanno riferimento solo al Tribunale per i minorenni o anche agli Enti locali. Inoltre è un ufficio centralizzato autonomo op­pure agisce come supporto tecnico degli ope­ratori degli Enti locali?

 

 

FRANCESCO SANTANERA

 

L'anagrafe istituita dalla Regione Piemonte do­vrebbe riguardare tutti i minori ricoverati in Piemonte.

Mancano però i minori piemontesi ricoverati in altre Regioni.

Devono essere avanzate riserve sui dati dell'anagrafe regionale in quanto c'è un'altra ricer­ca, fatta nello stesso periodo dalla Caritas, dalla quale risulta che i minori ricoverati in istituti col­legati con la chiesa sono 7.800.

Secondo la Regione Piemonte sarebbero 5.500, quindi la differenza è notevole.

Il numero dei minori rilevati dalla Caritas do­vrebbe essere minore di quello accertato dalla Regione Piemonte in quanto la Caritas ha esclu­so tutti gli istituti non collegati con la chiesa.

 

 

FRIDA TONIZZO

 

Per quanto riguarda l'applicazione della legge sull'adozione speciale, oltre all'invio degli elen­chi trimestrali dei minori ricoverati a loro carico, gli Enti locali (Comuni, Consorzi di Comuni, Co­munità montane e Province) devono segnalare al Tribunale per i minorenni i casi di quei bam­bini che presumono possano trovarsi in «situa­zione di abbandono materiale e morale», fornen­do tutta la documentazione necessaria ai Tribu­nale stesso per la valutazione della situazione (v. scheda proposta nella relazione introduttiva).

Una volta che i bambini sono dichiarati adotta­bili dal Tribunale per i minorenni, la preparazio­ne e selezione delle coppie che hanno dichiarato la loro disponibilità all'adozione, l'abbinamento (scelta della coppia idonea per ogni bambino di­chiarato adottabile) e l'affidamento preadottivo, cioè il momento successivo all'inserimento del bambino nella nuova famiglia, sono gestiti dagli uffici unici adozione (uno per provincia) che sono composti da assistenti sociali e psicologi inca­ricati specificatamente per questo dagli enti (Pro­vincia e Comune) a seguito d'accordi col Tri­bunale.

L'ufficio unico adozioni a Torino, che prima aveva sede presso l'IPIM, adesso è stato trasfe­rito direttamente all'interno del Tribunale per i minorenni nella nuova sede in C.so Unione So­vietica e direi che lavora alle dipendenze ope­rative dei giudici addetti.

 

 

RITA ANFOSSI

 

Sono operatore sociale nel quartiere S. Dona­to del Comune di Torino. Ho una serie di cattive­rie che voglio dire e che riguardano in parte la Amministrazione, in parte il Tribunale e, in par­te, gli operatori.

Noi abbiamo in piedi, nel quartiere, mi pare 23 affidamenti dal maggio 1977 ad oggi. Quindi non possiamo dire di avere una lunghissima espe­rienza.

Comunque, qualcosa c'è. Abbiamo riscontrato una serie di problemi che si sono aperti.

Il più grosso è, comunque, la nostra gestione come operatori di questo problema «affidamen­to», perché nonostante la bellissima delibera che il Comune di Torino ha, dietro non c'è poi molto, per cui a livello di quartiere, a seconda della disponibilità personale dei singoli operatori, si fanno o non si fanno affidamenti, anche perché, pare, non c'è volontà politica da parte della amministrazione. Per conto mio, affermazione di cui mi prendo la paternità (... o la maternità), ri­tengo sia difficile se non impossibile portare avanti in modo serio questo tipo di problema quando né a livello di formazione di operatori, né a livello di strumenti tecnici c'è stato dato qual­cosa in mano per farlo.

Del famoso, oramai famoso, seminario degli operatori di Torino che si è fatto dall'aprile '77, stiamo ancora aspettando di vedere gli atti.

Lo stesso ufficio centralizzato è nato da po­chissimo tempo, quindi, nel frattempo non c'è stata nessuna verifica sulla situazione degli affi­damenti nel Comune.

Non é stata fatta nessuna di quelle famose pubblicizzazioni a vasto raggio sulla città che ci sono state promesse. Soprattutto, per conto mio, non ci è stato mai imposto di fare degli affida­menti. Non perché queste cose devono essere imposte, ma perché la delibera è un atto pubblico e quindi anche di indirizzo del nostro intervento.

Però di fatto, non c'é mai stato imposto, non c'è mai arrivato un ordine di servizio in cui si dica: facciamo gli affidamenti, gli affidamenti van­no fatti. Soprattutto, non è mai stato chiarito il rapporto tra affidamenti e servizio di neuropsi­chiatria infantile, senza il quale non è assoluta­mente possibile, a mio giudizio, fare degli affi­damenti.

Perché non è possibile che un operatore so­ciale di qualsiasi tipo e qualsiasi formazione per­sonale possa avere, riesca a gestirsi in proprio gli affidamenti.

Questo vuol dire, nel nostro quartiere, non fa­re più nessun affidamento, non poter fare affida­menti di handicappati, non poter fare affidamenti di bambini con qualche problema.

Indipendentemente dal bambino che va in affi­damento, i problemi dopo un po' se li ritrova, an­che se in apparenza, sembrava il più tranquillo e il più pacifico di questo mondo.

