Prospettive assistenziali, n. 53, gennaio - marzo 1981

 

 

ANALISI DELLA SITUAZIONE DEI SERVIZI SANITARI E ASSISTENZIALI IN TOSCANA

MARCO BARBIERI

 

 

La Regione Toscana è preparata all'attuazione sia della riforma sanitaria, sia di quella dell'assi­stenza, sotto il profilo istituzionale e politico-cul­turale, specie rispetto ad alcune realtà regionali del Paese. Sin dalla prima legislatura, infatti, la scelta decisiva è stata quella di percorrere la strada, non certo facile, della c.d. «riforma dal basso», perseguita con buona determinazione fruendo dei contenuti del dibattito sulla politica locale dei servizi, già maturi nel '72.

Si ebbe da parte regionale un rifiuto netto ad amministrare e gestire in prima persona servizi e prestazioni; l'adesione piena alle linee fondamen­tali di azione socio-sanitaria espresse nei docu­menti per la (abortita) programmazione naziona­le; l'impegno a muoversi anche in assenza di ri­forme e di leggi-quadro spesso auspicate. Solo così era realizzabile un intervento globale vera­mente tempestivo su di una realtà, quale quella toscana, in cui gli squilibri territoriali e l'assetto distorto del sistema di sicurezza sociale e dello sviluppo socio-economico generale assumono ca­ratteri di specificità.

Le contraddizioni di un certo modello di svilup­po regionale hanno infatti indotto nel tessuto so­ciale effetti gravi quali: l'abbandono della monta­gna seguito da una rapidissima evoluzione di una fascia urbana localizzatasi nella zona dell'Arno e del litorale tirreno; il consolidarsi dell'industria leggera, con le ripercussioni negative sulla salu­te della gente (sviluppo di diffuse e malsane for­me di lavoro non istituzionale) che ciò ha causato in assenza di un disegno generale di programma­zione che privilegiasse questo settore (1).

In quest'ottica l'azione legislativa ed ammini­strativa della Regione ha prefigurato con gradua­lità le necessarie riforme, anticipando o addirit­tura contribuendo ad orientare e dare impulso, assieme ad altre realtà regionali, all'evoluzione della normativa statale stessa. Anche grazie a questo le varie leggi di settore emanate negli ul­timi anni hanno prima preso corpo e poi trovato un terreno istituzionale ed organizzativo estre­mamente fertile per calarsi e produrre effetti sul territorio.

Questo cammino è stato indubbiamente carat­terizzato da non lievi difficoltà di ogni genere: un assetto istituzionale dei Comuni assolutamente inadeguato alle esigenze oggi poste da una resa in efficacia dell'amministrazione locale; la ende­mica scarsità di mezzi finanziari; la limitatezza dei poteri di intervento autonomo e svincolato da una normativa ormai sorpassata. Ciononostante l'impegno, la continuità ed una certa chiarezza di idee hanno consentito di raggiungere risultati di rilievo.

Vi sono peraltro anche molte «ombre» in que­sto quadro: fallimenti organizzativi ed operativi; inadempienze, negligenza, ottusità, localismo campanilistico; disponibilità solo teorica a rece­pire contributi «dal basso» alla programmazione regionale. Pur essendosi avviato, il processo di affermazione della politica locale dei servizi tro­va ancora, qui, grossi limiti di attuazione, equi­voci, mancata coerenza nei fatti. L'obiettivo della globalità di tutti i servizi, da costruire a livello di zona socio-sanitaria, non sempre ha trovato fa­cile attuazione, con il rischio, non certo fugato dalla spesso richiamata mancanza della riforma dell'assistenza, di sanitarizzazione dei problemi; la deistituzionalizzazione e la partecipazione non hanno trovato ancora, in molti casi, una loro fisio­nomia precisa e strumenti veramente efficaci di realizzazione; la formazione e la riqualificazione degli operatori non pare abbia fatto quei passi in avanti significativi che sono indispensabili in que­sta situazione.

Sono comunque importanti gli sforzi ed i tenta­tivi fatti da Regione ed Enti locali, ciascuno per parte propria, nella direzione della identificazione ed utilizzazione, in una prospettiva di riforma, de­gli spazi normativi ed operativi disponibili nel contingente per una azione di promozione e di rin­novamento.

 

La programmazione ed i Consorzi Socio-Sanitari in Toscana: alcune riflessioni.

Gli aspetti qualificanti del tentativo toscano di prefigurare un nuovo sistema di sicurezza sociale sono stati: la promozione del consorziamento tra Comuni e Province; l'adozione della programma­zione come processo (2), quale metodo di orien­tamento verso un nuovo modo di amministrare la «cosa pubblica». L'azione regionale ha infatti, dal '72 ad oggi, pur non senza contraddizioni, se­guito questi binari con linearità ed impegno.

Ci si preoccupò subito di creare le premesse necessarie per poter attuare nel concreto questo tipo di scelta, operando una zonizzazione socio­sanitaria congruente con l'esigenza di circoscri­vere aree nell'ambito delle quali i nuovi soggetti istituzionali avrebbero potuto svolgere un'azione proficua ed incisiva (L.R. 64/'73). Contempora­neamente andava precisandosi una «Ipotesi di organizzazione di unità locale di sicurezza socia­le» (3), considerata strumento efficace per una programmazione di lungo termine. Essa, infatti, avrebbe dovuto servire da base orientativa di ri­ferimento per indirizzare correttamente e coe­rentemente la politica regionale e locale di setto­re per gli anni a venire. Su questa base si intese dare, anche operativamente, un'impronta di stret­ta interrelazione agli aspetti socio-assistenziali, sanitari e di difesa dell'ambiente, conglobando nell'unico Dipartimento regionale di sicurezza so­ciale tutti gli uffici interessati. Nell'«Ipotesi» erano anche previsti spazi precisi per recepire e valorizzare la spinta partecipativa della popola­zione, ai due livelli funzionali previsti: Unità lo­cale e distretto di base.

A dare contenuto politico-culturale, per così dire, ed attuazione graduale a questo «schele­tro» istituzionale e concettuale, fu quello che è stato definito «intervento a mosaico», cioè una serie coerente di iniziative legislative concernen­te tutti gli aspetti necessari a configurare un nuo­vo sistema di tutela della salute (in senso lato). Si sono avute così: la legge regionale 50/'74 di finanziamento a favore degli Enti locali per la co­stituzione dei Consorzi socio-sanitari nell'ambito delle zone già individuate; le leggi regionali re­lative ai progetti obiettivo mutuati criticamente dalla programmazione nazionale (benessere de­gli anziani, tutela della salute dei lavoratori, tute­la della maternità, infanzia ed età evolutiva) (4); l'elaborazione e le leggi di attuazione del piano ospedaliero toscano (5); la legge di delega delle competenze in materia di assistenza ai Comuni e loro Consorzi (6).

L'istituzione generalizzata sul territorio tosca­no dei Consorzi socio-sanitari ha dato risultati in­dubbiamente positivi, benché non si siano anco­ra superate certe contraddizioni che continuano a conservare un loro peso preciso. Da una somma­ria analisi della situazione, quale essa si presen­tava sia nel '77 che nel '79, basata su di un riepi­logo completo e sistematico curato dalla Regione aggiornato al 30/4/'77 (7), e sui contenuti della delibera del Consiglio regionale avente come og­getto il «Programma regionale di intervento fi­nanziario nel settore dei servizi sociali Anno 1979» (8) , emerge un quadro abbastanza definito della questione.,

Riferendoci alla data del decreto di istituzione, adottato dal Consiglio regionale, risultava che, nell'anno 1975, a due anni dalla legge di zonizza­zione e ad un anno dalla legge di costituzione, so­lo 4 amministrazioni consorziate su 67 previste avevano presa avvio. In seguito l'iniziativa iniziò a prendere quota, tanto che il numero dei Con­sorzi istituiti passò, all'aprile del '77, da 4 a 42 (su 67), giungendo poi, nel 1979, a generalizzar­si per la quasi totalità del territorio regionale (66 su 67).

Un altro dato significativo mi pare sia quello del tempo intercorso tra momento di emissione del decreto istitutivo e momento in cui si è avu­to l'effettivo insediamento del Consorzio, la data, cioè, di convocazione della prima Assemblea consortile. I dati del '77, gli unici completi in mio possesso, confermano che nell'arco di tempo in esame solo 31 Consorzi su 42 costituiti si erano insediati, con un periodo medio, diciamo così, di «latenza» di circa 13 mesi e mezzo. Da tener presente che ben 15 Consorzi si insediarono do­po un lasso di tempo variante dai 10 ai 19 mesi.

Altra indicazione utile è relativa alla data di ap­provazione della delibera regionale di erogazione del contributo per le spese di primo impianto (ex L.R. 50/’74), che dà conto dell'impegno preso dalle varie Amministrazioni consorziate di proce­dere allo scioglimento dei Consorzi di settore e di dotare il Consorzio socio-sanitario istituito di un proprio servizio di tesoreria. Il numero dei nuo­vi Consorzi, in possesso di tali requisiti, sempre al '77, scendeva così da 31 a 12. Alla stessa epo­ca solo per 2 su 12 vi era stata, da parte dell'As­semblea consortile, l'approvazione del primo bi­lancio, senza di cui il Consorzio non poteva con­cretamente operare. Questi dati coglievano in­dubbiamente la realtà dell'esperienza del consor­ziamento toscano in una fase iniziale del suo svi­luppo e della sua maturazione. Risulta tra l'altro che al giugno '77 solo 2 Regioni a statuto ordina­rio su 20 avevano raggiunto l'obiettivo della tota­le costituzione dei nuovi enti; 6, tra le quali la Toscana, appunto, li avevano previsti ed in parte costituiti; 3 li avevano previsti ma nessuno costi­tuito; 9 non avevano addirittura legiferato in ma­teria (9). Ciò non significa che le difficoltà e le contraddizioni non vi siano e non siano anche rile­vanti. Una conferma indiretta si ricava da un esa­me, ad esempio, dei rapporti di carattere finanzia­rio, segnatamente per il settore dei servizi socio­assistenziali, che sono intercorsi nel 1979 tra Re­gione Toscana e Enti locali.

Da alcune tabelle allegate alla deliberazione re­gionale di cui alla nota 8, risulta che solo 27 Con­sorzi socio-sanitari intrattenevano rapporti istitu­zionali esclusivi con la Regione stessa, mentre per le restanti 39 zone la situazione si presenta­va molto più fluida ed articolata. C'erano casi in cui, con una chiara sovrapposizione, sia il Consor­zio che i Comuni consociati tendevano a mante­nere ciascuno distinti canali di finanziamento (n. 17 Consorzi) ; casi in cui il solo destinatario dei contributi regionali di settore restava il Co­mune (n. 22 Consorzi, comprensivi, questi, delle 9 zone ricavate nell'area metropolitana fiorentina, non tutte consorziate all'epoca). Pur in una com­prensibile e forse positiva diversità di tempi di maturazione e di scelte politiche locali, questi elementi confermano in qualche modo, a mio av­viso, l'impressione di un'evidente sostanziale dif­ficoltà, da parte delle varie realtà di zona, a stabi­lire normali e lineari rapporti di piena fiducia tra loro. E ciò al punto che lo stesso Consiglio regio­nale, nella delibera citata, osserva come «...i rap­porti tra Comuni e Consorzi non hanno trovato una sufficiente chiarificazione nel senso che, an­che nelle zone ove tali organismi sono costituiti, i Comuni hanno continuato, frequentemente, a svolgere attività assistenziali... in qualche caso si è anche verificato che Comuni consorziati da al­cuni anni hanno avuto, proprio nel 1979, la gestio­ne diretta di nuove attività», prefigurando con ciò, in qualche modo, un passo indietro, se pure circoscritto, rispetto ad acquisizioni precedenti. Sono evidenti, al proposito, i riflessi negativi che tali fatti possono avere sulle effettive possibilità di rendere veramente operativi, in sede decentra­ta, ed efficaci (in qualità prima ancora che in quantità) i nuovi ed innovativi indirizzi di politi­ca locale dei servizi. A completamento del quadro sarebbe interessante verificare la situazione del processo di distrettualizzazione alla data dello scioglimento dei vari Consorzi. Specie di fronte ad alcune esperienze molto proficue ed interes­santi, non può certo considerarsi positivo il fatto che questo fenomeno non si sia generalizzato, sul territorio, nonostante l'entrata in vigore della legge 278/76 relativa alle Circoscrizioni. Se crea­re strutture funzionali e partecipative di base è premessa indispensabile per introdurre nell'ope­rare quotidiano quei principi di integrazione e di globalità dell'intervento, di promozione e di rice­zione della volontà e delle necessità della gente, di messa in atto di nuovi modelli di rapporto con gli utenti e tra gli operatori, dobbiamo considera­re significativa tale indicazione emergente.

