Prospettive assistenziali, n. 52, ottobre - dicembre 1980

 

 

RELAZIONI DEI GRUPPI DI LAVORO

 

 

PRIMO GRUPPO

 

Il nostro gruppo ha innanzi tutto affrontato il problema dell'ambito istituzionale in cui l'affi­damento dovrebbe essere concretizzato, soprat­tutto riferito alle esperienze dei Comuni diversi da quello di Torino.

È emerso, cosa evidente da parte di tutti, che sia i Consorzi che le Associazioni di Comuni o non ci sono, o ci sono sulla carta essendo stati solo nominati i componenti delle Assemblee o approvati gli statuti.

Per quanto riguarda il personale è stato rile­vato, da parte di tutti, la carenza numerica, aggra­vata ulteriormente dall'attribuzione delle nuove competenze, che spesso avviene senza l'assegna­zione di nuovi operatori.

Le indicazioni delle amministrazioni sono an­cora abbastanza in contraddizione rispetto alle cose che si dovrebbero fare. Sono infatti previ­ste priorità (e questo vale anche per il Comune di Torino) ma poi devono essere svolti lavori (contributi per il riscaldamento, colonie e sog­giorni marini) che non lasciano più il tempo per occuparsi dei problemi dei minori. Di conseguen­za anche il discorso affidamento non può essere portato avanti. Inoltre mancano le figure profes­sionali, come gli psicologi, che tutto il gruppo ritiene debbano essere presenti.

Manca, a tutti i livelli, la programmazione. Ol­tre tutto nei Comuni fuori Torino c'è la grossa contraddizione tra la programmazione che do­vrebbe essere fatta a livello di consorzio, ed i servizi che continuano ad essere gestiti dai sin­goli Comuni.

Poi c'è il «fritto misto» fra alcuni servizi ge­stiti a livello consortile e altri gestiti a livello di Comune, con personale che è sempre lo stesso.

Vi è poi la pensata del Comune di Collegno, che fa gestire a livello consortile le attività dell'ex ENAOLI con apposito personale assunto per queste specifiche funzioni.

Quindi di nuovo c'è separazione fra servizi.

I Consigli di circoscrizione di Torino non solo non hanno nessun compito di gestione, ma non sono ancora in grado, neanche con i piani di zona, di dare indicazioni valide.

È stato lamentato da tutti che gli operatori, sia per Torino che per fuori Torino, arrivando da esperienze professionali diverse, sono frantuma­ti anche come collocazione e come sede fisica dei servizi.

A causa della mancanza di metodo di lavoro comune, anche per le mentalità diverse di chi lavora, è abbastanza difficile, in questo momento, costruire un'équipe di lavoro.

Il gruppo ha analizzato, in termini di priorità rispetto all'affidamento, che cosa sarebbe pos­sibile, che cosa si dovrebbe fare perché effetti­vamente l'affidamento fosse una delle alternati­ve, e non l'unica o quella che si attua nei casi estremi e se siamo più bravi, altrimenti c'è il ricovero in istituto.

È stato affrontato il grosso discorso sull'assi­stente domiciliare, non l'assistenza domiciliare che in maggioranza dei casi conosciamo tutti quanti, e si è rilevato che ci dovrebbe essere un personale educativo che fa anche il servizio di aiuto familiare.

È stata esaminata l'esperienza del quartiere Aurora di Torino, dove viene pagato personale volontario che fa un intervento educativo nei confronti di certi bambini per vedere veramente se quella famiglia è o non è in grado di provve­dere ai suoi figli.

Poi magari si arriverà a fare una segnalazione al Tribunale per í minorenni per richiedere l'adot­tabilità con una cognizione di causa maggiore e avendo la coscienza di aver fatto effettivamente tutto quello che era possibile.

Questo vuol dire, però, che il personale deve essere preparato e motivato senza andare a cer­care più le persone con chissà quale titolo di studio o chissà con quale qualifica.

Va poi ridiscusso il discorso degli orari del personale sia per l'assistenza domiciliare sia per questi educatori.

Si è parlato anche del lavoro dei genitori, della necessità di affidamenti per motivi di lavoro, so­prattutto per i turnisti.

In alcune occasioni un servizio di aiuto domi­ciliare fatto in altro modo potrebbe effettivamen­te evitare sia l’istituzionalizzazione, che l'affida­mento familiare.

È stato dato anche un rapido sguardo al discor­so dell'assistenza economica e si è detto che così come sono la delibera del Comune di Torino e quelle degli altri Comuni (che in gran parte ricalcano la prima) non sembra sia corretto, come viene proposto di tanto in tanto, sostituire il la­voro del genitore con un sussidio economico per evitare l'affidamento o l'istituzionalizzazione del bambino.

Si è però anche rilevato che i parametri che attualmente usiamo, soprattutto il minimo vitale per Torino, non permettono di fare dell'effettivo sostegno ai familiari. Ne deriva che si mettono dei bambini in affidamento, perché non si è nelle condizioni di poter dare un aiuto economico tale da sostenere i genitori.