Se non è possibile mettere in piedi il gruppo di maturazione delle famiglie, si gioca veramen­te sulla pelle degli affidatari. Cosa che di fatto a lungo andare non è decisamente molto seria.

C'è tutta un'altra serie di problemi rispetto, anche, al Tribunale per i minorenni. L'incremento selvaggio degli affidamenti può far diminuire, se non totalmente sparire, il di­scorso adottabilità. Perché, in effetti, soprattut­to se si vuol portare avanti il discorso di deistitu­zionalizzazione dei bambini da zero a 6 anni, vuol dire che dopo due o tre anni che il bambino è in affidamento, con quale coraggio si propone l'ado­zione. Ciò vuol dire, nella maggioranza dei casi, l'allontanamento del bambino da quella famiglia.

Se è possibile l'adozione che permetta al bam­bino di restare in quella famiglia d'accordo, se invece il bambino deve essere allontanato dagli affidatari, ecco, sinceramente, non so con quale coraggio si va ancora a proporre un'adottabilità che tronca tre, quattro, cinque anni di rapporto ottimale tra un bambino e una famiglia.

Oltre tutto, dico un'opinione personale, mi dà l'impressione che ai Tribunale, in fondo, faccia­no abbastanza comodo gli affidamenti familiari, perché così è tranquillo e può benissimo conti­nuare a non dichiarare adottabili i bambini.

La proposta dell'affidamento viene fatta sem­pre, la proposta dell'apertura dello stato di adot­tabilità non tanto sovente. Anche quando viene proposta, spesso finisce che non va avanti. Per­ché l'impressione che si continua ad avere è che il Tribunale è molto più duro con i bambini che con gli adulti. Cioè ogni tanto c'è da chiedersi se é un Tribunale per i minorenni o per gli adulti.

L'altra considerazione, che sembra contenuta anche nell'ultima relazione fatta dall'assistente sociale della Provincia di Novara, è che si abbia un pochino in testa un affidamento da manuale. Si sono scritte tante belle cose che, però, salta­no immediatamente quando uno prende in casa un bambino: perché ogni bambino ha una situa­zione particolare, una situazione familiare parti­colare, è un bambino diverso da un altro. Per cui, dire che gli affidamenti dovrebbero durare al massimo sei mesi, mi lascia molto perplessa, perché ogni bambino ha una situazione diversa e non credo che da nessuna parte si possa sta­bilire se l'affidamento dura un giorno o dieci anni.

È chiaro che la maggioranza dei nostri affida­menti, almeno parlo per esperienza mia, sono di fatto delle adozioni, che comunque non possono essere dichiarate per tutta una serie di motivi oggettivamente validi, nei confronti dei quali la legge attuale non permette altro. Quindi, forse, il grosso lavoro da fare sarebbe quello di vedere di modificare la legge sulle adozioni.

Un'altra cosa che mi sembra abbia delle carat­teristiche abbastanza diverse è l'affidamento a comunità, affidamento che presenta dei proble­mi abbastanza diversi, per il ragazzino e per gli educatori, rispetto agli affidamenti familiari.

Ho delle grosse perplessità sulla possibilità di mantenere delle comunità, tipo quelle che of­frono già gli enti pubblici, a causa della rota­zione del personale. Mi pare ci sia da fare un grosso discorso sulle capacità educative e sulla presenza di persone che ruotano in continuazio­ne. Ciò vale anche per le comunità di pronto in­tervento.

Mi pare che nella comunità esplodono meno certi problemi se i bambini sono piccoli; esplo­dono comunque: c'è la ricerca oggettiva della figura unica, la ricerca nell'ambito della comuni­tà dalle figure parentali.

C'è da chiedersi se hanno senso gli inseri­menti nella comunità di bambini molto piccoli, così come si sta proponendo da più parti e che lo stesso Tribunale, ogni tanto, ripropone.

Anche se, poi, la valutazione di fondo è che la comunità è sempre meno conflittuale per gli adulti. Però l'inserimento di bambini a tempi lunghi in comunità personalmente, mi lascia del­le riserve.

Discorso molto diverso è quello degli adole­scenti: forse, in parecchie situazioni, è meglio la comunità che l'affidamento.

Dopo di che ritorno al problema degli operatori di quartiere: il rapporto che devono avere con la comunità. Sono le balie degli educatori, sono le balie dei ragazzini o che cosa sono? Credo anche che la formazione degli operatori delle comunità sia un grosso discorso: anche per quelle realiz­zate dal volontariato.

Il volontariato non va sottovalutato ma ci sono alcune riserve da sollevare. Infatti, al di là della buona volontà dei singoli operatori, non è poi detto che la buona volontà equivalga a capacità educative.

Mi spaventa moltissimo, anche se capisco in pieno il discorso, la proposta di trasferire tutto il pacchetto «adozione» ai quartieri. Credo che, se queste competenze arrivassero in questo mo­mento sul territorio, andremmo allo sfascio, per la nostra assoluta, per quel che conosco, impre­parazione ad affrontare questo tipo di discorso.

 

 

SUOR BIANCA MARIA

 

Lavoro in tre comunità. Ringrazio Rita Anfossi perché mi ha introdotta nel discorso delle comu­nità, e soprattutto per il coraggio che ha avuto. Infatti ci sono tante assistenti sociali (e spero che parlino, perché ogni giorno richiedono il no­stro aiuto) poco compatte per lottare al fine di ottenere una risposta sempre più adeguata ai molti bisogni dei giovani in difficoltà. Vorrei in­vitarle ad essere un po' più combattive.