Un esame sommario dell'evoluzione del dibat­tito sui Consorzi socio-sanitari in Toscana, così come essa si è configurata nei contenuti emersi dai convegni di studio promossi nel '75 ad Arezzo e nel '77 a Viareggio, ci dà conto di alcune aspet­tative e di alcuni problemi in merito. Già nel '75 si sosteneva che: «I Consorzi sono un'occasione per superare la duplicità delle competenze, la set­torialità, la parcellizzazione e per ricondurre, ol­treché ad una più alta efficienza, che è sempre necessaria, anche ad una organizzazione della di­rezione politica che appaia ad ogni cittadino com­prensibile ed accessibile nella sua unicità» (10). Anche i limiti generali allo sviluppo di questa grossa iniziativa di riforma «dal basso», erano chiaramente identificati nell'allora ridotta compe­tenza regionale nel settore della sicurezza socia­le, ristretta alla « beneficenza » ed all'igiene pub­blica; nel mancato scioglimento degli Enti nazio­nali di settore con relativo trasferimento di beni e di strutture; il superamento del sistema mutua­listico (11). Cionondimeno si era ben determinati a tentare, attraverso i Consorzi, pure in un'ottica di razionalizzazione, la ricerca attiva di nuove for­me di esercizio di poteri e competenze che costi­tuissero, intanto, una valida esperienza per gli amministratori locali. Lo spazio per il protagoni­smo del Consorzio socio-sanitario, titolare di fun­zioni proprie e delegate, sarebbe diventato spa­zio di innovazione nella misura in cui si fosse fat­to lo sforzo di dare alle funzioni da svolgere in sede locale un contenuto oggettivo nuovo e qua­lificante: lo stimolo ad una messa a punto attiva di un rinnovamento (anticipatorio della riforma) fondato sulla maturazione ed acquisizione da par­te delle forze sociali, politiche ed amministrati­ve di un nuovo atteggiamento politico-culturale, che si approfondisse dialetticamente un processo circolare di elaborazione teorica e prassi quoti­diana. Certi risultati positivi hanno dimostrato la praticabilità di tale ipotesi.

Già nel '75 però si evidenziavano alcune diffi­coltà della Regione Toscana ad indirizzare le am­ministrazioni locali verso obiettivi unitari: i vari obiettivi di settore erano raggiunti solo parzial­mente; i finanziamenti stentavano a trovare de­stinatari attivi (12). Alcune cause: certe contrad­dizioni nei processi politici locali; precarietà ed incosistenza delle strutture degli Enti locali stes­si; certe diffuse ottiche localistiche; imprepara­zione culturale e scientifica, oltre che organizzati­va degli apparati, conseguenza anche, ma non so­lo, di un'antica subordinazione nei confronti dello Stato centralizzatore. Tutto questo spingeva il convegno ad auspicare un più adeguato impegno da parte dei soggetti coinvolti: contenuti ed ela­borazioni importanti e qualificanti non mancava­no, e suggerivano una revisione organizzativa di strutture, del personale, dei mezzi e delle risorse a disposizione, della spesa, dei modelli operativi di intervento, ecc., nel tentativo di indurre un sal­to di qualità nei servizi (13) .

Come é confermato dai dati ivi riportati, a ca­vallo del '76-'77 si registra effettivamente una net­ta ripresa del processo di istituzione dei Consor­zi socio-sanitari in Toscana. Nel convegno di Via­reggio poi, a partire dai documenti preparatori, si osserva come il dibattito sulla funzionalità del «nuovo» ente si fosse evoluto, con ulteriori spe­cificazioni e con un ampio approfondimento te­matico, ricalcanti. comunque, le linee generali già viste. Ci fu la conferma del raggiungimento di alcuni risultati positivi, specie dove il Consorzio era stato istituito ed aveva cominciato a funzio­nare. Si registravano alcuni segni di una conver­genza di interessi, soprattutto tra strutture sani­tarie e mutualistiche ed ospedaliere di zona e le amministrazioni consortili, in un'ottica, se non di programmazione, almeno di collaborazione; si prese atto di alcune avvenute riunificazioni di in­terventi tra servizi sociali e sanitari gestiti in pre­cedenza, settorialmente, dai vari Enti locali; ugualmente si verificava qualche caso di ricom­posizione della spesa sociale e sanitaria a livello dei bilanci consortili. Con molto realismo, però, emersero con chiarezza anche alcune «ombre» che evidenziavano uno scarto non lieve ancora presente tra costituzione dei Consorzi ed effetti­va capacità di incidere sui problemi reali della zo­na. Problemi di rapporto tra le varie forze politi­che locali; invito alla Regione Toscana ad incre­mentare il proprio contributo di stimolo alla crea­zione e diffusione di strumenti idonei, oltre a ren­dersi disponibile ad un coinvolgimento che an­dasse ai di là delle consultazioni non sempre pro­ficue relative alle politiche ed ai programmi re­gionali da attuare.

Continuavano a persistere alcune remore, non sempre latenti, al pieno trasferimento delle fun­zioni, del personale, dei mezzi, delle strutture, dei contributi di funzionamento, necessari per non improvvisare. Tutto ciò, sia pure inquadrato nello scenario più ampio delle questioni della riforma delle autonomie, del riassetto della finanza loca­le, del completamento delle deleghe e del dise­gno riformatore, conferma i travagli dell'espe­rienza consortile toscana.

L'ultima fase pare essere ancora attraversata da questi stessi problemi. Pur non avendo queste considerazioni valore assoluto, di fatto pare es­sere confermato l'incompleto raggiungimento de­gli obiettivi prefissi dell'integrazione dei servizi, di un chiaro orientamento al rischio, nell'ottica della prevenzione primaria, di diffusione e promo­zione della partecipazione. In assenza di un si­stema informativo orientato a costruire un con­suntivo puntuale di attività, quale tentativo di da­re una valutazione di efficacia e di efficienza dell'esperienza in oggetto, è estremamente difficile esprimere un giudizio valido. Certo è che il man­cato generalizzarsi dei processi di decentramen­to e di distrettualizzazione, di riorganizzazione profonda dei servizi, dei rapporti con gli Enti ospe­dalieri, dell'operatività dei Comitati di iniziativa popolare e dei Comitati di Base, di elaborazione di piani organici, di modelli organizzativi, di diffu­sione di nuovi stili operativi, spinge ad orientare il proprio punto di vista verso una posizione in­termedia. Alcuni dati relativi all'offerta di servi­zi ed alla domanda soddisfatta, infatti, specie per alcuni specifici settori socio-sanitari di attività, confermano in ogni caso un certo incremento dei livelli quanti-qualitativi degli interventi sia di ca­rattere preventivo che di deistituzionalizzazione. Questo, accanto alla sostanziale positività di sin­gole esperienze consortili, conforta l'opinione in base a cui certe cose si siano fatte e che molto si possa effettivamente fare, a partire dalla zona e dalla regione, qualora esista una precisa e salda determinazione a tutti i livelli nel compiere scel­te qualificanti che trovino negli operatori impe­gnati una disponibilità ed una ampia capacità di risposta. La Regione Toscana pare esprimere es­sa stessa una realistica valutazione dell'esperien­za consortile, in maniera indiretta. Nella bozza di piano sanitario regionale 1980/'82, elaborata nel maggio di quest'anno a cura del Dipartimento di sicurezza sociale, infatti, si afferma: «Occorre però essere consapevoli, che una reale e perma­nente integrazione tra sanitario e sociale non è un evento scontato da soluzioni istituzionali ed organizzative, pur proponenti innovazioni profon­de, previste in progetti ancora astratti,.. [essa] sarà reale solo quando ogni singola U.S.L. avrà attivato il suo modello, non accadendo più che sia la realtà a doversi adeguare a strutture che rispondono alla logica della burocrazia... Gli ope­ratori politici, gli operatori tecnici, l'utenza e tut­ta la collettività sono chiamati ad una profonda riconversione concettuale e pratica» (14).

Il processo è quindi avviato, ma, allo stato at­tuale delle cose, pur in presenza di spazi suffi­cienti, non si é ancora andati sino in fondo, sino alle conseguenze ultime dell'impegnativo pro­getto iniziale.

 

Le Associazioni intercomunali.

Le Associazioni intercomunali, di cui è pre­vista l'istituzione su tutto il territorio regionale in base alla legge regionale 37/'79, credo costi­tuiscano una corretta ed organica evoluzione dell'esperienza toscana di consorziamento. L'esi­genza, univocamente sentita da parte di Regione e di Enti locali, di individuare aree polifunzionali per la gestione associata delle funzioni proprie e delegate dei vari Comuni, nell'attivo supera­mento di una serie di zonizzazioni di settore «sel­vagge», disomogenee, sovrapposte, ha così avu­to una definitiva legittimazione normativa. Tale scelta tiene conto con chiarezza di quanto viene di fatto prefigurato sia da una serie di provvedi­menti vigenti (D.P.R. 616/'77, L. 833/'78, ecc.), sia dalle proposte di legge di riforma delle au­tonomie locali di iniziativa di vari partiti, le qua­li unanimemente configurano un organismo isti­tuzionale intermedio idoneo ad essere soggetto di programmazione e di gestione, con riferimen­to ad una congrua porzione di territorio, tenuto conto dell'articolazione degli insediamenti e dei vari poli di gravitazione di servizi ed attività. Per la Toscana si sono così individuate 32 zone, per ciascuna delle quali è prevista la costituzione di una Associazione intercomunale con propri or­gani, proprio statuto, deputati, tra l'altro, all'eser­cizio delle funzioni a carattere socio-sanitario.

La legge regionale originariamente approvata subì un rinvio da parte governativa. sulla base di deduzioni che ridimensionavano la portata dell'atto, pur senza stravolgerne la sostanza, con la possibilità quindi, di procedere rapidamente alla costituzione delle Unità sanitarie locali ed al completamento del processo di delega delle va­rie competenze. Anzi, nel rilievo espresso si è avuto conferma della possibilità, da parte delle Regioni, di disciplinare questa materia anche in via transitoria. È questo il contesto istituzionale in cui si realizzerà, a livello locale, la riforma sa­nitaria. Pare lecita supporre che, collocando così concretamente questo disegno in un'ottica di più ampio respiro politico, i rischi di un'accentuazio­ne della separazione e della settorialità di tale aspetto dell'intervento locale si riducano di mol­ta. Si apre, in tal modo, una prospettiva di rispo­ste globali ed integrate ad esigenze che ogni giorno di più si rivelano complesse, molteplici ed articolate.