Un grosso problema è venuto fuori dai colleghi di Verbania; è il problema dei figli degli emigran­ti. Gli istituti vicini alla frontiera sono pieni di figli di emigranti che o non possono portarli in Svizzera o vogliono che essi frequentino una scuola italiana.

Il fatto è che gli istituti prosperano e sono sempre più pieni: i ragazzi sono destinati a stare in istituto fino a diciotto anni. Nei confronti di questo problema pare che nessuno si sia mosso mentre forse vale la pena di fare un pensierino.

Il gruppo ha discusso molto sul problema dell'affidamento, aderendo «in toto» alle indica­zioni contenute nel documento «proposte per l'affidamento e l'adozione». È stato rilevato però che c'è ancora, nonostante tutto, poca conoscen­za delle conseguenze negative del ricovero in istituto dei bambini. Ciò vale non solo a livello di pubblica opinione, ma tragicamente anche a livello di operatori e anche a livello ancora più tragico degli psicologi, per cui spesso vengono date delle motivazioni psicologiche per dire che non si devono fare gli affidamenti.

Questo è emerso soprattutto per gli affidamenti di minori da zero a 6 anni. Quindi si è d'accordo di dare la priorità di intervento ai bambini della fascia da zero a 6 anni, richiamando però l'at­tenzione di non dimenticare i numerosi minori che, come risulta dai dati forniti dalla Regione, hanno 5, 6, 8, 10 ed in alcuni casi anche 17 anni di istituzionalizzazione. Per cui è giusto dare prio­rità ai bambini da zero a 6 anni perché è fascia di prevenzione, ma è anche giusto ricordarsi di quelli che sono in istituto da molti anni.

Si è detto, anche in base all'esperienza delle famiglie affidatarie, che non si ritiene negativo l'affidamento di bambini piccolissimi, se l'affida­mento è gestito bene. Quindi, soprattutto nei con­fronti dei bambini piccoli affidati, devono essere fatti dei piani di intervento. In altre parole quan­do si decide l'affidamento si deve sapere dove si vuole andare a parare. Ogni tanto occorre poi che i tecnici e le famiglie compiano delle verifiche e vedano se occorre cambiare direzione o modificare il tiro.

Si sono esaminati anche il ruolo della comunità alloggio e le differenze fra gli affidamenti a fami­glie e quelli alle comunità.

Da parte di tutti, è stata riconosciuta la grossa validità della comunità come momento di pronto intervento che può durare al limite anche un certo numero di mesi. È un momento che serve per la conoscenza della situazione personale del bambino e per verificare la posizione della sua famiglia.

Se la comunità si configura come nucleo pa­rafamiliare, è una comunità di nome, ma di fatto si tratta di affidamenti familiari.

Abbiamo ritenuto che anche per le cosiddette comunità alloggio (che sono valide soprattutto per gli adolescenti) occorre che vi sia un termi­ne come durata. Perché, salvo situazioni partico­lari, dopo un po' anche i ragazzi adolescenti ma­nifestano esigenze di tipo familiare.

Abbiamo poi affrontato il discorso del reperi­mento delle famiglie affidatarie.

Si è detto che la ormai famosa campagna pub­blicitaria è necessaria non solo a livello cittadino, ma anche a livello provinciale: è una grossa esi­genza avanzata anche da parte dei colleghi che lavorano fuori Torino.

In essa si vedono due grossi significati. Intan­to perché serve, per usare la parola molto bella che è stata usata stamattina, per «coscientizza­re» l'opinione pubblica su questi problemi. La gente in fondo non li conosce e quindi non ri­sponde perché non conoscendoli non li capisce.

In secondo luogo la campagna di pubblicizza­zione serve anche per gli amministratori.

In particolare è stato osservato che a livello centralizzato si possono usare mezzi tecnici che non si trovano nei piccoli Comuni.

Deve essere chiaro che la richiesta di una campagna pubblicitaria a livello generale non è alternativa a quella che ogni singolo Comune, ogni singola équipe può fare, deve fare. Quindi non possiamo continuare a dire «il Comune non lo fa», e continuiamo a non fare niente.

A questo punto dobbiamo lamentare la totale latitanza da parte della Regione su questo pro­blema: in tutta questa legislatura non ha fatto neanche un piccolo convegno come quello su­gli anziani.

Sul problema dei minori la Regione non ha fat­to assolutamente nulla.

Lo stesso discorso vaie per l'anagrafe regiona­le dei minori ricoverati in istituto che non è più un'anagrafe dato che è ferma al 1° trimestre 1979.

Inoltre la Regione non ha fatto nessun interven­to nei confronti dei minori ricoverati. Quindi oc­corre chiedere che questo discorso venga fatto a gran voce anche dalla Regione e, per Torino, a gran voce dall'Amministrazione comunale.

A livello di territorio sono state esaminate le uniche due esperienze di Torino, quelle dei quar­tieri Parella e Aurora. A Parella abbiamo fatto una serie di riunioni preparatorie con tutti i gruppi in qualche modo strutturati che c'erano sul terri­torio.