Per quanto riguarda la comunità alloggio di volontari, a Torino ce ne sono una trentina, che fanno tantissima fatica perché sole. Ricerchiamo insieme il come portare avanti tanti problemi che abbiamo ogni giorno. Innanzi tutto direi che, a livello di Regione, si è tentato di avvicinare le comunità alloggio agli affidamen­ti familiari, ma oggi, sia dal Tribunale per i mi­norenni che da tutti vengono considerate un po' come gli istituti; dobbiamo quindi stare molto attenti. Soprattutto quando si dice che un minore piccolo può benissimo rimanere in comunità fino a 18 anni.

Nessuno degli operatori che lavorano con me possono accettare questo parcheggio prolungato anche se la comunità è la migliore. È deleterio per il minore non poter stabilire dei rapporti che diano maggiore sicurezza. Anche perché la comunità alloggio, sia essa pubblica o privata, è un momento di passaggio. Anche se poi il mi­nore ci sta per sei mesi, un anno.

Quali sono le difficoltà che abbiamo come co­munità alloggio? Innanzitutto vorremmo che gli Enti locali chiarissero un po' se interessa o meno la presenza di questi gruppi che operano con il supporto dei servizi sociali dei quartieri.

Si fa o meno un lavoro di verifica sulla situa­zione del territorio?

Dopo di che c'è il discorso, come comunità volontarie, della necessità di un gruppo di opera­tori stabili perché la rotazione del personale è molto deleteria, sia per i piccoli e tanto più per gli adolescenti.

La comunità alloggio deve essere molto vici­na alla famiglia. La famiglia generalmente ha un nucleo stabile, per cui non possiamo pensare che un minore, talmente diviso già da tanti mo­tivi familiari, sociali e ambientali, ritrovi questa situazione nell'ambito della comunità alloggio.

Quindi bisogna innanzi tutto che i volontari co­me noi siano molto seri prima di organizzare una comunità alloggio, vedano le capacità e le possibilità di integrazione e con il territorio e con l'Ente locale e, soprattutto se ce la fanno a portare avanti un certo tipo di discorso difficile in modo serio.

Questa riflessione offro a noi tutti che ci occu­piamo di minori a nome della collettività, anche se non su un suo specifico mandato.

È indispensabile un confronto sempre più aperto con l'Ente pubblico, perché sta di fatto che esistono alcune situazioni fortunate dove gli operatori sociali di quartiere collaborano (e allo­ra va bene), però queste situazioni fortunate sono proprio poche a Torino. Allora quelli sfortunati, oltre che portare avanti il peso da soli, non pos­sono incidere in modo completo sulla realtà per­ché diventa estremamente difficile occuparsi in modo polivalente in tutto.

Poi, per quanto riguarda gli operatori delle co­munità (ecco perché dico che equivalgono agli istituti), alle volte ci vengono richieste delle cose, come relazioni, cartelle varie, lavoro tec­nico, tale quale si richiede all'istituto.

In questo tempo si parla di trasferire le tu­tele dal Sindaco e dall'Assessore alle Circoscri­zioni. Sovente il minore è mortificato perché ha soltanto come riferimento gli operatori delle co­munità, i quali hanno solo dei doveri e mai dei diritti sulla educazione completa del minore.

Il minore ad esempio ha diritto di essere rap­presentato nell'ambito scolastico, ma da noi que­sto non può essere fatto: negli organi collegiali della scuola nessuno può rappresentarlo.

Quindi l'operatore sociale non può rappresen­tare il minore, la famiglia è completamente as­sente, il tutore non fa in tempo (il Sindaco o un altro non può andare ogni volta che si crea un bisogno a rappresentare un minore). Allora biso­gnerebbe studiare questo passaggio di tutela e, mentre si dà fiducia e si affida questo minore a un gruppo parafamiliare come può essere chia­mata la comunità alloggio, esaminare quali re­sponsabilità più consone ad una famiglia possono essere affidate agli operatori delle comunità al­loggio.

Un altro discorso, incompleto a mio parere, è dire di occuparsi del minore, e poi, pratica­mente, insieme all'assistente sociale, dovremmo poterci occupare in modo diverso della famiglia d'origine. Perché molto spesso noi siamo total­mente presi dai problemi del minore, che dovrà rientrare nella sua famiglia oppure preparare una famiglia per l'affidamento; l'assistente socia­le (che, veramente, fa un po' di tutto), lascia completamente assente il discorso con la fami­glia d'origine.

Così nel nostro quartiere è cominciato il di­scorso dell'appoggio educativo alle famiglie: que­sto vuol dire prevenzione.

Occorre esaminare a fondo la situazione dei minori che non hanno proprio delle situazioni gravi alle spalle, ma per i quali comunque il Tri­bunale per i minorenni ha deciso l'allontanamen­to affidandolo al Comune perché trovi una solu­zione alternativa, cercare di camminare insieme per vedere la situazione reale della famiglia di origine.