 

I vari settori di attività e le prospettive.

Nell'intendimento di dare un quadro sufficien­temente aggiornato dello stato attuale dei servi­zi socio-assistenziali e sanitari in Toscana farò riferimento ad alcuni dati relativi agli interventi settoriali adottati. La trattazione sarà ovviamen­te centrata sull'offerta, in termini quantitativi, di prestazioni, servizi, strutture, presidi, perso­nale, ecc., l'assenza di un sistema informativo strutturato, di procedure di verifica dei risultati ottenuti e di valutazione dell'efficacia-efficienza del sistema generale di intervento è ancora rile­vante. Cionondimeno credo che alcune conside­razioni saranno possibili al riguardo. La docu­mentazione è stata reperita presso gli uffici del Dipartimento di sicurezza sociale regionale com­petenti; l'esame della bozza del «Piano sanitario regionale 1980/'82» elaborata nel maggio u.s. mi consente anche di dare alcune brevi indica­zioni di prospettiva.

 

Tutela della maternità, dell'infanzia, dell'età evo­lutiva e consultori.

Questo progetto-obiettivo di programmazione nazionale è sempre stato al centro dell'attenzio­ne della Regione Toscana sino dai primi anni del­la sua attività. Con alcuni provvedimenti di leg­ge risalenti al '73 si garantiva: un intervento eco­nomico integrativo di natalità a favore di catego­rie scarsamente protette (coltivatrici dirette, la­voratrici artigiane, esercenti attività commer­ciale) erogato dai Comuni; finanziamenti agli Enti locali per attività di assistenza sanitaria e sociale nei settori in oggetto (15). Gli obiettivi erano quelli della prevenzione, della riabilitazione, della deistituzionalizzazione: i contenuti degli interven­ti erano specificati in un documento elaborato a cura del Dipartimento, in cui si definirono alcu­ne caratteristiche minime dei servizi, modalità e strumenti per l'azione. Tale interesse scaturiva con probabilità dalla verifica dell'esistenza di ele­vati indici di mortalità infantile nella regione, al­meno rispetto ad altri paesi, e di un alto tasso di istituzionalizzazione minorile. Successivamente con la legge regionale 18/'77 si dette attuazione alla legge 405/'75 sui consultori familiari: gli in­tendimenti e le finalità di quel provvedimento era­no però di più ampio respiro. Si volle ricompren­dervi la prevenzione nell'età scolare, l'assistenza ai giovani in età evolutiva affetti da handicap, la gestione degli asili nido, nello spirito di un inter­vento globale nei confronti della famiglia consi­derata nelle sue varie componenti. L'impostazio­ne stessa del servizio avrebbe richiesto di ne­cessità, inoltre, la integrazione più stretta tra in­terventi sociali e sanitari. A consuntivo generale di questa esperienza si riportano i dati relativi ad un'indagine svolta dal Dipartimento di sicu­rezza sociale sull'attività dei consultori al 31.7.'79 ed alla situazione organizzativa di questi (nume­ro delle sedi e dislocazione territoriale per Uni­tà sanitarie locali) all'aprile 1980.

Quest'ultimo prospetto indica come al momen­to vi fossero 416 sedi consultoriali, di cui 167 con attività complete, 124 con attività parziali, 125 sedi ambulatoriali; era prevista, inoltre, l'a­pertura a breve scadenza di ulteriori 11 sedi. La distribuzione per zone vede tutte le 32 Unità sanitarie locali previste servite da almeno un pre­sidio con attività specifiche; solo per 9 di esse manca almeno una sede con attività complete. Il numero totale delle sedi per Unità sanitarie lo­cali vede pochissimi casi (n. 4) in cui si arriva solo a 3 presidi per zona; per 18 di esse si rag­giungono oltre 10 sedi, con un massimo di 30 per l'U.S.L. «Mugello Val di Sieve». In media per ogni zona esistono 13 presidi disponibili, di cui 5,4 con attività complete, 3,8 con attività parzia­li ed altrettante ambulatoriali. Per quanto riguar­da il personale i dati più aggiornati fanno riferi­mento ad un censimento del giugno '79, concer­nente 58 zone socio-sanitarie su di un totale di 63 interessate da tale provvedimento. Da esso risulta che la legge regionale 18/'77 vede impe­gnati 1.356 operatori, di cui 562 convenzionati, 689 dipendenti da Enti consorziati (si ricorda che i Consorzi socio-sanitari in Toscana non hanno istituito proprie piante organiche), 106 dipenden­ti degli Enti ospedalieri. Sulla base della distribu­zione per qualifiche professionali risulta che 461 sono medici (pediatri, ginecologi, generici, neu­ropsichiatrici, specialisti con altre professiona­lità); 407 operatori sanitari; 391 operatori socia­li (assistenti sociali, psicologi, ecc.); 64 operatori educativi (puericultrici, pedagogisti, assisten­ti scolastici, ecc.); 33 con altre qualifiche. Nel commento si fa notare come sia predominante in questo quadro la componente sanitaria. Co­me previsto dalla legge, l'obbligo di aggiorna­mento per il personale che svolge funzioni di «consultorio», si è concretizzato, non senza dif­ficoltà, in un piano in via di attuazione a livello provinciale e sub-provinciale.

La relazione stilata ci consente di gettare uno sguardo più approfondito sul problema. Lo scopo dell'indagine era quello di costruire un panora­ma aggiornato sull'offerta delle prestazioni, con in aggiunta il desiderio di approfondire la que­stione dell'efficacia (livello di raggiungimento de­gli obiettivi prefissi, in termini di tutela della sa­lute) del servizio. Le informazioni richieste con­cernevano, infatti, elementi ed anche, inevitabil­mente, carenze di fondo di rilievo qualitativo (16). Alcune difficoltà sono state riscontrate in rela­zione alla corretta compilazione delle schede di rilevazione, evidenziando una sostanziale diso­mogeneità descrittiva, se non operativa, in se­de locale; la carenza endemica (ed estesa) di mezzi e di strumenti idonei, ma anche di inizia­tiva e di competenza, per un'azione di caratte­re informativo rivolta all'acquisizione di dati sia generali sulla popolazione e sull'utenza di set­tore, sia specifici a fini epidemiologici e di fun­zionamento del consultorio stesso. Anche il ten­tativo di fare una valutazione puramente conta­bile dei costi del servizio si è scontrata con la mancanza dei consuntivi di spesa dei Consor­zi socio-sanitari riferiti all'anno 1978. Sulla ba­se dei bilanci di previsione per il 1979, per i consultori già avviati nel 1978, risultava che ge­neralmente le attività previste hanno una capillarizzazione territoriale discreta, come più so­pra si riscontrava; tali attività hanno interessa­to tutte le prestazioni previste dalla legge regio­nale 18/'77, includendo, in genere, i servizi per la riabilitazione e di medicina scolastica; gli operatori vengono generalmente utilizzati per tutti i servizi, con la presenza di tutti i profili professionali idonei a svolgere quanto di com­petenza.

Una analisi più dettagliata dei contenuti spe­cifici delle attività ha evidenziato alcuni aspet­ti critici che avrebbero necessitato, a giudizio degli estensori del documento, di essere pun­tualmente riaffrontati nel futuro, utilizzando stru­menti quali il piano sanitario, il finanziamento sulla base del programma e la fissazione di ti­pologie di servizio e standards quanti-qualitati­vi da parte della Regione Toscana stessa. È evi­dente la necessità di giungere, attraverso stimo­li incisivi, ad un servizio che risponda veramen­te alle necessità più profonde della gente. In me­rito alla contraccezione, ad esempio, si sono ri­scontrate difficoltà ad operare una generalizza­zione ed una capillarizzazione dell'intervento che vada oltre la semplice informazione; la scar­sa incidenza di attività di tipo sociale e di soste­gno psicologico all'individuo ed alla coppia in ordine ai problemi del rapporto e delle scelte che riguardano i figli; la sporadicità e la soggettiva discrezionalità nel predisporre interventi e forme organizzative di tutela della gravidanza, com­prensive, come viceversa sarebbe auspicabile, dei rapporti sistematici con i servizi di medicina preventiva dei lavoratori e gli istituti di genetica; la grossa difficoltà (o l'inesistenza) in ordine ai rapporti con le scuole in relazione al problema dell'educazione sessuale; lo scarso stimolo da parte del servizio nei confronti delle persone ad un allargamento dell'arco visuale dal rapporto in­dividuale o di coppia ad un ambito che dovreb­be essere di crescita collettiva, di partecipazio­ne, di coinvolgimento sui problemi della salute in generale.

Da alcuni elementi di conoscenza, poi, i ricer­catori hanno dedotto che l'apertura del consulto­rio, a cui non vengono in genere destinate mol­te ore, non corrisponde sempre alla presenza di una équipe, ma è affidata soprattutto ad uno o due operatori presenti nelle sedi. A questa situazio­ne la bozza di Piano sanitario regionale 1980/'82 tenta di dare una risposta organica in termini di progetto-obiettivo materno-infantile. In esso è specificato come tale programma vada ad inne­starsi coerentemente con quanto già da tempo è in atto in Toscana. Si riconferma la non piena ap­plicazione della L.R. 18, specie sotto certi profi­li; si individuano, quali punti-cardine dell'azione: la tutela sanitaria e sociale della donna in gra­vidanza e del parto, con una particolare accentua­zione dell'ottica del «rischio»; tutela sanitaria e sociale dell'infanzia e dell'età evolutiva, in cui si ricomprende l'età scolare e gli interventi rela­tivi a giovani affetti da handicap; tutela dei sin­goli, della coppia, della famiglia, anche in ordine alla problematica minorile e per la preparazione alla paternità e alla maternità responsabile; l'in­tervento sociale visto come essenziale comple­mento, date le caratteristiche del bisogno sia della persona in difficoltà che dell'utenza in ge­nere.

Per quanto concerne gli asili-nido, in data 1.1.1980 risultavano aperte 106 strutture, in par­te ex ONMI ed in parte comunali, variamente di­slocate sul territorio regionale, per un totale di posti disponibili di circa 4.300. Ne esistono in tutte le province, da un minimo di 3 (Siena) ad un massimo di 40 (Firenze, di cui circa la metà siti nel capoluogo). I dati relativi al personale ed ai costi di gestione non sono aggiornati alla me­desima data. Secondo una bozza di «Relazione sullo stato sanitario in Toscana 1975-1979» dell'aprile 1980, risulta che, al 31.8.'79: erano impie­gate, negli allora 86 asili nido, 1.058 unità di per­sonale (con un rapporto medio di 5,2 bambini per educatore e di 3,4 bambini per ausiliario) ; i costi di gestione secondo i bilanci '77 (incompleti, da­to il mancato invio da parte di alcuni Comuni del­le informazioni relative, per il '78) variavano, in spesa pro-capite, da un minimo di L. 1.100.000 ad un massimo di L. 2.000.000 circa, in corrispon­denza di una disomogeneità regolamentare. Le vicende di carattere istitutivo sono sempre sta­te particolarmente difficili: il servizio risulta es­sere tuttora ampiamente sottodimensionato ri­spetto al fabbisogno che già nel '75 la Regione prevedeva. Ciò considerando la scelta fatta di concepire l'asilo nido quale servizio sociale di ba­se, da assicurare, in linea di tendenza a tutti i bambini residenti. All'epoca, nonostante l'Ammi­nistrazione regionale avesse operato attraverso alcuni strumenti legislativi nel senso di una pro­mozione dell'edificazione e della fissazione di norme organizzative generali del servizio (LL.RR. 24/'74, 16/'73, 24/'75, ecc.), alcune circostanze continuarono a pregiudicare la realizzazione dei piani adottati (17). Tale situazione pare vada, co­munque, gradatamente migliorando.