Poi si è fatta una serie di volantinaggi nei ne­gozi, parrocchie, scuole, supermercati, mercati. Abbiamo constatato come sia indispensabile ed estremamente necessaria la presenza dei gruppi delle famiglie affidatarie, anche per i loro interventi nei confronti degli operatori e degli amministratori.

Determinate richieste sono fatte, e con molta forza, perché c'è il gruppo di pressione. Le fa­miglie affidatarie sono poi quelle che di fatto danno una grossa mano nella gestione degli affidamenti e dei gruppi di maturazione.

Si è anche rilevato che per poter fare questo tipo di lavoro e per poter poi seguire in modo corretto gli affidamenti, occorre in particolare una unicità di obiettivi e di metodi di lavoro dell'équi­pe del territorio.

Ogni singolo operatore deve cioè uniformare il metodo di lavoro con quello degli altri. Dispiace purtroppo che anche in questo seminario gli psi­cologi brillino per assenza. Ci sono da parte di questi operatori grosse resistenze sulla conce­zione del metodo di lavoro di gruppo, su come si deve lavorare nei confronti dell'affidamento e anche nei riguardi dei gruppi di maturazione.

In che modo si deve gestire il gruppo di matu­razione? Ne devono far parte tutte le famiglie affidatarie, oppure si danno solo supporti indivi­duali?

La decisione di mettere un bambino in affida­mento deve essere una decisione di tutta l'équipe e non di una singola persona.

Il bambino che va in affidamento deve essere già conosciuto e studiato, se necessario anche dallo psicologo.

Questi deve inoltre far parte del gruppo ed essere in grado di fare da supporto alla famiglia e al bambino.

È necessario comunque che vengano concre­tizzate le scelte politiche in termini operativi. La scelta politica delle priorità di intervento e in par­ticolare della prevenzione deve essere veramen­te scelta concreta. Ciò comporta anche un nostro diverso modo di lavorare.

A questo punto va detto che l'attuale carico di lavoro impedisce totalmente di intervenire nel campo della prevenzione; d'altra parte l'affida­mento diventa un intervento occasionale che si fa quando si può.

Sull'altro grande assente di questo seminario che è il Tribunale per i minorenni, abbiamo fatto una serie di considerazioni. Si è ribadito che il Tribunale per i minorenni deve intervenire sugli affidamenti soltanto nei casi in cui c'è conflitto fra famiglia affidataria e famiglia d'origine. È pe­rò necessario che sia effettivamente tutelato il minore e non l'adulto.

Si concorda con la proposta che è stata fatta anche dall'ANFAA circa la necessità che le se­gnalazioni e le relazioni al Tribunale per i mino­renni siano fatte dagli amministratori e non dagli operatori.

In questo modo c'è la possibilità di sensibiliz­zare i politici che poi sono coloro che, di fatto, devono fare le scelte.

È inoltre necessario un grosso chiarimento con gli operatori, con gli assistenti sociali, con gli psicologi e con gli amministratori: quali sono le ragioni ideologiche per cui i minori in situazione di abbandono sono o non sono segnalati al Tri­bunale per i minorenni?

Il Tribunale lamenta che da quando i servizi sono decentrati le segnalazioni non sono più fat­te. Si risponde che il Tribunale lavora male, per cui non si fanno più segnalazioni perché il Tri­bunale queste situazioni non le risolve o le lascia sospese per anni.

L'obiezione ideologica che viene fatta è che se si fanno le segnalazioni, si agisce in modo re­pressivo. Gli operatori non possono fare il gioco della repressione, perché non compete ad essi decidere del destino degli altri.

Questi problemi devono essere affrontati in modo serio a tutti i livelli.

A questo riguardo si sollecitano incontri tra gli Enti locali e il Tribunale per i minorenni, an­che perché all'Ente locale compete l'obbligo di intervenire sui minori.

 

 

SECONDO GRUPPO

 

Il primo tema affrontato dal gruppo è il ruolo degli operatori.

Si é partiti dalla valutazione del ruolo del set­tore assistenziale e nel gruppo sono emerse que­ste due funzioni. Secondo alcuni il settore assi­stenziale non può svolgere alcuna attività di pre­venzione primaria in quanto opera in situazioni già deteriorate nel campo degli emarginati, su persone cioè che presentano quindi bisogni già cristallizzati. Pertanto l'assistenza svolge di fatto un controllo sull'emarginazione e la prevenzione si attua solo con opportune politiche sociali nel campo della scuola, della casa, ecc.

Altri, invece, sempre a proposito della defini­zione, affermano che all'interno dell'assistenza si possono prevedere interventi non solo ripara­tivi, ma preventivi, rispetto all'insorgere di futuri problemi.

Un esempio classico potrebbe essere quello dell'affidamento familiare, che, evidentemente, non è un discorso di prevenzione primaria, ma è comunque un momento di prevenzione di un dan­no futuro che potrebbe avere il ragazzo se si mantiene una situazione di fatto.