Nella situazione attuale, per esempio, abbia­mo cercato di evitare l'istituzionalizzazione com­pleta dei minori andando nella famiglia, cercando di vedere di aiutare questi minori che sono rima­sti in famiglia, e che non potevano, perché pic­coli, essere seguiti nell'ambito familiare, il tut­to concordato con il servizio sociale di quartie­re. Nel frattempo abbiamo visto che questa fa­miglia non è del tutto recuperabile per dei moti­vi che conosciamo.

A questo punto l'assistente sociale e gli ope­ratori sociali che sono nelle comunità possono, con più competenza e direi con più correttezza, presentarsi al Tribunale e dire: «pensiamo che la famiglia non possa essere più recuperata, an­ziché farli rimanere nella comunità o metterli negli istituti fino a 18 anni, effettuiamo un'ado­zione, un affidamento dei più piccoli».

Mi sembra che queste cose a livello di discor­so teorico le abbiamo dette da quindici anni, se ben ricordo; però in pratica, in fatto di preven­zione abbiamo fatto ben poco.

Quindi vediamo se possiamo aprire questo di­scorso che è molto importante a parere mio.

Se non si lavora con correttezza ci troviamo questi ragazzi che non abbiamo voluto o non ab­biamo potuto aiutare, quando hanno 15 o 16 anni con difficoltà gravissime.

Quindi sono necessarie la competenza e la onestà.

Mi occupo anche di una comunità di adole­scenti che quando arrivano sono talmente distur­bati che il nostro intervento è difficilissimo.

Quindi bisognerebbe prevenire cercando di sta­re molto attenti sulla possibilità di adozione e di affidamento familiare e di supporto educativo alle famiglie in difficoltà.

Per quanto riguarda le comunità alloggio direi che, se i minori sono molto piccoli, hanno bi­sogno di figure stabilì non solo, ma anche di un rapporto interpersonale con una o due figure e questo la comunità alloggio non è sempre in gra­do di offrirlo.

In questo caso potrebbe essere un momento di passaggio; nel medesimo tempo gli operato­ri e il Tribunale per i minorenni (con il quale so­no molto in difficoltà) devono prendere delle decisioni più rispondenti alla situazione reale del minore.

Certo che ci sono difficoltà con i genitori nell'affidamento, è naturale. Però non credo che la comunità alloggio non abbia anche queste diffi­coltà; essa se le accolla, come d'altronde la fa­miglia affidataria. Inoltre, in questa battaglia iso­lata, l'unico momento che ci si ricorda della co­munità è quando l'assistente sociale ha una mi­nore in ufficio. Allora sanno cosa fare, telefona­no: «Vedi se puoi aiutarci a trovare una solu­zione...».

Quando si tratta di fare dei discorsi a livello politico e sociale è sempre molto difficile essere compatti nel presentare la situazione reale in cui viviamo, con i risultati molto preoccupanti per coloro che sono i più indifesi.

 

 

ROBERTO RAMELLA (1)

 

Siamo arrivati all'affidamento per un caso estremo: ci hanno parlato di un ragazzo che in istituto non poteva più rimanere, perché dava un mucchio di problemi.

Come famiglie affidatarie del biellese ci siamo incontrati più volte e abbiamo discusso in merito ai problemi che tutti noi abbiamo: chi ha un bam­bino piccolo, chi come noi ha in casa due ado­lescenti, più un bambino di otto anni (sono tre fratelli).

Gli Enti locali non pagano mai sollecitamente. Per il primo affidamento che è incominciato a giugno, abbiamo ricevuto il primo contributo a dicembre. Adesso, con tre ragazzi in casa, non abbiamo ancora visto una lira e sono passati già quasi tre mesi.

I tre ragazzi sono arrivati dall'istituto con niente e perciò abbiamo chiesto agli Enti locali una somma «una tantum» all'inizio dell'espe­rienza, perché in effetti il guardaroba è da cam­biare, quando ce l'hanno.

Quando abbiamo accolto a luglio il primo ra­gazzo (sono tre fratelli) abbiamo chiesto subito l'inserimento di tutti e tre, perché ci pareva che l'istituto fosse molto negativo. Invece, per moti­vi burocratici della Provincia, sono rimasti in istituto fino a dicembre. Poi a dicembre sono ar­rivati perché il prete, purtroppo per qualcuno ma non certo per i ragazzi, doveva chiudere l'isti­tuto e non sapeva dove metterli.

Sono arrivati con una mole di problemi non in­differenti e adesso cerchiamo di risolverli. Un'altra cosa che ci siamo chiesti è quale sia il ruolo dell'assistente sociale.

Non lo so, perché certe cose le abbiamo sapu­te meglio dai ragazzi che dalle assistenti sociali. Certe malattie che hanno avuto le abbiamo sa­pute meglio dal ragazzo che dagli enti compe­tenti.

Non so che cosa devono fare le assistenti sociali perché al momento di 'Inserire il ragazzo a scuola, sono andato io a battere il naso e non l'assistente sociale; nei momenti di malattia ci vado io. Non so ancora adesso se il padre ha la patria potestà. Inoltre non abbiamo ancora ot­tenuto la mutua.

In sostanza bisogna perdere un sacco di tempo per tutte le pratiche burocratiche.

Sono anche molto perplesso per certe decisioni dei giudici.

Conosco il caso di una ragazza che doveva andare a casa una volta alla settimana.

Alla famiglia affidataria non viene mai conse­gnata copia delle sentenze. Poi magari si decide che la ragazza deve andare anche a dormire a casa. Questa decisione viene presa dal giudice, però la famiglia affidataria lo sa così, perché le viene detto, ma non ha niente in mano.