 

Tutela della salute dei lavoratori negli ambienti di lavoro.

Anche riguardo a questa area problematica la Regione Toscana predispone tempestivamente una serie di provvedimenti e di strumenti idonei a gettare le basi per un intervento qualificato e corretto. È con la L.R. 47/’73, infatti, che furono messi a disposizione di Comuni e Consorzi con­tributi regionali per l'organizzazione di servizi di medicina preventiva che, in stretto rapporto con gli organismi rappresentativi dei lavoratori, pro­muovessero ed attuassero interventi di tutela della salute volti all'eliminazione di fattori di ri­schio e di nocività trasformando l'ambiente di la­voro. Nel programma unificato di interventi per gli anni '73/'74 (L.R. 60/'75), oltre alla previsio­ne dei contributi e ad indicazioni organizzative di massima, si prevedettero alcuni progetti speciali di intervento su aree di lavorazione definite, par­ticolarmente pericolose. Sulla base di quanto emerge in proposito dalla bozza di P.S.R. 1980/1982 citata, questo progetto-obiettivo assumeva ed assume tuttora un particolare rilievo e signifi­cato in relazione ai dati concernenti la patologia professionale così come essa si manifesta nell'ambito toscano. Riguardo agli infortuni sul lavo­ro gli indici regionali relativi agli anni '70/'75, per i quali si posseggono anche dati nazionali raf­frontabili, denunciano una situazione media ve­ramente grave, che si accentua, in particolare, per alcune province. In ordine alle malattie pro­fessionali, la carenza e l'inadeguatezza delle in­formazioni specifiche serve solo a mascherare una situazione di reale pericolo, in una riconfer­ma, relativa alle stesse province di cui sopra, di una particolare incidenza dei danni.

Il coefficiente attribuito alla Toscana, ai fini della ripartizione delle risorse tra le regioni per il primo piano sanitario è 137, contro una base na­zionale pari a 100. Al 30.4.'79, perioda in cui ven­ne effettuata una rilevazione diretta da parte del Dipartimento di Sic. Soc., risultava che sul ter­ritorio esistevano 46 servizi di M.P.L., operanti complessivamente in 62 zone socio-sanitarie (suddivisione precedente alla costituzione delle Associazioni Intercomunali). Una serie storica relativa alla evoluzione del settore a partire dal 1976 rivela la costante crescita dei servizi e della porzione di area servita (da 36 servizi e 52 zone servite sino all'assetto del '79).

Il personale impiegato raggiungeva un totale di 294 unità, di cui 59 di ruolo e 135 a convenzione; per il tipo di professionalità presenti si aveva­no 160 addetti sanitari (medici del lavoro, medi­ci di altre specialità, medici generici, vigili sani­tari, assistenti sanitarie, infermieri) , 74 addetti tecnici (laureati e diplomati), 60 addetti di altro tipo. L'attività dei servizi, sulla base delle indica­zioni delle organizzazioni sindacali, degli EE.LL. e della Regione, si è indirizzata verso vari settori produttivi. Nell'ambito di tali attività sono stati anche completati alcuni progetti speciali di inda­gine, a suo tempo avviati, relativi all'industria calzaturiera, al cloruro di vinile e, in parte, per la patologia respiratoria dei lavoratori del mar­mo; altre indagini hanno riguardato le industrie chimiche.

I risultati concreti vi sono, in quanto tutto ciò ha posto le premesse (ed in alcuni casi ha già ora consentito di realizzare) per interventi di pre­venzione e di bonifica ambientale efficaci per la tutela della salute dei lavoratori coinvolti. La me­todologia di lavoro, poi, è stata caratterizzata da un impegno operativo che ha sollecitato un'atti­va integrazione tra i vari operatori delle équipe; i modelli di intervento hanno condotto ad una progressiva crescita della partecipazione dei la­voratori, richiesta in ogni fase di azione del ser­vizio come presupposto indispensabile di effica­cia di esso.

Dalla bozza di P.S.R. non si evincono, però, gli elementi di problematicità della effettiva situa­zione a livello locale, salvo l'ennesima sottolinea­tura della endemica carenza e della assoluta ina­deguatezza delle informazioni disponibili su sca­la locale e regionale. Rifacendomi, per amor di completezza, senza voler assolutamente attribui­re carattere di generalizzabilità a questa opera­zione, a quello che in tal senso si rileva da un consuntivo della propria attività pubblicato dal C.S.S. del «Valdarno aretino», zona n. 55, credo si possa, in via di approssimazione, individuare qualche aspetto interessante. In esso si parla di carenza strumentale del servizio, definita croni­ca; di estensione meno ampia di quanto ci si po­teva attendere degli investimenti per la ristrut­turazione e per la bonifica ambientale da parte delle aziende coinvolte, attribuita a varie cause; una certa chiusura del servizio nel proprio spe­cifico settore di lavoro, senza la possibilità di in­trecciare legami con altri settori, pure da consi­derarsi affini in un'ottica di mappe territoriali di rischio e di piani non settoriali di prevenzione e di educazione sanitaria; la incompleta costru­zione di un rapporto continuo e dialettico con il momento decentrato di erogazione delle presta­zioni sanitarie di base, che dovrebbero coadiuva­re il servizio per quanto concerne certi interven­ti. Questi aspetti possono di fatto costituire parziali spunti per una riflessione più critica, con­figurando essi una parte dei limiti che probabil­mente andranno progressivamente superati.

In ordine alle prospettive future il progetto­obiettivo «Tutela della salute dei lavoratori negli ambienti di lavoro» inserito nel P.S.R. fornisce alcune indicazioni di priorità che bene si innesta­no nel processo già avviato su iniziativa regiona­le. Specificamente, in ordine all'organizzazione del servizio, si prevede, per il triennio, il comple­tamento della rete di servizi zonali e multizonali, realizzando una articolazione funzionale a livello di UU. SS. LL. integrata con le attività di base, al cui livello si prevede debbano essere effettuati i controlli periodici sulla condizione di salute dei lavoratori. Per i settori prioritari di intervento, orientati ad un abbattimento degli infortuni e del­le malattie professionali e ad un riequilibrio ter­ritoriale che elimini le gravi differenziazioni esi­stenti tra le province in termini di incidenza dei danni, si prevede di operare in maniera mirata, ad evitare interventi dispersivi e non incisivi, pri­vilegiando settori e zone riconosciute come pro­blematiche; oltre ai complessi industriali ci sa­ranno interventi sul lavoro a domicilio, poiché «...l'esperienza dei servizi ha verificato, indiscu­tibilmente, come vi sia un rapporto inversamen­te proporzionale tra fenomeni patologici e dimen­sione delle unità produttive, fino ad arrivare ad una crescita geometrica in alcuni settori di lavo­ro a domicilio», con un momento di valutazione dell'entità del «lavoro nero»; si lavorerà per co­struire mappe di rischio occupazionali modular­mente collegate a quelle territoriali. Il ruolo del­la Regione Toscana dovrà essere sia di stimolo che di coordinamento dell'azione locale, puntan­do ad un raccordo tra sanità e politica di svilup­po economico e sociale, oltre ad assicurare coe­renza agli obiettivi di attività delle UU.SS.LL.; a ciò si aggiungono precise indicazioni sulla neces­sità di disporre di adeguate e pertinenti informa­zioni sui danni, i rischi e le misure di prevenzio­ne e di bonifica ambientale adottate ed adottabili.

 

Il Piano ospedaliero toscano e la riforma.

L'evoluzione del problema dell'organizzazione e della programmazione ospedaliera in Toscana si è caratterizzata per una certa linearità e coe­renza al progetto iniziale, oltre che per la tem­pestività dell'azione regionale. Già nella prima legislatura furono avviate iniziative di studio del problema ('69-'70 e '72-'73), collegate ad alcuni provvedimenti legislativi orientati a porre le pre­messe per un intervento organico sulla intera rete ospedaliera regionale, ponendo alcune pre­cise limitazioni ad un incremento ulteriore degli squilibri già in atto (LL.RR. 29/'73 e 77/'74). Era da tempo chiara, infatti, l'assoluta necessità di porre limiti alla sregolata proliferazione di ini­ziative scoordinate tra loro, prese autonomamen­te dagli EE.OO., concernenti modifiche struttu­rali, organizzative, patrimoniali anche rilevanti. A tal fine nella II legislatura hanno preso corpo, sia l'attuazione di quanto previsto dalla legge 386/'74, in ordine ai trasferimenti dei compiti di assistenza ospedaliera alle Regioni, di abolizione della retta di degenza e di istituzione del Fondo Nazionale di Assistenza Ospedaliera ripartito tra di esse, sia la L.R. riguardante il Piano Ospe­daliero Toscano (n. 77/'75). Le linee fondamen­tali che hanno guidato questa azione si basano sulla realizzazione di una rete di ospedali unici e generali che potessero garantire uniformità di prestazioni specifiche su tutto il territorio ed un adeguamento delle varie strutture alle esi­genze delle popolazioni residenti nei singoli comprensori.

Punti qualificanti sono stati: ricondurre la ma­teria ed il dibattito anche a livello di un governo territoriale unificato socio-sanitario; inserire in questa area tematica di competenza (su cui, già da qualche tempo la Regione aveva acquisito un reale e concreto potere di governo) i principi di un processo di programmazione bidirezionale non ristretto al solo settore ospedaliero; fonda­re l'analisi delle contraddizioni e delle carenze sulle funzioni svolte impropriamente, più che su­gli aspetti edilizi e strutturali, enucleando quella specifica di ricovero per patologia acuta, per malattie richiedenti interventi specialistici o strumentazioni possibili solo in regime di rico­vero. Sono stati individuati così i comprensori sovramultipli delle zone socio-sanitarie del '73, i soggetti locali (Comitato comprensoriale di programma) e regionali (Comitato Tecnico Con­sultivo per la programmazione sanitaria ospe­daliera), attraverso cui tracciare gli indirizzi ge­nerali di azione da approfondire ed articolare in proposte di programma comprensoriale che sa­rebbero rifluite a livello regionale per dare for­ma definitiva al Piano stesso. Il processo di co­stituzione degli EE.OO. di Piano, che avrebbero insistito su 44 zone o sovramultipli di zone socio­sanitarie (invece delle 67 precedenti), con una riduzione di tali EE. da un numero di ben 84 (79 EE.OO. più 5 infermerie) (18) a 44, appunto, ha avuto una graduale e continua evoluzione già a partire dal '75.

Mentre per 15 di essi la coincidenza con il comprensorio previsto li definiva automatica­mente, per realizzare i restanti 29 si doveva pro­cedere ad operazioni di ricongiunzione o di scor­poro. Al '75 6 delle 69 strutture da riconvertire in tal modo avevano già costituito 2 EE.OO. di Piano; al 30.4.'77 ben 35 delle 69 strutture ave­vano complessivamente realizzato 11 EE.OO. di Piano. Tale processo, almeno nella fase di defi­nizione formale, è proseguito sino alla promul­gazione della L. 833/'78.