Nella prima ipotesi, se si esclude che ci sia prevenzione, il ruolo degli operatori è duplice: erogazione di servizi assistenziali deliberati dall'amministrazione; ricerca e segnalazione delle situazioni di rischio che comportano interventi nelle politiche sociali sopraddette (a proposito della casa e via dicendo). Per questa funzione di rilevazione dei bisogni-rischio è necessario che le amministrazioni diano le direttive e gli stru­menti adeguati indispensabili.

Altri hanno sostenuto che occorre distinguere fra gli operatori sociali del territorio e gli ope­ratori che agiscono all'interno delle comunità al­loggio, il cui ruolo essendo principalmente edu­cativo e sostitutivo della famiglia è più assimi­labile al ruolo della famiglia affidataria.

L'operatore sociale, onde evitare contrapposi­zioni con l'utenza, non deve sostituirsi alla ammi­nistrazione, anche se l'operatore nei confronti dell'amministrazione deve e può svolgere una azione di proposta, con documentazioni e solleci­tazioni per l'assunzione delle necessarie deci­sioni.

Di qui la necessità che l'operatore richieda al l'amministrazione l'approvazione degli atti for­mali necessari per l'erogazione delle prestazioni, e che i rapporti con altri enti e con l'autorità giu­diziaria siano tenuti direttamente dall'amministra­zione anche sul piano formale. (Ad esempio ]'in­vio di relazioni e segnalazioni deve essere fatto dalle Amministrazioni e non dagli operatori). Ciò non toglie che l'operatore non possa agire su mandati specifici dell'amministrazione.

Onde evitare la settorizzazione degli interventi che possono ledere l'unità familiare, è necessario che il riferimento dell'intervento non siano le singole persone, ma il nucleo familiare.

Ciò richiede che il lavoro di gruppo diventi la modalità costante del lavoro degli operatori dei servizi.

L'emanazione dell'ultimo decreto governativo sullo stato giuridico e normativo del personale sanitario rischia di compromettere la suddetta modalità di lavoro, perché il rapporto di lavoro del personale addetto alla assistenza è diverso da quello della sanità.

Questo rischio sarebbe attenuata se gli organi di governo delle Unità locali preposte alla gestio­ne dei servizi assistenziali e sanitari fossero uni­ficati, se si arrivasse ad un contratto unico di tutto il personale della sanità e dell'assistenza e se venissero previste modalità operative di reale coordinamento e integrazione dei servizi sud­detti.

Questi stessi principi dovrebbero valere an­che per tutti i servizi preposti allo sviluppo so­ciale (cioè per tutti gli altri servizi sociali: la scuola, la casa, ecc.).

Per quanto riguarda l'affidamento, il gruppo conferma la definizione prodotta dall'Associazio­ne nazionale famiglie adottive e affidatarie, e cioè che su un piano generale si può dire che l'affidamento intende essere una risposta ai pro­blemi dei bambini il cui nucleo familiare ecce­zionalmente o temporaneamente o definitivamen­te non è in grado di provvedere al suo alleva­mento, istruzione, educazione e d'altra parte la situazione non è risolvibile, a seconda dei casi, né con aiuto economico e/o sociale alla fami­glia d'origine, né con l'adozione.

Quindi, per quanto riguarda l'affidamento, si è ribadito che non deve essere un servizio a sé stante, ma una delle prestazioni da inserire nell'ambito delle priorità di intervento, tenendo con­to della massima esigenza di autonomia possibile del nucleo familiare e dei suoi componenti.

L'affidamento va inteso come aiuto alla fami­glia d'origine, tranne i casi in cui ci sia un prov­vedimento dell'autorità giudiziaria contrario al mantenimento dei rapporti e richiede pertanto collaborazione tra ente affidante, famiglia d'ori­gine e famiglia affidataria.

La modalità del lavoro di gruppo è ritenuta in­dispensabile sia per quanto riguarda gli operatori, sia per quanto riguarda le famiglie affidatarie.

In base all'esperienza, alcuni sostengono che sia preferibile il gruppo di discussione delle fa­miglie affidatarie a quello terapeutico.

Altri, invece, sostengono che i due tipi di grup­po possono essere avviati in parallelo.

Il gruppo ribadisce con forza che l'affidamen­to debba essere un servizio gestito dall'Ente locale: il Tribunale per i minorenni e la Sezione minorenni della Corte di Appello dovrebbe inter­venire solo nel caso di conflitti fra ente affidante, famiglia affidataria e famiglia d'origine.

Al riguardo sarebbe necessario che il Tribuna­le per í minorenni non precisasse più, nei suoi provvedimenti, l'obbligo dell'Ente locale di prov­vedere al ricovero del minore, bensì lasciasse all'Ente locale la scelta più opportuna.

Il gruppo ha anche rilevato che ci sono prov­vedimenti del Tribunale per i minorenni che non tengono presenti le esigenze dei minori, special­mente per quanto riguarda i criteri di definizione dell'abbandono, con particolare riguardo all'assi­stenza morale.