Deve andare a casa tre volte alla settimana, poi non deve più andare.

Abbiamo il grosso problema della famiglia di origine. Il padre è inesistente. Ma ci sono anche la moglie e la nonna. Il padre manda le donne a fare la parte, diciamo così, drammatica, crean­doci un mucchio di problemi e spesso non sap­piamo che cosa fare. Con la famiglia d'origine bisogna per forza avere dei contatti, anche se si tratta come nel caso nostro di un nucleo sul quale i servizi sono intervenuti per tre anni per vedere se era possibile tenerlo insieme? Il padre ha avuto un'esperienza di carcere e la mamma è finita in manicomio. Cosa può ancora dare una famiglia di questo tipo, e invece quanti sono i problemi che crea nei bambini o nei ragazzi?

Queste sono tutte domande che non hanno risposta.

Condivido in pieno la relazione che è stata fatta: però da noi gli psicologi non ci sono, gli Enti locali non si interessano e non so se ci sono e se funzionano le Unità locali.

Dico onestamente che l'affidamento è una gros­sa esperienza. Però se ci fosse un aiuto veramen­te concreto da parte dei servizi si potrebbero avere dei grossi risultati.

Siamo però lasciati soli.

Abbiamo questi tre ragazzi in casa, e cerchia­mo di reinserirli.

 

(1) Intervento non rivisto dall'Autore.

 

 

MIRELLA MENIN

 

Vivo a Mirafiori Nord (Q 12).

1. Anzitutto intendo denunciare l'operato del centro comunale socio-sanitario di V. Rubino, per­ché le oltre 40 persone che lavorano a tempo pieno non si impegnano con serietà sia a livello di minori, sia a livello di anziani. Sembra quasi che nel nostro quartiere non ci siano dei proble­mi riguardanti queste categorie di persone.

Purtroppo, siccome vivo in parrocchia, mi tro­vo ogni giorno di fronte a dei problemi concreti che vanno affrontati con urgenza. L'équipe comu­nale ha sede in Via Rubino ed è molto scomoda per il numero elevato di anziani che abitano le case popolari tra C. Agnelli e C. Orbassano.

Ci sono servizi pubblici a colmare questo disagio.

Ci sono dei casi in cui l'utente non può recar­si presso l'équipe per esporre i suoi problemi, né può attendere la procedura burocratica che la prassi richiede perché si risolva il «suo caso». A questo proposito vorrei ricordare un caso.

Si tratta di una anziana di 96 anni (con la pen­sione di 122.000 lire) che è stata ricoverata all'Ospedale Mauriziano. Mi sono rivolta in V. Ru­bino perché questa anziana non avendo parenti necessitava di assistenza e di aiuto. Purtroppo, per seguire la prassi, le cose sono andate per le lunghe ed ho dovuto cercare una infermiera per la notte, ho dovuto pagare le 30.000 lire per not­te, ho dovuto pensare alla assistenza giornaliera ed infine, siccome la donna si è aggravata ed è morta, ho dovuto pensare al funerale. 15 giorni dopo la sepoltura l'assistente sociale di V. Ru­bino mi ha telefonato per sapere se il Comune era intervenuto per rimborsare le spese per l'in­fermiera che assisteva l'anziana ogni notte.

È un esempio, tra i molti che potrei citare, ma già evidenzia non solo le carenze di una strut­tura comunale decentrata, ma anche la mancan­za di «buon senso» e di tempestività nell'affron­tare certe situazioni e la mancanza di una preci­sa volontà politica che miri a sostenere l'anziano sia dal punto di vista economico che di assi­stenza domiciliare od ospedaliera nel caso sia richiesta.

2. In secondo luogo intendo parlare dell'Isti­tuto Benefica di Pianezza, in cui ho lavorato come assistente.

Questo ente grava sul bilancio del Comune, della Provincia e della Regione.

La retta pagata per ogni ragazzo è di L. 650.000 al mese. Ora mi domando: questi soldi dove van­no a finire? Chi controlla la gestione del bilan­cio? Dal momento che i minori non mangiano a sufficienza, non sono seguiti dal punto di vista medico (es. ginnastica correttiva per chi ha la scoliosi, visite oculistiche, ecc.), né dal punto di vista psicologico (lo psicologo c'è, ma si incon­tra quasi esclusivamente con la direttrice; e i ragazzi?), né c'è un interesse da parte delle as­sistenti sociali che hanno parcheggiato il minore nell'istituto.

In questi giorni si è suicidato un ragazzo, un ex della Benefica. I giornali dicevano che la ra­gazza l'ha piantato e allora lui si è ucciso. Die­tro questa tragedia ci sono molti problemi: quello sentimentale è uno dei tanti problemi Come può un ragazzo, dopo aver trascorso una vita in isti­tuto, affrontare serenamente il futuro senza ap­poggi?

Come può a 18 anni essere «sbattuto» fuori perché maggiorenne, quando non ha casa, pro­spettive, sicurezze, legami di amicizia su cui contare? È ora che chi è di dovere faccia almeno dei sopralluoghi in questi istituti per vedere co­me vivono i minori e anche per impedire che si «viva» sulle loro spalle.