La situazione toscana è caratterizzata da un generale squilibrio di servizi, prestazioni, strut­ture da addebitarsi: alla carenza di riforme di struttura che ha avuto come effetto quello di scaricare certi problemi su questo settore; alla normativa frammentaria e disordinata che ha creato le condizioni per una polverizzazione, per uno scoordinamento, per una non programma­zione da parte degli enti preposti. In Toscana questi fattori hanno assunto una loro particolare fisionomia. Al gennaio del '75 risultavano esi­stenti 81 EE.OO. più 6 infermerie (19), per un to­tale di 30.900 posti letto, circa 3.500 in più di quanto fosse necessario, con un incremento dei ricoveri, passati da un numero di 139 a 164 ogni 1.000 abitanti. Con il '75 l'azione normativa re­gionale ha bloccato queste tendenze, nell'ottica di una programmazione che ha effettivamente prodotto effetti stabilizzanti. Al momento attua­le si hanno infatti 8,5 p.l. ogni 1.000 abitanti, più 0,9 p.l. relativi alle case di cura convenzionate. Contemporaneamente si riscontrano, nonostan­te ci siano aumenti del tasso di ospedalizzazione legati alla carenza di soluzioni alternative al ri­covero ospedaliero, una progressiva riduzione della degenza media (da 14,4 giorni nel '73 a 12,3 giorni nel '77), che ha prodotto a sua volta un ridursi del tasso di occupazione, attualmente ag­girantesi intorno al valore del 70 per cento.

Gli squilibri si evidenziano in modo maggiore in rapporto alla distribuzione sul territorio dei pp.ll, e delle specialità. Prendendo come riferi­mento le porzioni di territorio così come esse sono configurate nei comprensori su cui hanno competenza le Associazioni Intercomunali (e quindi le UU.SS.LL.), si constata come il numero dei pp.ll. ogni 1.000 ab. vari attualmente da un massimo di 30,2 ad un minimo di 0, senza che a ciò corrisponda un qualsivoglia criterio di ripar­tizione; lo stesso per i tassi di occupazione, che vanno da un massimo di 104,5 ad un minimo di 54,8, e per la degenza media, compresa tra i va­lori estremi di 29,9 e 8,9 giorni.

Per quanto riguarda il pendolarismo dovuto alla presenza di attività quali-quantitativamente in­sufficienti ed alla distribuzione casuale delle di­verse specialità, risulta che, a fronte di una me­dia regionale di 168,1 ospedalizzati riferiti al to­tale della popolazione, i tassi di ricovero per le varie U.S.L. riferiti alla popolazione ivi residente, varia da un massimo di 248,3 ad un minimo di 59,9.

Questi dati, se confrontati con gli obiettivi in­dicati dalla bozza di P.S.R., che dà come valori ot­timali 6 p.l. su 1.000 ab., un tasso di occupazio­ne pari all'85 per cento, una degenza media di 9 giorni e una frequenza di ospedalizzazione del 14 per cento, suggeriscono le dimensioni dell'impegno necessario per risolvere questi pro­blemi. Il P.S.R. si pone realisticamente, tra gli altri, l'obiettivo di una riduzione dei pp.ll., ten­tando un graduale avvicinamento ai valori citati attraverso l'individuazione di due aspetti di in­tervento: quello delle iniziative riguardanti l'in­tera struttura socio-sanitaria, i cui effetti di ri­caduta sono i soli a potersi ripercuotere effica­cemente, seppure nel lungo termine, sulla de­genza media ed il tasso di ospedalizzazione; quello delle iniziative concernenti l'organizzazio­ne e la ristrutturazione della rete dei presidi ospedalieri che, viceversa, può incidere diretta­mente sul tasso di occupazione.

In questo senso si è da sempre orientata l'a­zione della Regione Toscana relativamente al Piano Ospedaliero: ogni U.L.S. punterà ora a do­tarsi di un gruppo omogeneo di attività speciali­stiche, parte con pp.ll. e parte senza, in un qua­dro in cui vengono ricomprese anche le attività multizonali. Questa indicazione si muove chiara­mente nella direzione di una eliminazione degli squilibri in atto, poiché tende a redistribuire con criterio sul territorio pp.ll. e specialità in modo tale che alla popolazione residente siano gradualmente garantite prestazioni almeno quan­titativamente equilibrate ed accessibili. Si pre­vede così, restando costanti la degenza media ed il tasso di ospedalizzazione e attraverso un utilizzo ottimale dei presidi (tasso di occupazio­ne medio dell'85 per cento), di raggiungere i 7,15 p.l. per 1.000 ab., nell'ipotesi (peggiore) che le altre iniziative a carattere socio-sanitario adottate nel territorio non influiscano minima­mente sull'accesso e sulle dimissioni ospe­daliere.

Più in ombra, in questo discorso di prospetti­va, restano le questioni dei rapporti tra EE.OO., CC.SS.SS., Comitati comprensoriali di program­ma, sotto il profilo dell'effettivo raccordo operati­vo tra attività ospedaliera ed extraospedaliera, della qualità del servizio, ecc.: per verificare se ai propositi possa o meno seguire un impegno diretto a sostanziare le idee.

 

Salute mentale ed attuazione della L. 180/'78.

L'iniziativa regionale non ha potuto in questo settore svilupparsi, a partire dalla prima legi­slatura, con l'intensità e l'ampiezza che sareb­bero state necessarie, stanti l'arretratezza del­l'organizzazione e dei modelli di intervento esi­stenti. Le difficoltà erano legate alla limitata di­screzionalità e dalla ristrettezza delle competen­ze attribuite alla Regione dai decreti di delega del '72, poiché: non erano allora previsti contri­buti specifici di cui poter disporre; lo Stato conservava la facoltà di intervenire in relazione agli atti di spesa e di assunzione del personale negli Ospedali Psichiatrici; la competenza am­ministrativa restava alle Province. Gli orienta­menti prevalenti volti a ricondurre la materia nell'ambito dei servizi socio-sanitari territoriali e l'eliminazione delle strutture manicomiali per uno sviluppo dei servizi di salute mentale, han­no sempre cozzato, così, con la realtà istituzio­nale. Si valutò inopportuno, allora, procedere al­la presentazione di proposte di L.R. specifiche, ad evitare effetti deleteri di una settorializzazio­ne del problema psichiatrico. Si intrapresero pe­raltro alcune iniziative a carattere non legislati­va orientate alla prevenzione del ricovero per i minori, alla formazione ed al decentramento del personale impiegato nel territorio, ecc..

Per quanto emerge dai dati e dalla documen­tazione elaborata a cura del Dipartimento di Sic. Soc. la situazione attuale presenta ancora tutta una serie di contraddizioni e di disfunzioni che indicano, se non l'inefficacia, almeno la estre­ma difficoltà con cui i provvedimenti e gli inter­venti vengono attuati. La delibera del Consiglio Regionale toscano n. 732 del 14.11.'78 sull'istitu­zione dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura rivela una volontà abbastanza tempestiva di dare una risposta in termini organizzativi al dettato della L. 180/'78. Con tale atto si sono individua­ti alcuni EE.OO. di Piano (30 su 44) in cui, in via di estrema urgenza, si deve identificare uno spa­zio a cui poter ricorrere, qualora se ne presen­tasse la necessità, per una degenza ospedaliera di carattere psichiatrico. È stato previsto che l'attuazione di tali servizi deve avvenire solo successivamente alla attivazione di équipe psi­chiatriche nel territorio, che operino in tale pre­sidio con criteri di dipartimentalità in modo inte­grato e coordinato, proiettate a ricercare e a porre in essere soluzioni alternative che tengano conto delle cause sociali e strutturali insite nel processo di emergenza del disturbo mentale. Il rapporto medio ottimale previsto è di 0,6/1 p.l. per 10.000 abitanti.

Secondo quanto emerge dalla bozza di «Rela­zione sullo stato sanitario...» citata, relativa­mente alla situazione degli OO.PP. esistenti nel­la regione, da due diverse rilevazioni condotte (con dati in parte discordanti ma che suggeri­scono una medesima linea di tendenza del feno­meno) risulta che nel periodo successivo all'entrata in vigore della legge 180/'78 i ricove­rati sono diminuiti di circa il 10 per cento. Dai dati raccolti ed elaborati dalla Regione Tosca­na si evince come, tra luglio e dicembre del 1978 il numero dei degenti si sia ridotto da 3930 a 3549, con una diminuzione di 381 unità. Tale valore viene considerato poco rilevante, specie se si considera l'elevata. età media dei ricoverati stessi (per la classe oltre i 60 anni si va, a seconda delle situazioni, da un minimo del 39,1 per cento ad un massimo del 42,7 per cento dei presenti), al lungo periodo di istituzionaliz­zazione subito (oltre 10 anni per un minimo del 31,7 per cento ed un massimo del 97,9 per cen­to). Si ritiene che i fattori a cui è dovuta la di­minuzione siano più di carattere «fisiologico», nella conferma di una sostanziale inadeguatezza dei servizi e dei presidi extraospedalieri nel predisporre un tessuto territoriale che accolga i dimessi.

Ciò è confermato da quanto scaturisce alla ve­rifica, ad un anno dalla legge, dell'entità dei ri­coveri nei Servizi di Diagnosi e Cura (6673) e delle riammissioni in O.P. (1.619), che ammon­tavano in totale a 8.252 ricoveri, a fronte di un valore, per il 1977, ad es., pari a 5.670. Pur con­siderando un certo margine di approssimazio­ne dovuto ad errori di rilevazione e a disfunzio­ni identificate, tale dilatazione degli interventi conferma, a detta degli estensori del documen­to, il fenomeno di un travaso avvenuto di ricove­ri psichiatrici dall'O.P. all'Ospedale generale, con un incremento del «ricovero» come preva­lente risposta del servizio al bisogno emergen­te. La realtà attuale dei degenti negli OO.PP. to­scani é prevalentemente costituita (da un mini­mo del 33 per cento ad un massimo dell'80 per cento dei presenti) da persone che hanno ne­cessità di carattere genericamente socio-sani­tario, che per questo potrebbero ricevere rispo­ste ottimali da parte dei servizi di base. Il per­sonale medico, paramedico e sociale consta di ben 120 medici (di cui 81 a tempo pieno e 42 a tempo determinato), 20 psicologi, 39 assisten­ti sociali, 1 sociologo, oltre a quello amministra­tivo e di segreteria. Dal documento emerge che le risorse presenti consentono di «...impostare, avviare e concludere in tempo ragionevolmente breve il processo di svuotamento degli O.P., sen­za per questo imporre ritardi al completamento della rete dei servizi psichiatrici territoriali».

Si riconosce, tra l'altro, come le strutture to­scane, i cui reparti vengono generalmente clas­sificati come «aperti» e molti dei quali anche territorializzati, pur non essendo al livello di «regressione istituzionale» di altre realtà, si stanno avviando verso un utilizzo di tipo croni­cariale, con un consolidamento strutturale dell'attuale organizzazione.

Da questo breve quadro emerge come gli OO.PP. siano diventati presidi inutili, difficili da eliminare per motivi più di carattere tecnico-am­ministrativo che non medico-psichiatrico.