Quindi vi è la necessità da un lato di una spe­cifica preparazione dei giudici del Tribunale per i minorenni e della Corte di Appello e dall'altro che le relazioni degli operatori contengano dati oggettivi e non generiche valutazioni.

 

 

TERZO GRUPPO

 

Il nostro gruppo era formato prevalentemente da operatori sociali, da famiglie affidatarie e da operatori volontari di comunità alloggio.

Il dibattito è stato veramente esteso soprat­tutto sotto questi due aspetti: il ruolo svolto dall'operatore sociale con tutte le carenze e con tutte le difficoltà che incontra e la situazione delle famiglie affidatarie e delle comunità al­loggio.

Il gruppo stigmatizza l'assenza al seminario di una rappresentanza della Regione, dell'ufficio unico adozioni del Tribunale per i minorenni di Torino e del servizio di neuropsichiatria infantile. Sono tutti gruppi determinanti per quanto riguar­da l'affidamento, che a questo seminario non si sono fatti vivi.

Il gruppo è perfettamente d'accordo sul di­scorso di una prevenzione sociale. Quindi intende impegnarsi e promuovere la deistituzionalizzazio­ne dei minori della fascia 0/6 anni ricoverati in istituto sia a carico degli enti che delle famiglie.

Si ricorda che, in questo periodo, su disposi­zione regionale le unità operative provinciali di vigilanza trasmettono e trasmetteranno tutti i dati relativi alla cosiddetta anagrafe dei minori effettuata negli ultimi due anni.

Il gruppo in queste due giornate di discussione attraverso testimonianze dirette, esperienze per­sonali di famiglie e di operatori, ha approfondito le problematiche sull'affidamento.

Si è avvertita innanzitutto la necessità di chia­rezza sull'affidamento.

In sintesi riferiamo i seguenti punti.

Dato che l'affidamento deve avere come ogget­to principale il minore e la famiglia d'origine, ri­teniamo che si deve prevedere una valutazione più precisa possibile della situazione nel suo insieme e un piano di lavoro da predisporre in tempi brevi che puntualizzi le modalità di inter­vento comprendendo anche i problemi del rein­serimento del minore.

Nella realtà attuale e di fronte a situazioni par­ticolari vi sono casi di affidamento a lungo ter­mine che, di fatto, sono vere e proprie adozioni non sancite giuridicamente.

Anche per questo motivo il gruppo concorda sulla necessità che sia portato a 18 anni il termine per l'adottabilità e che sia approvata una regolamentazione sull'affidamento per tute­lare sia il minore, sia le famiglie d'origine e affi­datarie.

In questa prospettiva occorre potenziare i ser­vizi di pronto intervento, particolarmente per po­ter conoscere in modo approfondito il minore.

I punti di riferimento dell'affidamento sono in­dividuati nei seguenti: in primo luogo il minore, poi la famiglia di origine e quella affidataria, il Tribunale per i minorenni e gli operatori di zona.

Ci siamo soffermati sulla complessità del la­voro che ricade sugli operatori sociali e si è rilevata una scarsa incisività dei loro interventi ed una loro insufficiente preparazione.

Abbiamo individuato come strumento di for­mazione fra i diversi operatori presenti nella zo­na, il confronto con il gruppo famiglie affidatarie e con i volontari che gestiscono comunità al­loggio.

Il confronto e l'appoggio reciproco sono mo­dalità di formazione permanente.

Sulle comunità alloggio si sono evidenziate le carenze di quelle gestite dall'ente pubblico e le difficoltà in cui vivono quelle private.

Per le comunità si ritiene che la disponibilità del volontariato e la professionalità dell'opera­tore possano garantire la maturazione del minore.

Si propone quindi che questi due elementi sia­no visti insieme.

Comunque la cosa importante, a livello orga­nizzativo, è la previsione di un piano di lavoro in cui siano definiti tempi, metodi e strumenti da parte dell'équipe di zona con verifiche e control­li da parte dell'amministrazione.

 

 

QUARTO GRUPPO

 

Molte cose da noi discusse sono già state riprese da altri gruppi, quindi non le riporterò se non nella misura in cui noi abbiamo da ap­portare degli elementi nuovi.

La prima considerazione che è emersa soprat­tutto ieri pomeriggio nel nostro gruppo è stata quella di considerare non tanto il minore come qualcosa a sé stante o come l'anello più debole, ma di collocarlo all'interno della realtà in cui vive. In particolare la famiglia-rischio, la fami­glia problematica deve essere vista nella sua totalità di adulti e bambini, con la conseguente necessità di una stretta collaborazione di tutti i servizi socio-sanitari territoriali. In questo senso emerge, ad esempio, la collaborazione dell'équi­pe psichiatrica adulti quando i genitori della famiglia d'origine siano o alcoolisti o comunque soggetti bisognosi di una terapia psicologica. Collaborazione problematica nella misura in cui si pone oggi l'équipe psichiatrica che non assolve a questo compito.