Bisogna infine rivedere l'affidamento: attual­mente chi ha un minore in affidamento percepi­sce 200.000 lire al mese ed è tenuto a colmare, per quanto possibile, le lacune dell'istituto.

Ad es. la ragazza (16 anni) che ho in affida­mento ha la scoliosi. La Benefica non ha mai preso provvedimenti ed ora, purtroppo in ritar­do, devo trovare qualche medico di buona vo­lontà, che possa curarla seriamente.

Concludo proponendo di fare meno tavole ro­tonde e di lavorare con più coscienza senza la­varci le mani di fronte a questi problemi.

 

 

Don GIUSEPPE SIBONA

Parroco della Falchera Nuova

 

Sono venuto solo per tirare su il morale alla categoria, dopo aver sentito quel bravo signore. Però adesso vorrei anche dire una parola per tirare su l'altra categoria delle assistenti sociali, almeno per quanto ci riguarda personalmente. Vorrei presentarvi tre cose:

1) L'esperienza che abbiamo avuto noi: si è cominciato con affidamenti in una comunità al­loggio nel settembre scorso dopo molto tempo di preparazione.

È una comunità un po' particolare perché è stata istituita dal Comune di Torino, ma viene gestita, questa comunità, da due suore e una ragazza.

Io sono, così, un sostegno esterno, anche co­me figura maschile.

Abbiamo notato questo: innanzitutto sarebbe proprio giusto che quando vengono affidati questi bambini si sapesse già più o meno quanto tem­po devono stare e la strada da percorrere: se è per reinserirli in famiglia, dopo un periodo di ri­cupero; o se è per avere un po' di tempo al fine di trovare una famiglia che li adotti.

2) Per quanto riguarda l'adozione: cambiare le date, perché non si può andare avanti così: otto anni... bisognerebbe quindi prolungare mag­giormente l'età; non tanto affidamento quanto adozione.

3) Un'altra cosa riguarda il volontariato. Vor­rei dire questo: non portarlo solo su un piano economico, però ci deve essere un giusto rico­noscimento di queste persone. Lavorino pure i volontari otto ore, ma le altre sedici ore in cui lavorano ancora (perché sono lì, ci dedicano una vita), siano tenute in conto. Per me dovrebbe en­trare anche nella mentalità dell'autorità civile, delle Amministrazioni, il riconoscere questo ser­vizio.

Anche perché ci sono molti giovani disponibili per un certo lavoro; se si fa una proposta di lavoro, anche volontario, per cinque-dieci anni, per un'esperienza di questo tipo, sono disponi­bili. Però in fin dei conti quando si ha vent'anni non si può, di fronte alla famiglia, dire: bene, non ci guadagno niente, non porto a casa niente, ag­giustatevi... Bisogna riconoscere ad un certo mo­mento questo lavoro volontario anche sul piano economico.

In che modo? Si può studiare.

Ho detto che voglio difendere un po' la cate­goria sia dei parroci che delle assistenti sociali: mi sono trovato alla Falchera Nuova con tanti problemi; abbiamo cercato di tirarci su le ma­niche, di lavorare anche su un piano di collabo­razione con l'ente pubblico. E difatti giriamo ab­bastanza bene con le assistenti sociali: c'è un rapporto e uno scambio anche adesso per quanto riguarda la comunità, ogni quindici giorni con l'équipe del Centro sociale.

In conclusione mi sembra, in questo campo, di notare delle deficienze, tuttavia, in situazioni dove l'ambiente è difficile, è giusto mettere in­sieme un po' tutte le forze e vedere insieme il da farsi.

 

 

CARLO BAFFERT

 

Sembra che io debba tirar su la categoria de­gli amministratori pubblici, a questo punto, vi­sto che sono un consigliere di quartiere. Vorrei dare il contributo di alcune esperienze realizza­te nel nostro quartiere Borgata Parella, con 65.000 abitanti. I problemi sono quelli tipici di un quar­tiere della periferia di Torino.

Recentemente c'è stato un insediamento di case popolari che ha portato delle situazioni nuo­ve a cui non eravamo preparati, e da cui vengono diverse segnalazioni di casi difficili: famiglie numerose, ragazzi sbandati, ecc. Una situazione abbastanza tipica. Forse, non come nei quartie­ri Centro, Aurora, ecc., ma abbastanza tipica per la città. Anche le forze sono abbastanza tipiche: sia a livello di volontariato, sia a livello di opera­tori sociali, di amministratori. Perciò penso che quello che noi cerchiamo di fare sia la strada percorribile da parte di tutti.

Esiste un gruppo di famiglie affidatarie (7-8 fa­miglie) con bambini affidati dagli operatori di quartiere o di altri quartieri vicini; così come (due) bambini del nostro quartiere sono andati in affidamento in quartieri vicini. Questo gruppo si incontra con una certa periodicità, con la par­tecipazione di operatori sociali ogni volta che li abbiamo invitati.

Sarebbe utile con una discussione approfondita la funzione di appoggio, di scarico, di confronto e anche di riferimento a famiglie nuove, agli ope­ratori stessi che vengono a contatto della pro­blematica viva dell'affidamento. Sono emersi que­sti tipi di problemi: come si arriva ad un affida­mento? perché si arriva? in quali condizioni? che rapporti tra la famiglia d'origine e la famiglia affidataria? quale sbocco è possibile prevedere?