L'indagine condotta dal C.N.R. si è anche oc­cupata dei servizi territoriali, rilevando tale si­tuazione nei primi mesi del 1979. Da essa risul­tava che i SS.II.MM. erano presenti in 7 provin­ce, in numero di 58. L'accesso ad essi denuncia carenze funzionali notevoli, sicuramente non ade­renti allo spirito di un intervento corretto sulla salute mentale. Di questi, infatti, 25 erano aper­ti dalle ore 8 alle ore 20, 26 solo la mattina dal­le 8 alle 14, 16 solo estemporaneamente; in nes­suno era possibile pernottare; nessuno era aper­to nei giorni festivi. In 5 province erano orga­nizzate strutture extraistituzionali in una misu­ra non precisata. Il personale ammontava com­plessivamente a 1.080 operatori (21) .

A livello qualitativo alcuni elementi confer­mano le osservazioni critiche di cui sopra. La concezione prevalente e la pratica operativa re­lativi ai SS.II.MM. (o CC.II.MM.), ad es., oltre a non presentarsi uniformemente nelle loro linee di applicazione, lasciavano supporre che fosse diffusa un'impostazione di carattere ambulato­riale, essenzialmente curativo-riparativa. In ge­nere l'utenza risulta essere costituita da adulti senza che vi sia un collegamento (se non pro­prio in assenza) con l'assistenza rivolta ai minori ed all'infanzia. Nessun elemento di conoscenza si possiede, tra l'altro, in ordine alle funzioni di reperibilità e di pronto soccorso o guardia psi­chiatrica. Da alcuni elementi conoscitivi di ca­rattere ufficioso si deduce come tali aspetti dell'intervento siano ancora legati principalmente alla risposta «ricovero».

I limiti e le contraddizioni presenti in questo quadro generale condizionano ovviamente an­che il corso dell'applicazione della nuova nor­mativa e dei nuovi assetti organizzativi. L'inda­gine regionale paria dell'avvenuta istituzione (all'ottobre 1979) di 18 SS.DD, e CC. (su 30 pre­visti), di cui 13 attivati, con 147 p.l. disponibili, e 5 non attivati; 10 non erano ancora istituiti; 7 non avevano risposto. Questa situazione è in continua evoluzione, al di là delle difficoltà di ordine burocratico-amministrativo che spesso (ma ritengo non siano le sole) ostacolano lo sviluppo di questa rete integrata di presidi e di servizi. Nei SS.DD. e CC. attivati erano impiega­ti 361 operatori provenienti in varia misura dalla Provincia, dagli EE.OO. e da altri enti pubblici; la qualifica è per 66 psichiatria, per 11 psicolo­gia, per 284 infermiere od altro. La durata media della degenza è stata di 14 gg. per il II semestre '78. Su tali basi il livello quantitativo dei ricove­ri psichiatrici in tutta la Toscana è stato garan­tito. L'impostazione dei nuovi servizi non sem­pre ha corrisposto alle direttive di fondo pre­viste: pochi tra i 13 SS.DD, e CC. avviati, infat­ti, coincidono esattamente con quelli territoria­li. L'impegno per una ulteriore necessaria cre­scita in efficacia, e quindi in prevenzione e in deistituzionalizzazione, dei servizi si scontra, perciò, oltre che con il sistema sociale, soprat­tutto con certi modelli consolidati di intervento.

Al proposito la bozza di P.S.R. indica alcune linee di azione che si pongono, senza soluzione di continuità, lungo la direzione perseguita da tempo da parte della Regione Toscana. Si con­ferma l'integrazione del servizio di assistenza psichiatrica nel complesso degli altri servizi di tutela della salute dell'U.S.L., con organizzazio­ne dipartimentale organizzata in forma extra­ospedaliera territoriale, in un modello di inter­vento che supera l'impostazione dell'attività di salute mentale come controllo. Operativamente l'intervento si configura: come centrato sul coin­volgimento di tutti gli operatori che lavorano nella zana e nel distretto, per dare risposte cor­rette ai vari tipi di bisogni emergenti; nella con­tinuità della presenza degli operatori addetti, nella pronta reperibilità; nell'intervento a vari li­velli territoriali, nei vari recapiti esistenti. Il tut­to ad evitare che la domanda, male interpretata, venga incanalata in schemi che conducono ine­vitabilmente a risposte inadeguate ed impro­prie.

 

Le tossicodipendenze.

L'esercizio delle competenze regionali in ma­teria di tossicodipendenze, come previsto dalla legge 685/'75, ha preso avvio con il primo pia­no di interventi (Delibera del Consiglio Regiona­le toscano 285/'75), evolvendosi ed arricchen­dosi con il secondo piano (D.C.R. 456/'79). La scelta fondamentale è stata quella di evitare in tutti i modi di creare un servizio ed un'organiz­zazione a sé stanti, che confermassero una ri­gida settorialità con una inutile proliferazione di operatori e di presidi. Per questo motivo le fun­zioni dei Centri medici e di assistenza sociale ed il ruolo di coordinamento e di stimolo degli in­terventi sono stati affidati ai CC.SS.SS., all'ente unico a cui compete la gestione globale dei ser­vizi per la salute dei cittadini.

Sono state individuate a tal fine aree multiple di quelle previste dalla zonizzazione socio-sanitaria allora vigente, attribuendo ad un Consor­zio in esse compreso (detto così «capofila») il compito di costituire per gli altri il punto di riferimento per un valido raccordo funzionale. A livello di intervento operativo, poi, si sono utiliz­zati i presidi ed i servizi socio-sanitari di base e di zona esistenti, che hanno ampliato in tal mo­do il loro intervento ad un'altra fascia di bisogni. In questa fase si sono costituiti 14 poli sovra­consortili di coordinamento degli interventi, che sono andati concretamente realizzandosi in tem­pi differenziati in dipendenza dell'esistenza di particolari situazioni locali. Gli sviluppi succes­sivi di questo disegno, configurati nel secondo piano regionale, hanno coerentemente tenuto conto dell'esperienza fatta e delle indicazioni emerse in un seminario regionale sull'argomen­to, che ha fornito proposte di carattere integra­tivo di quanto indicato nel '78.

I dati concernenti il fenomeno compaiono in una pubblicazione regionale curata dall'ufficio del Dip. di Sic. Soc. preposto al problema delle tossicodipendenze («Il problema "droga" in To­scana»), risalente al gennaio di quest'anno, che sintetizza il cammino compiuto. Le difficoltà non sono mancate, già in un'applicazione della nor­mativa nazionale che si è caratterizzata per frammentarietà e scoordinamento in dipendenza del fatto che i vari ministeri coinvolti hanno ope­rato ognuno per linee proprie. In ambito regio­nale si rileva come la legge non abbia ancora avuto piena applicazione, con risultati limitati ma anche con accumulo di esperienze per quan­to riguarda la conoscenza della realtà e la speri­mentazione delle metodologie.

Spicca in particolare l'estrema difficoltà di tro­vare un coordinamento con gli EE.OO. e le strut­ture sanitarie in genere, specie in un primo mo­mento, in alcuni casi motivata solo da un rifiuto più o meno larvato ad occuparsi in concreto di questo problema. Il coordinamento di attività., poi, è stato realizzato in prevalenza a livello del Consorzio «capofila», spesso senza che i Con­sorzi collegati fossero adeguatamente coinvolti. Gli interventi sanitari sono risultati essere pre­valenti su quelli sociali, erogati generalmente nelle strutture ospedaliere. Gli stimoli all'attua­zione di interventi riguardanti la prevenzione, da parte della Regione Toscana nei riguardi degli EE.LL. non sono mancati. Il grosso nodo organiz­zativo-istituzionale dell'integrazione dei servizi e della globalità degli interventi, così difficile da sciogliere a livello di zona, si ripercuote natural­mente sull'impossibilità di dare efficacia ed effi­cienza ai servizi in genere e a certi in particola­re. Il secondo piano ha tentato così di configu­rare un organismo di carattere consortile che consentisse di ovviare, almeno in questa area problematica, a tali difficoltà: esso ricomprende in sé enti ed operatori coinvolti nell'azione con­tro le tossicodipendenze, con funzioni di sup­porto tecnico, di coordinamento di attività, di omogeneizzazione degli interventi, di raccordo organizzativo tra enti ed istituzioni.

La situazione al I semestre del '79, così come essa potrebbe apparire sulla base delle schede sanitarie per la segnalazione dei casi di inizio o di interruzione dei trattamenti, derivanti dal mo­dello del Ministero per la sanità, è ritenuta asso­lutamente falsata, sintomo di parzialità od ina­deguatezza di compilazione, ritardi di inoltro, sovrapposizioni e duplicazioni. Anche qui è for­temente sentita l'esigenza di realizzare, in par­ticolare a livello di base dove avviene la gestio­ne diretta dei servizi, dove vi è il contatto diret­to col fenomeno, un sistema informativo di cui primi e responsabili soggetti devono essere gli operatori: ne va, come si vede, della conoscen­za corretta stessa del fenomeno, tappa fonda­mentale per un intervento che possa avere un minimo di validità.

Al momento attuale le iniziative che con il II piano si delineavano hanno in parte avuto at­tuazione. Esse si riferiscono agli aspetti della prevenzione e dell'informazione, della cura e dell'inserimento, dell'intervento negli istituti di pena, dell'aggiornamento degli operatori. Le di­rettive di azione che emergono puntano ad una revisione dell'ottica della legge 685/'75, che concepisce come momenti separati, a livello isti­tuzionale, l'informazione ed il programma di in­terventi (necessariamente globale), squalifican­do così la prevenzione, confinandola e settoria­lizzandola in alcuni momenti specifici. Viceversa, per un'azione diretta nei luoghi di lavoro e di ag­gregazione, condotta anche tramite la normale attività dei servizi socio-sanitari territoriali, si prevede l'utilizzo di strumenti specifici e lo sta­bilirsi di rapporti fattivi con varie organizzazio­ni del tempo libero ed associazioni, per impo­stare correttamente un lavoro comune.

In ordine agli aspetti della cura e dell'inseri­mento si prevedono: l'azione di un gruppo di la­voro regionale composto dai medici dei servizi di base impegnati nel settore per la messa a punto di un prontuario terapeutico riferito all'uso dei farmaci sostitutivi e di momenti di ag­giornamento tecnico; incontri per la ricerca atti­va di collaborazione con associazioni e gruppi di volontariato, individuati anche tramite un censi­mento. Riguardo ai tossicodipendenti incarcerati, nei confronti dei quali l'intervento doveva, per la Regione Toscana, avvenire secondo le stesse modalità e le stesse caratteristiche di risposta al bisogno e di garanzia di continuità della nor­male azione sul territorio, non pare che i respon­sabili funzionari del Ministero di grazia e giusti­zia abbiano, in alcuni casi, dato risposte tempe­stive di fronte alle richieste regionali, ove, in alcuni casi, si è riusciti ad avviare almeno un rapporto di consulenza per tamponare in qual­che modo il fenomeno. Sulla questione dell'ag­giornamento degli operatori, dove vi è il rischio di un'impostazione settorializzante, l'indicazione fornita si basa su due linee: di approfondimento specifico per gli operatori coinvolti direttamente nel campo delle tossicodipendenze, più un'atti­vità di informazione e promozione per quei sog­getti che possono costituire una risorsa per af­frontare i problemi.