In questo senso bisogna evitare gli scollega­menti tra í servizi ed evidenziare la necessità di una supervisione del lavoro effettuato e dei risultati ottenuti da parte dell'équipe nel suo interno.

Il ruolo che potrebbe assumere il coordinatore dei servizi socio-sanitari è quello di verificare la rispondenza effettiva tra le linee operative della civica amministrazione e delle circoscrizioni, il piano di zona e quello che effettivamente si rie­sce a fare.

Allontanamento dei minori dalla famiglia: con che mezzo riusciamo ad evitare questo rischio. Attraverso la messa a disposizione dei servizi primari: scolastici, ricreativi, ecc.

Anche noi abbiamo discusso sui ruolo dell'as­sistenza domiciliare sia nel senso materiale del termine, quella fornita attualmente dalle colla­boratrici, sia in particolare quella educativa.

In questo senso ci siamo posti alcune doman­de: che tipo di figura professionale può svol­gere questo compito. Educatori? Collaboratori familiari? Maestre?

Abbiamo esaminato anche alcune esperienze: ad es. in Val Pellice, dove è stata impiegata una maestra; a Torino, nel quartiere Aurora già citata prima.

Anche il Comune di Torino aveva già elaborata una bozza di delibera che, però, non è ancora stata esaminata dagli organi deliberanti.

In tema di assistenza domiciliare è comparso il discorso che, a me sembra molto interessante e valido, dell'appoggio fornito dal volontariato e dal vicinato.

L'ente pubblico e il servizio di zona dovrebbe essere in grado di collaborare con il volontariato e il vicinato per intervenire in quelle situazioni in cui è ancora possibile intervenire con il sem­plice affidamento diurno, poiché il rischio rela­tivo alla famiglia d'origine è minimo.

In questo senso dovrebbe essere compito del servizio sociale di disporre di strumenti adeguati quali l'assistenza economica, la copertura assi­curativa nei riguardi di questi volontari che si offrono per «l'affidamento diurno», e opportuni strumenti per il reperimento di queste persone «da buon vicinato».

Per assistenza domiciliare si intende questa vasta gamma di interventi, da quella presente delle collaboratrici a quella educativa fornita da educatori o da maestri, a quello che abbiamo de­finito affidamento diurno del buon vicinato.

Questi strumenti potrebbero essere abbastan­za validi per evitare l'allontanamento del minore dalla famiglia.

L'intervento di affidamento diurno sembra po­ter risolvere le necessità più impellenti o altri­menti ad evidenziare il potenziale affettivo e edu­cativo della famiglia d'origine e da cui dovrebbe­ro derivare comportamenti più validi.

Se, dopo aver esperito questi supporti, si ve­rifica, nell'arco di un tempo ragionevole, l'inca­pacità educativa temporanea o definitiva della famiglia d'origine, diventa indispensabile l'allon­tanamento del bambino dalla famiglia attraverso le forme che tutti conoscono: l'affidamento, la adozione, la comunità alloggio, l'istituto.

Abbiamo poi esaminato questa mattina più spe­cificamente l'affidamento familiare. Innanzitutto dall'esperienza è emerso che per un valido affi­damento occorre che le famiglie affidatarie si trovino tra loro non solo per un collegamento formale ma per autoformarsi, per discutere in­sieme.

Evitare, quindi, che in un quartiere nasca una famiglia affidataria isolata che non abbia alcun punto di riferimento e di scambio con altre espe­rienze.

Inoltre é necessario che il servizio sociale, nel momento che presenta alla famiglia il caso, porga tutte le notizie a sua disposizione sulla vita e personalità del minore evitando di nascon­dere quelle che potrebbero scoraggiare l'affida­mento.

Da molte esperienze risulta che si tende a mi­nimizzare a volte le difficoltà del bambino con conseguenze che tutti possono immaginare. Inol­tre è indispensabile che, disposto l'affidamento, ci sia un supporto ad esempio per le pratiche amministrative da parte del servizio sociale, ci sia copertura e assistenza da parte dei tecnici, ed in particolare dello psicologo, nei confronti dell'utenza e dei problemi che nascono dal rap­porto con la famiglia d'origine.

Occorre inoltre una regolamentazione precisa o da parte del servizio sociale o da parte del Tribunale per i minorenni dei rapporti tra la fa­miglia affidataria e la famiglia d'origine.

Dall'esperienza dei partecipanti e dai dati sta­tistici emerge come la maggioranza degli affida­menti non sono quelli facili, ma sono quelli diffi­cili e a lungo termine.

Siamo poi passati ad esaminare la proposta di deistituzionalizzazione dei minori. Anche a que­sto riguardo è importante avere a disposizione un ventaglio di possibilità che sono appunto l'as­sistenza domiciliare nelle articolazioni sopra in­dicate, l'affidamento a parenti, le comunità al­loggio di pronto intervento e/o terapeutiche.

Il Comune di Torino sta appunto studiando di affrontare un piano di questo tipo: sono state as­sunte ultimamente 30 collaboratrici familiari, al­tre 30 arriveranno in breve tempo. Quindi 60 collaboratrici familiari in più entro due mesi.