Il riferimento politico, a nostro parere è il Con­siglio di circoscrizione. Il Comune, in fondo, del­le scelte le ha fatte: ricordiamo la delibera del '76 rispetto alla quale si può rimproverare forse una scarsa incisività organizzativa, di non aver preparato sufficientemente gli operatori, di non sostenerli. Però, una scelta politica c'è stata. Dov'è che c'è una clamorosa assenza è a livello dei Consigli di circoscrizione, per i quali si po­trebbe dire che non sono preparati, non sono informati. Già oggi però possono operare (è loro competenza), deliberare campagne di promozione per l'affidamento, strutture di sostegno, ecc.

Spesso gli affidamenti nascono in clima di ur­genza. Per carenza di prevenzione si lasciano in­cancrenire le situazioni; poi improvvisamente si devono tamponare con soluzioni improvvisate.

si può rimproverare sempre all'operatore sociale la mancanza di conoscenza sul bambino o sulla famiglia del bambino. Ed è difficile deci­dere, seduta stante, quale famiglia sia adatta, anche perché le famiglie affidatarie sono poche e si fa molto poco per trovarne.

Per far fronte a queste esigenze nel nostro quartiere è nato, in collaborazione tra volontari e Comune, un centro di pronto intervento tipo quello di via Massena (sarebbe però interessan­te sapere la differenza tra quello privato e quello pubblico).

Il primo caso è di questo tipo: una donna gio­vane separata dal marito, con due bambine pic­cole, per motivi di lavoro, di gestione di se stessa, deve ricoverare le bimbe in un istituto, abbastanza lontano. Le bambine sono state tolte dall'istituto e messe in questo centro di pronto intervento; la madre va a trovarle tutti i giorni e le tiene con sé il sabato e la domenica. Si stanno ricostituendo certe condizioni per cui, op­portunamente appoggiata e sollecitata, la madre possa riprendersi le bambine. Cosa che era com­pletamente impossibile se erano in istituto.

Si prevede attualmente l'inserimento di qual­che caso dove non è attualmente ipotizzabile il recupero della famiglia.

La comunità di pronto intervento diventa allo­ra un momento del bambino: l'istituto non è un posto dove si può studiare una situazione. Ca­pire un po' i problemi della famiglia, eventual­mente cercare una famiglia affidataria adatta. Bi­sogna ammettere che la maggioranza delle fa­miglie affidatarie sono state prese dalia necessi­tà urgente di collocare in modo degno un bam­bino.

La comunità di pronto intervento è quindi un momento di appoggio per situazioni di cui si ve­de una soluzione a breve termine, come momen­to di riflessione fra soluzioni a lungo termine co­me l'affidamento a famiglie o comunità alloggio.

Bisogna conoscerlo il bambino, cominciare a frequentarlo un po', prenderselo qualche volta in maniera che sia anche una scelta reciproca tra bambino e famiglia. Sono sempre cose difficili, che non si possono fare a tavolino.

C'è un'altra iniziativa nel nostro quartiere, ab­bastanza interessante, nata spontaneamente da un gruppo privato che si rivolge agli adolescenti e che presenta la stessa problematica a livello di adolescenti.

Rispetto al rapporto con gli operatori, nel caso degli adolescenti come nel caso delle comunità alloggio adulti, bisognerebbe recuperare quella struttura che attualmente è completamente fuori dalla nostra problematica: le équipes-adulti.

Chi, professionalmente parlando, ha in carico la comunità alloggio nella sua dinamica come adulti, le comunità di adolescenti, gli educatori di questa comunità per adolescenti? Le équipes di neuropsichiatria infantile seguono i bambini, e le comunità in quanto hanno dei bambini. Ma, certamente bisogna coinvolgere anche le équipes adulti. In realtà queste sono prese oggi da ben altri problemi. Però se si parla di prevenzione, che vuol dire andare a risolvere quei problemi che creano il disadattamento del bambino, da chi viene preso in carico il nucleo familiare in questione?

Non solo dall'assistente sociale della neuro­psichiatria infantile, né tanto meno dalle fami­glie affidatarie. A questa, giustamente, viene ri­chiesta una certa disponibilità, anche una certa amicizia. Bisogna, quindi, estendere il discorso alla psichiatria adulti.

In sintesi i problemi sono:

1) ruolo del volontariato, problema che riguar­da sia il centro di pronto intervento, come la comunità di adolescenti e il gruppo di famiglie affidatarie. Il volontariato deve essere inserito, in un progetto pubblico, sostenuto, selezionato e valorizzato: è illusorio che con semplice poten­ziamento di personale pubblico si possa rispon­dere a tutto;

2) preparazione di personale sia a livello cit­tadino che a livello locale, attraverso soprattutto l'integrazione dei servizi di neuropsichiatria in­fantile, di neuropsichiatria adulti, centro sociale, assistenza domiciliare ed economica, lavoro in comune con le famiglie affidatarie e i volontari. L'obiettivo primario di tutto ciò è un lavoro di prevenzione: uno degli strumenti da privilegiare è l'assistenza domiciliare educativa. Ora non c'è, se non a livello di progetto. Su questo bisogne­rebbe insistere, con fantasia per individuare an­che delle figure professionali nuove. E poi met­tere in atto un progetto comune tra consiglio di circoscrizione, servizio pubblico, volontariato, gruppi giovanili, scuola, tempo libero, estate­ragazzi, ecc. per fare di tutto per attuare questa famosa prevenzione. Prevenzione vuol dire entra­re nella situazione vitale delle famiglie in cui, certamente non in maniera paternalistica e mo­raleggiante, però anche col coraggio necessario.