A livello di zona, in particolare, si auspica lo sviluppo di iniziative allargate agli operatori di diversi servizi e a quanti, nella collettività loca­le, si rendano disponibili. In prospettiva il do­cumento citato indica alcuni orientamenti che dovrebbero guidare questa azione, in una cor­retta transizione all'U.S.L.: vengono ripuntualiz­zati da parte regionale i ruoli e le modalità or­ganizzative riguardanti i presidi e i servizi per il trattamento farmaceutico sostitutivo (dove si ri­cerca un preciso rapporto con il medico di ba­se); si accolgono i molteplici punti di contatto ri­scontrati nei contenuti dei programmi '79/'80 elaborati a livello locale dai CC.SS.SS. relativa­mente alla prevenzione ed alla riabilitazione. Il P.S.R., come è ovvio, non fa che riconfermare queste indicazioni, precisando le funzioni da esplicare a livello di zona e di distretto. Di fron­te quindi ad un problema di non facile soluzio­ne per i significati che dietro al fenomeno «dro­ga» si nascondono, tutti questi sforzi di raccor­do, di incentivo, di stimolo oltre che di istituzio­ne e di avvio di un modulo di intervento, non si possono non considerare positivi.

La bozza di «Piano sanitario regionale 1980-'82» e l'intervento sociale.

Sotto gli aspetti più specificamente socio-as­sistenziali della politica regionale si possono ricondurre tutti quegli interventi volti a fornire un valido sostegno di informazione ed orienta­mento all'accesso ai servizi territoriali, di carat­tere economico integrativo, di aiuto domestico, di inserimento al lavoro relativo ad alcuni sog­getti, soluzioni residenziali di vario tipo, ecc., di cui coloro che vengano a trovarsi in un partico­lare stato di necessità possono usufruire. Una considerazione generale merita il rapporto che dalla bozza di P.S.R. pare sussistere tra sanità, assistenza e servizi sociali. Non si può dire, cre­do, che il Piano sia solo sanitario: la unitarietà dell'approccio ai vari bisogni della persona, con­seguenza logica di un certo tipo di concetto di salute, riconferma il legame inscindibile esisten­te tra i vari elementi considerati. Ed il documen­to ne prende atto, specie in riferimento ai vari progetti-obiettivo.

Mi pare anche che esso non sia propriamen­te socio-sanitario: se si aderisce alla distinzione da alcuni fatta tra servizi sociali e servizi assi­stenziali (22) , si può considerare che la bozza in­dividua certo obiettivi, modalità e strumenti per una valida azione assistenziale promozionale, ma si limita, per quanto concerne l'altro impor­tante aspetto della prevenzione «primaria» del bisogno, o a fornire alcune indicazioni circo­scritte da inserire con maggiore organicità nei piani a venire o escludendolo direttamente, in quanto non di pertinenza, dalla trattazione. Vi­ceversa penso che esso possa considerarsi pia­no sanitario aperto in qualche modo al sociale, anche se appare, al momento attuale, che tale prospettiva abbia un respiro inferiore a quello prefigurata a suo tempo nell'«ipotesi di organiz­zazione dell'unità locale di sicurezza sociale». In essa era identificato un settore ben definito di impegno istituzionale, il servizio di base, cioè, denominato «Servizi sociali», che, negli intendi­menti originari, avrebbe dovuto assolvere a fun­zioni precise, anche ma non solo assistenziali, relative ai problemi del lavoro; dell'alloggio, ca­sa e servizi; del minimo vitale, consulenza e pa­trocinio; dell'età evolutiva; dell'organizzazione del tempo libero; dell'informazione e promozio­ne nei confronti della popolazione.

Alcuni poi, su questa base, attribuendo ai ser­vizi sociali-assistenziali una funzione di «ponte» tra i problemi sanitari e previdenziali e quelli economici in generale, al fine di poter dare una risposta efficace a quei bisogni la cui natura tra­valica il settore della sicurezza sociale, propo­nevano la creazione di una sorta di Osservatorio epidemiologico sociale, come strumento, tra l'altro, per indirizzare correttamente la program­mazione economico-sociale verso la soluzione e la prevenzione dei problemi emersi (23). Credo che questa posizione riceva conferma da due os­servazioni. Contrariamente a quanto è previsto per i vari aspetti della organizzazione del setto­re più specificamente sanitario, non mi pare esi­stano, a livello di Dip. di Sic. Soc regionale, uffi­ci che si occupino con una certa specificità dei singoli aspetti ricompresi nell'area concettua­le dei servizi sociali: essi potrebbero svolgere; al pari degli altri, un efficace ruolo di «..."polo" di documentazione, assistenza tecnica e infor­mazione, al servizio degli enti locali. Solo a tale livello, del resto, si può assicurare un elevato standard di conoscenze e di preparazione utile ad indirizzare i servizi di base sui singoli pro­blemi» (24).

In secondo luogo manca attualmente, in sede regionale, un compiuto e sintetico quadro gene­rale informativo-conoscitivo di riferimento che possa affiancarsi e completare, per la parte ap­punto socio-assistenziale, quella bozza di «Re­lazione sullo stato sanitario...» citata più sopra. Evidentemente, sia i tempi ristretti imposti dalle scadenze della riforma sanitaria, sia, forse, una scelta di priorità orientata a privilegiare il «sa­nitario», sia l'estrema difficoltà, ormai endemi­ca, di stabilire un rapporto proficuamente conti­nuativo con gli EE.LL. in termini informativi, spe­cie in questo settore, hanno prodotto una restri­zione dell'orizzonte dell'impegno dell'Ammini­strazione regionale su questi temi.

Fatta questa necessaria premessa credo che, anche sotto questo profilo, pur sulla base di scar­si dati di sintesi, la Regione Toscana sia in gra­do di dare un impulso positivo all'attuazione dell'eventuale riforma dell'assistenza. Già in occa­sione dell'approvazione del D.P.R. 616/’77 sia gli strumenti istituzionali che legislativi (L.R. 15/'76) consentirono ai vari soggetti coinvolti di recepire tempestivamente le nuove funzioni per ricomporle, bene o male, ad unità sul terri­torio. Con la L.R. 15 di delega dell'assistenza si ebbe infatti una specifica definizione dell'inter­vento assistenziale, nei suoi obiettivi, finalità e modalità di intervento, attribuendo al Comune (e al Consorzio) il ruolo di gestione e di coordina­mento degli interventi in sede decentrata in quanto destinatario delle deleghe, con una parti­colare sottolineatura degli aspetti preventivi, del rispetto dei valori personali, della valorizzazione dell'ambiente familiare. Ad essa, dopo il D.P.R. 616, seguì un'ulteriore disposizione (L.R. 35/'78) che andava ad integrare in minima parte la pre­cedente normativa, individuando nuove funzioni in materia di minori, di delega relativa ad enti di assistenza privati, di riordino dell'intervento fi­nanziario. Su tali basi notevoli sono certamente stati i passi in avanti fatti, almeno per quanto ri­guarda gli aspetti più particolari dell'intervento assistenziale. Si stanno estendendo, pur non senza difficoltà e contraddizioni, i servizi di as­sistenza domiciliare, specie per gli anziani; si sono qualificati in senso anti-istituzionale gli al­tri interventi di carattere economico, educativo, residenziale, del tempo libero, rappresentando un valido deterrente della tendenza (mai però total­mente eliminata) alla segregazione in istituto delle componenti più svantaggiate della popo­lazione.

Su questa situazione va ad innestarsi la boz­za di P.S.R. che, nel prendere atto dei passi in avanti compiuti nelle legislature regionali tra­scorse, sottolinea la necessità di un affinamento dell'analisi dei bisogni, di privilegiare interventi «aperti» di efficacia preventiva, con l'obiettivo di una indispensabile omogeneizzazione dei trat­tamenti, che sono attualmente i più disparati in derivazione di regimi assistenziali trasferiti as­solutamente diversi. Tutto questo però trova ele­mento di rallentamento nella scarsità di risorse disponibili che, di fronte ad una reale inconsi­stenza dei servizi socio-assistenziali (se para­gonati a quelli sanitari) che non favorisce una migliore evidenziazione della reale natura dei bisogni, dovrà avvenire nel medio termine, at­traverso uno sforzo di riconversione di quanto esistente e di riutilizzo delle risorse patrimonia­li trasferite agli EE.LL. L'indicazione è quindi di potenziare generalmente il settore, ponendo fi­nalità e modalità operative, sollecitando l'avvio dell'attività di un nucleo di operatori e servizi suscettibili di uno sviluppo futuro, capaci di af­fiancare già da ora i servizi sanitari, come punto di riferimento per operatori privati e per il vo­lontariato. Il P.S.R. prevede una serie di inter­venti specifici al proposito, sulla cui base la po­litica ed i modelli operativi locali possano orien­tarsi: il segretariato sociale che guidi l'utente nell'approccio ai servizi; l'assistenza economica; l'assistenza domiciliare; l'inserimento al lavo­ra di handicappati, con tutto quanto lo precede; le c.d. foresterie; le strutture di ospitalità, con li­velli diversi di organizzazione in rapporto a di­verse condizioni di autosufficienza; i centri di va­canza.

Vi è anche un accenno alle metodologie ope­rative del servizio sociale (professionale), chia­mato, nella ottenuta ricomposizione delle com­petenze, ad una prospettiva di lavoro unitario fuori da programmi settoriali, in cui si configura con chiarezza sia l'approccio ai singoli, sia una serie di precise competenze di carattere promo­zionale e programmatico.

Il quadro qui prefigurato si pone evidentemen­te come tappa intermedia rispetto a quell'obietti­vo di lungo termine sintetizzato nell'«Ipotesi di unità locale di sicurezza sociale» a suo tempo elaborata: ciò in aderenza ad una realtà locale non certo omogenea, non ben conosciuta, dove le condizioni politico-culturali ed organizzative non consentono ancora, con tutta probabilità, un salto di qualità che veda finalmente l'E.L. titola­re valido ed efficacemente operante, per quanto lo riguarda, di un intervento in termini di promo­zione dei servizi sociali necessariamente da af­fiancare, se si mira ad una prospettiva praticabi­le di massima riduzione del bisogno in genere, ai servizi assistenziali.

 

Tutela della salute delle persone anziane.

Come per gli altri progetti-obíettivo nazionali anche in questo caso la Regione Toscana inten­de dare una risposta immediata e precisa ai pro­blemi di tale fascia di popolazione. In questo sen­so la L.R. 3/’73, e le successive modifiche, attri­buiva finanziamenti ai Comuni per l'istituzione di servizi di assistenza domiciliare alle persone anziane, oltre a prevedere ulteriori interventi re­lativi all'organizzazione a livello locale di vacan­ze comunitarie. L'obiettivo era quello di evitare i processi di isolamento ed emarginazione che sino ad allora avevano caratterizzato l'azione as­sistenziale attraverso un potenziamento dei ser­vizi connessi con una permanenza autonoma nel proprio ambiente di vita di tali persone. I risultati positivi, come dicevamo, ci sono stati. Sulla scia di questa impostazione la bozza di P.S.R. forni­sce al riguardo indicazioni specifiche che prefi­gurano un modello operativo integrato di servizi e di obiettivi da perseguire nel medio termine, ricomprendendo nell'area dell'utenza potenziale servita sia gli anziani, sia coloro i quali, in quan­to inabili, siano sistematicamente espulsi dall'at­tività produttiva. Interessante è ciò che si so­stiene a proposito dei c.d. Servizi di sicurezza sociale di base, in merito ai quali, oltre a ribadi­re la necessaria collaborazione tra gli operatori per un'azione efficace contro i processi di emar­ginazione di qualsiasi tipo, si suggerisce di or­ganizzare l'intervento, pur prevedendo alcune prestazioni specifiche, semplicemente eviden­ziando caratteristiche che i normali servizi alla persona devono avere per rispondere alle esi­genze dell'anziano. Un altro concreto passo in avanti versa l'eliminazione definitiva di ogni set­torialità e verso l'erogazione di prestazioni simi­li per simili bisogni.