È anche prevista l'apertura di nuove comunità alloggio, é prevista l'emanazione della delibera sugli affidamenti a parenti. È prevista la pubbli­cizzazione a livello di quartiere dell'affidamento familiare come emerso dai vari piani socio-sani­tari di zona.

In questo senso si è lavorato nel quartiere Cit-Turin, dove il Consiglio di circoscrizione ha finanziato con un milione una campagna di sen­sibilizzazione sull'affidamento. Il servizio si è già trovato con alcune famiglie affidatarie per discutere sui problemi inerenti all'affidamento.

 

 

QUINTO GRUPPO

 

Considerato che parte degli argomenti sui quali si è ragionato in queste giornate sono stati trat­tati dagli altri gruppi, le conclusioni del nostro dibattito rispondono principalmente all'affidamen­to educativo e in piccola parte all'adozione, in specie quella internazionale.

Per quanto riguarda l'affidamento la discussio­ne si è sviluppata partendo dalla delibera del Comune di Torino e dai concetti e dai criteri che l'hanno ispirata, dalla scala di priorità degli in­terventi che prevede la delibera stessa.

Abbiamo tutti concordato sulla validità dei con­tenuti della delibera, ma abbiamo anche eviden­ziato le condizioni che è necessario realizzare perché tale atto possa trovare concreta e posi­tiva applicazione, in specie per quanto riguar­da l'affidamento.

A tale riguardo le proposte sono state molto precise, ed hanno definito quali siano le condi­zioni da realizzare per avviare gli affidamenti in modo corretto.

Le condizioni indicate riguardano i mezzi stru­mentali ed il metodo.

Circa i primi l'esperienza sin qui fatta inse­gna che sono indispensabili le équipes, le comu­nità alloggio di pronto intervento e i gruppi di volontari. Tali équipes devono essere inserite nel contesto generale degli altri servizi socio-sani­tari del territorio di cui sono parte integrante, ed inoltre devono poter sempre contare sulla pre­senza di un neuropsichiatra vuoi infantile che per adulti.

Le comunità alloggio di pronto intervento sono in funzione delle attività dell'équipes; il loro ruolo è quello non tanto di strumento per inter­venti immediati quanto per decantare situazio­ni difficili, in previsione di trovarne la soluzione adatta con la dovuta ponderazione.

Venendo al terzo elemento richiesto, e cioè i gruppi di volontari, è stato precisato che essi devono essere costituiti da appartenenti alle forze sociali che agiscono su uno specifico ter­ritorio e si è concordato che essi debbano ope­rare su tutto il fronte dei problemi minorili gene­ricamente intesi, e non solo su parti di esso (adozione, affidamento, devianza, ecc.).

Questi gruppi comprendono anche gli affidatari (famiglie, singole persone, gruppi famiglia) ai quali compete un duplice ruolo. Gli affidatari, in­fatti, hanno il compito di contribuire all'attività generica del gruppo e contestualmente e più spe­cificatamente, di operare in modo fattivo alla conduzione degli affidamenti anche con scambi periodici di esperienze tra gli stessi affidatari e/o i tecnici della équipe.

Sotto il profilo del metodo, è stata confermata l'esigenza inderogabile che per ogni caso, quanti se ne occupano formulino un programma nel bre­ve e nel lungo periodo, calibrato sulle esigenze degli interessati, valutate secondo una precisa scala di valori, e rapportato alle caratteristiche dell'ambiente in cui si agisce.

È stato inoltre affermata la decisione che la precedenza degli interventi sia riservata ai sog­getti più giovani zero-3 anni per incominciare. Infatti, considerato che le risorse disponibili co­munque intese sono limitate, si è ritenuto dove­roso proporre di concentrarle sui casi meno com­promessi, e per i quali le probabilità di recupero totale sono più alte; questi casi, sono, in genere, anche relativamente più facili e consentono di assicurare un avvio del servizio di affido educa­tivo anche in carenza di consolidata esperienza sia da parte degli operatori professionali che dei volontari.

Gli affidatari devono risultare da un processo di selezione che non dovrà avere caratteri esclu­sivamente tecnici ma, al contrario, dovrà essere basato tendenzialmente su criteri di autovaluta­zione: il problema del metodo da applicare per questa forma di autoselezione è aperto, e richie­derà un attento approfondimento. In linea di mas­sima si è concordato sulla assoluta necessità che chi intende assumere la responsabilità di un af­fido abbia tutte le informazioni necessarie per va­lutare la portata del suo impegno e le difficoltà che incontrerà. Quanto detto è valido anche per chi intende adottare.

In sostanza per ogni minore in difficoltà l'équi­pe dovrà formulare un programma di intervento finalizzato al conseguimento di specifici obietti­vi; periodicamente verranno verificati i risultati della sua attenzione operando aggiustamenti o vere e proprie modificazioni del programma stes­so, qualora se ne ravvisi l'opportunità. Nei casi di affidamento, l'applicazione corretta di questo metodo dovrebbe essere in grado di offrire mi­gliori garanzie di successo all'impegno della fa­miglia affidataria, e, nel contempo, tutelarne me­glio le esigenze.