Questo progetto é complesso: è però l'unico modo, secondo noi, per integrare i vari interven­ti. Altrimenti ognuno va per la sua strada.

L'affidamento può risolvere il problema di qual­che bambino, non dà un contributo sostanziale alla soluzione delle situazioni difficili di una cer­ta zona. L'adozione riguarda un numero sempre più limitato di bambini; la scuola fa la sua strada ed è tagliata fuori da questa ottica sociale. Ed è inutile darsi le colpe l'un con l'altro, perché diventa frustrante e non serve a niente.

Solo un progetto comune, con la possibilità di utilizzare e potenziare tutte le risorse pubbli­che e private, può dare una nuova ed efficace di­mensione di intervento.

 

 

CLAUDIA CATARUZZI

 

Sono Cataruzzi del servizio affidamenti del Co­mune di Torino. Da quindici giorni lavoro in que­sto nuovo servizio, ed ho potuto osservare alcune cose.

Ribadisco quanto ha detto l'ing. Baffert circa la validità della scelta politica che ha fatto l'am­ministrazione, considerando l'affidamento fami­liare come alternativa all'istituzionalizzazione: senz'altro l'affidamento è un servizio che va fat­to e va anche potenziato. Ma direi che va soprat­tutto studiato in modo più approfondito, proprio per vedere in quale direzione stiamo andando e come lo abbiamo realizzato fino ad ora.

In questi primi giorni di lavoro ho potuto esa­minare le situazioni di 45 minori in età da zero a 8 anni e che sono in affidamento ormai da pa­recchio tempo.

Esaminati tutti i dati relativi ai vari casi, ho compilato apposite schede che ho trasmesso poi al giudice tutelare.

Tra questi minori ve ne sono, mi pare, sei che sono in affidamento da circa due anni e mezzo, tre da oltre 3 anni. Questi ultimi fino a quando rimarranno affidati? Questo è un punto da appro­fondire e da risolvere. Sei casi sono ormai in permanenza da queste famiglie da circa due an­ni, tre casi da un anno e mezzo, e la maggioranza di minori (circa 20) sono affidati da più di un anno, 8 casi da sei mesi e 5 casi da tre mesi.

I motivi che hanno determinato tali affidamen­ti sono in massima parte dovuti a disturbi psichi­ci, di cui soffrono i genitori (utenti difficili da seguire e non sempre seguiti...): tre madri sono schizofreniche, altre soffrono di disturbi mentali che comportano continui ricoveri e che, purtrop­po, non presentano possibilità di guarigione.

Ci sono invece altri casi di incapacità pedago­gica e di grave abbandono e disinteresse. Soltanto in due casi si è fatto l'affidamento per motivi sanitari della madre, quindi occorre precisare che gli affidamenti così motivati sono la percentuale minima.

Inoltre cinque donne sono «turniste» alla FIAT. In questo caso esse hanno dovuto ricorrere all'affidamento non per loro sostanziali incapacità, in quanto sono donne in grado di esercitare un lavoro professionale, di avere una famiglia e so­no affettivamente valide, ma, purtroppo, si sono trovate nelle condizioni di dover ricorrere a que­sta soluzione perché prive di altre alternative.

Esaminando la condizione dei padri vediamo che tre sono «etilisti» e voi sapete tutta la pro­blematica che comporta il fatto di essere etilisti (violenze sulla moglie, sui figli, percosse, richia­mi da parte del Tribunale per i minorenni per abuso di mezzi di correzione, ecc.), 5 sono per­sone irresponsabili: alcuni sono in carcere, altri hanno avuto precedenti penali, 3 sono separati, 3 vedovi.

Questi ultimi si trovano, appunto, nella condi­zione di dover collocare i loro figli presso cono­scenti o vicini di casa, utilizzando questa forma dell'affidamento che non è nemmeno, se voglia­mo, la soluzione più giusta. Chissà quanti casi di affidamento ci sono di cui non siamo a cono­scenza.

Questo è un fenomeno che andrebbe conosciu­to per riuscire a identificare gli affidamenti at­tuati con l'ausilio del vicinato, di volontari e co­noscenti senza passare attraverso l'ente pub­blico.

Vorrei ora rendervi note le proposte che sono contenute in queste schede come previsione di soluzioni. Purtroppo siamo ancora un po' in alto mare perché di tutti questi minori solo 2 andran­no in adozione, 1 sarà dichiarato adottabile tra poco e per 2 casi, invece, le famiglie affidatarie hanno chiesto l'affiliazione. E tutti gli altri? sono casi da vedere, cioè cercheremo di studiare be­ne le possibilità di rientro affinché questi affida­menti di durata indeterminata non siano poi ne­gativi nei confronti dei minori.

Infatti il rientro del minore in famiglia andreb­be pur sempre previsto, non solo come avviene ora per gli affidamenti di breve durata, ma anche per quelli a lungo termine.

Comunque speriamo di trovare qui, nelle di­scussioni dei gruppi, degli spunti un po' creativi. Un altro problema è quello della mancanza di alloggio e del lavoro disagevole delle madri, le quali, facendo i turni, non possono dedicarsi alla famiglia come vorrebbero.

 

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