Per quanto riguarda l'adozione è stata appro­fondita in modo particolare la problematica re­lativa all'adozione internazionale.

Il gruppo ha concordato sul fatto che l'ado­zione internazionale ha una sua validità in asso­luto, che è compatibile con l'adozione di bambini italiani e che comporta problemi specifici.

Da un lato infatti esiste il problema, che è di natura giuridico-legislativa, di impedire che fami­glie o singole persone inadatte o inidonee, possa­no adottare bambini stranieri, dall'altro esiste il problema, in questo caso di natura sociale, di inserire questi bambini nel contesto socio-cultu­rale del nostro Paese.

Purtroppo vi sono numerosi casi in cui i bam­bini stranieri sono stati trapiantati in famiglie italiane mediante delibazioni di sentenze emes­se dai paesi di origine senza che si sia potuto assicurare loro la stessa garanzia che la legge 341 assicura ai bambini italiani.

La linea di condotta, proposta e realizzata dal CIAI e ripresa dal gruppo «Come Noi», è stata riconosciuta come quella più rispondente agli in­teressi dei minori, in quanto prioritariamente si preoccupa di verificare che le famiglie disposte ad adottare bambini stranieri presentino le stes­se caratteristiche di idoneità che si richiedono per quelle che sono disponibili ad adottare bam­bini italiani, e che queste famiglie, inoltre, siano preparate ad affrontare i problemi in più che na­scono dall'inserimento nel nostro contesto so­ciale di bambini provenienti da altri paesi.

Si tratta di problemi che sembrano di facile soluzione quando i bambini sono piccoli, tendo­no talvolta a farsi più gravi con la loro crescita.

Ciò richiede che la famiglia adottiva sia pre­parata ad affrontare ed a superare positivamente queste situazioni; inoltre la famiglia deve avere la possibilità di avvalersi dell'aiuto tecnico e psicologico dell'équipe di zona e del gruppo di volontari, di cui si è detto in precedenza; da parte di questi ultimi in concreto il sostegno sarà fornito sotto forma di confronto e di scam­bio di esperienze con altre famiglie che hanno vissuto casi di adozione.

Per quanto riguarda l'assicurare ai bambini stranieri le stesse garanzie di cui godono i bam­bini italiani si è dovuto constatare che, sotto il profilo giuridico, sussistono grosse difficoltà.

Infatti la possibilità di ricorrere al sistema del­la delibazione in Italia di sentenze emesse da Paesi stranieri, sembra quasi impedire qualsiasi forma di controllo sull'adozione di bambini stra­nieri.

Il gruppo ha espresso la richiesta di un esame attento e approfondito del problema da parte di esperti, per individuare le modalità tecniche ca­paci di porre fine a questa situazione.

Si è ribadita la necessità di pervenire al più presto ad una modificazione della legge sull'ado­zione speciale che tenga conto delle esperienze maturate in questi tredici anni di applicazione senza snaturare i principi che l'hanno informata.

Inoltre è stato posto sul tappeto il problema fondamentale dell'individuazione dei minori che versano in condizione di abbandono morale e ma­teriale.

A tale proposito si é pervenuti alla conclusio­ne che attualmente, sulla base di un'ampia casi­stica, è più che legittimo il sospetto che molti bambini che sono in questa situazione non ven­gano segnalati all'autorità giudiziaria.

Inoltre si è constatata una tendenza, sempre più marcata, da parte dei Tribunali per i minoren­ni a non riconoscere come adottabili anche i mi­nori che hanno i requisiti richiesti dalla legge. Ta­le atteggiamento, del tutto negativo, è tenuto ed in misura ancor più accentuata dalle Corti di Ap­pello e di fatto significa una vera e propria disapplicazione della legge.

Si è concordato nel ritenere che l'atteggiamen­to «prudente» tenuto dagli organi giudiziari a questo riguardo, costituisca il riflesso di una pe­sante campagna condotta contro l'istituto della adozione speciale; da «destra» gli attacchi so­no stati portati in nome della preminenza del «diritto del sangue» e da «sinistra» in difesa dei diritti della donna generatrice.

In entrambi i casi il bambino non viene consi­derato come portatore di diritti soggettivi e per­tanto per essi respinta la soluzione adozionale: l'unica soluzione proposta è quella del ricovero in istituto.

Il gruppo ha confermato l'esigenza di assumere iniziative concrete per riaffermare che, preminen­temente, deve essere tutelato l'interesse del mi­nore, privilegiando, fin quando possibile, i rap­porti con la famiglia d'origine.

Sotto questo profilo è stato riaffermato il prin­cipio di attuare, secondo una prefissata priorità, tutti gli interventi necessari a favore della fami­glia d'origine per rimuovere le cause che deter­minano lo stato di abbandono e di ricorrere all'adozione speciale solo qualora tali interventi non ottengono, in misura sufficiente, gli effetti sperati.

 

 

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