Si prevede, indicando anche alcuni standards di servizi, l'articolazione completa di attività di livello distrettuale quali: il segretariato sociale; i servizi domiciliari, basati su prestazioni diver­se organizzate in modo da offrire copertura a bi­sogni molteplici (sanitari, di igiene e cura della persona, di rapporto con l'ambiente, di isola­mento umano e sociale) ; le residenze collettive, quali le residenze sociali c.d. «assistite» e le residenze sociali c.d. «protette», i servizi «aperti» quali i centri diurni. Inoltre i modelli operativi e strutturali inerenti all'organizzazio­ne delle prestazioni a carattere residenziale paio­no essere, sulla carta, generalmente rispondenti a certi minimi requisiti di elasticità e di tutela della personalità dell'utente, che sono alla base di un modo radicalmente nuovo (ma non per questo acquisito e consolidato nelle concezioni di tutti coloro, istituzioni e persone, che in esso sono coinvolte) di concepire tale intervento as­sistenziale. Un breve accenno viene fatto alla necessità di una politica di servizi sociali (pre­venzione primaria) «...che si rapporti e incida su quelle condizioni sociali, economiche e ter­ritoriali che vengono così pesantemente a deter­minare la condizione delle persone anziane», o comunque degli espulsi dalla produzione. A tale scopo il P.S.R. identifica alcuni provvedimenti in ordine ai problemi dell'abitazione, dell'autosuffi­cienza economica, del lavoro, indicando molto in superficie alcune circoscritte possibilità di azio­ne istituzionale diretta in queste aree di biso­gno. Pur prendendo atto della necessità di mi­sure risolutive che operino a monte della mani­festazione del bisogno, il documento tende rea­listicamente a limitarsi all'aspetto assistenziale.

Per quanto riguarda le effettive possibilità di un'integrazione tra i vari servizi nell'U.S.L. e nel­le funzioni, si può affermare che le condizioni normative, istituzionali ed organizzative sussi­stono. La Regione Toscana, in attuazione della legge 833/'78 (LL.RR. 63/'79 e 71/'80 in partico­lare), ha concepito un assetto potenzialmente aperto ad un'impostazione operativa dell'inter­vento che sia veramente globale nei confronti dell'individuo. Le Associazioni intercomunali ri­cevono le attribuzioni relative ai servizi sociali, assistenziali e sanitari, affidandone la gestione complessiva al Comitato di gestione dell'U.S.L.; nel distretto è previsto che si realizzi concreta­mente l'integrazione tra tutti questi aspetti; la formazione, l'aggiornamento ed il riferimento al triennio di validità sono i medesimi sia per il Piano sanitario che per il Piano dei servizi socia­li; è prevista inoltre la facoltà per le Province di affidare l'esercizio di funzioni di residua compe­tenza in campo di assistenza sociale all'A.I. tra­mite convenzione; l'organizzazione stessa dell'U.S.L., ad es., vede correttamente conglobato il Servizio di assistenza sociale nel quadro gene­rale di tutti gli altri servizi. La strada che condu­ce verso un nuovo modo di essere dell'interven­to pubblico sembra quindi spianata, in attesa della necessaria prova dei fatti.

 

La questione delle IPAB regionali e degli Enti na­zionali disciolti.

Un ultimo accenno merita la situazione attua­le delle I.P.A.B. e delle funzioni trasferite relati­ve agli EE. nazionali a suo tempo disciolti. Punto di partenza per valutare l'operato della Regione Toscana è ancora la L.R. 15/’76 e successive in­tegrazioni (LL.RR. 45/'76 e 35/'78), considera­ta da alcuni alla stregua di una mini legge-qua­dro transitoria che ha consentito di colmare un vuoto legislativo facendo da «ponte» con la legge 5972/1890. I Comuni con titolarità di eser­cizio delle competenze amministrative loro tra­sferite, hanno avuto così modo di acquisire una conoscenza diretta ed una pratica di rapporto che consente ad essi di rispondere con imme­diatezza a quelle nuove disposizioni che, pri­ma o poi, dovranno essere emanate al proposi­to. Attualmente in Toscana esistono 450 I.P.A.B. c.a., di cui 120 c.a. Pubbliche Assistenze e Mise­ricordie, escluse, per legge, dal trasferimento. Sulla base dei contenuti di un provvedimento go­vernativo del '79 (poi decaduto) vennero inoltre individuate 58 istituzioni che, riconosciuta la loro finalità precipuamente educativo-religiosa, sa­rebbero state indicate come escluse dal trasfe­rimento.

La dislocazione territoriale vede le massime concentrazioni nelle aree urbane di Firenze (25 per cento c.a.), Arezzo (20 per cento c.a.) e Siena (20 per cento c.a.), con una distribuzione più uniforme per il resto della regione. I Comu­ni, assieme alla Regione Toscana, hanno assun­to ed esercitato con una certa efficacia le rispet­tive competenze in merito, benché esse concer­nessero aspetti di carattere sostanzialmente am­ministrativo-burocratico. Le attività svolte in pre­valenza da tali li. riguardano il settore dell'assi­stenza agli anziani, ai minori e del l'educazione. In base alle conoscenze che si hanno molte di esse sono ritenute superflue, in quanto gli EE.II. risultano essere, per parte loro, in grado di as­sorbirne agevolmente funzioni e servizi svolti. Si sono verificati, ad es., alcuni casi di autoscio­glimento, a fronte di certe situazioni ove, vice­versa, si ritiene che alcune II. debbano ancora as­solvere ruoli importanti per le U.S.L., specie in ordine al problema dei ricoveri in istituto. C'è l'intendimento, da parte della Regione Toscana, di colmare il vuoto normativo lasciato, a partire dal 1.1.1979, dal susseguirsi dei decadimenti dei vari Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri relativi ai ripetuti tentativi di prorogare i termini dell'emanazione delle LL.RR. che avreb­bero dovuto, in assenza della Riforma dell'assi­stenza, disciplinare il trasferimento dalle varie I.P.A.B. ai Comuni (ex art. 25 D.P.R. 616/'77). Pare che in merito sia stato avviato l'iter neces­sario per la messa a punto di una proposta di L.R., con la quale la Toscana si metterebbe al passo con quelle Regioni che, a partire dall'apri­le '80, hanno legiferato in proposito (con provve­dimenti da alcune parti criticati).

In ordine all'assistenza fornita alle categorie «speciali» quali ciechi, sordomuti, invalidi ci­vili, di guerra e del lavoro, gli orfani dei lavora­tori, la prima fase del processo di trasferimen­to delle competenze si è concretizzata, non sen­za difficoltà, garantendo una sostanziale continui­tà di intervento. C'è da osservare come, di fron­te ad una indubbiamente positiva omogeneizza­zione istituzionale e gestionale delle prestazioni contrapposta alla dispersiva serie di caratteriz­zazioni specifiche previste in precedenza, sia al momento attuale ancora mancante una normati­va regionale di riordino generale delle funzioni in oggetto. Unici provvedimenti presi sono stati quelli di riconfermare le vecchie procedure e modalità di erogazione o di rivalutare, sulla ba­se degli indici del costo della vita, l'entità delle prestazioni monetarie fornite agli aventi diritto. La bozza di P.S.R. auspica, per parte sua, il per­seguimento di una corretta ed omogenea politica assistenziale, come è logico, che sappia valuta­re l'effettivo bisogno, pur nel permanere di alcu­ne specificità previste per legge.

 

Conclusioni.

Questa trattazione non ha certamente pretese di completezza. Restano fuori di essa tutta una serie di aspetti importanti quali, tra gli altri: il processo di riassetto delle competenze relative agli Enti mutualistici disciolti, con l'istituzione delle SAUB ai vari livelli territoriali; i dati di ca­rattere- descrittivo ed i problemi concernenti la medicina generica e pediatrica e quella speciali­stica ambulatoriale e dei servizi diagnostici; l'or­ganizzazione della guardia medica e dell'assi­stes1za sanitaria turistica; gli interventi in mate­ria di sanità e di igiene ambientale relativi all'in­quinamento di acqua, aria, suolo e alimenti; ecc.. Si può comunque presumere che la situazione attuale in ordine a questi settori è forse simile a quella di altre Regioni, nella persistenza di con­dizioni di generale squilibrio nella distribuzione sul territorio di risorse umane e strutturali, di distorsione della domanda e dell'offerta di pre­stazioni, di dequalificazione dei servizi, degli in­terventi, delle professionalità, e così via. In me­rito all'igiene ambientale risulta accentuarsi for­temente la grave carenza di strumenti conosciti­vi, ancor prima di quelli volti all'intervento di ri­sanamento, che rende estremamente difficoltoso agire con determinazione ed incisività. Per tut­te queste cose la bozza di P.S.R. prevede indiriz­zi anche operativi di azione, chiamando in cau­sa le U.S.L. per quanto di loro competenza. La strada appare comunque ancora impervia e lunga.

Da quanto si è visto credo si possa conclude­re osservando come la Regione Toscana e gran parte degli EE.II. toscani siano stati, nel bene e nel male, a livello nazionale, tra i protagonisti del graduale, difficile processo di avvicinamento a quell'importante obiettivo che è l'attuazione di una politica locale dei servizi. Al proposito resta però ancora molto da fare ed i tempi di matura­zione, vuoi per i vuoti e gli impedimenti di ca­rattere normativo-organizzativi generali, vuoi per difficoltà, contraddizioni, cedimenti ed imprepa­razioni particolari, si dimostrano ancora lunghi, ad indicare quanto complessa ed impegnativa sia la crescita politico-culturale (che significa an­che, se non soprattutto, capacità di programma­re validi interventi operativi) per tutti quanti, a tutti i livelli territoriali e di responsabilità, sono chiamati a dare delle risposte alle esigenze più impellenti della società toscana.

 

 

 

(1) Nelle zone di sviluppo si hanno tassi di infortunio e di malattie professionali elevatissimi, anche rispetto alle medie italiane. Ugualmente si riscontrano alti tassi di ricovero in Ospedale Psichiatrico da attribuirsi al forte stress psicologico connesso a tali rapidi processi di tra­sformazione socio-economica. Nelle zone depresse si han­no alti carichi di persone non produttive assieme ad un basso reddito medio che comporta un ricorso generalizza­to al lavoro «nero» ed alla pensione sociale. V. al propo­sito l'Abate Alberto, «I consorzi socio-sanitari nella po­litica locale dei servizi», in La politica dei servizi tra ra­zionalizzazione e rinnovamento, Venezia, Marsilio, 1978, pp. 242-244.

(2) «...le varie fasi di un processo di pianificazione... secondo gli schemi correnti sono le seguenti: 1) analisi della situazione e dei bisogni; 2) fissazione degli obiettivi di massima e loro scelta graduale...; 3) precisazione ulte­riore degli obiettivi ed individuazione degli standard o obiettivi specifici; 4) precisazione e messa in atto degli strumenti per il raggiungimento di tali obiettivi; 5) valu­tazione dei risultati e messa in movimento di un nuovo processo di pianificazione». Regione Toscana - Diparti­mento di Sicurezza Sociale, Il consorzio come strumento di base per una politica integrata dei servizi sanitari e so­ciali, Firenze, Cultura, 1976, p. 47.

(3) Regione Toscana/Giunta Regionale (a cura di), Sicurezza Sociale e Consorzi socio-sanitari, Venezia, Marsilio, 1977, pp. 372-432.

(4) Nell'ordine LL.RR. 3/'73, 47/'73, 46/'73.

(5) Di cui la principale è la L.R. 79/’75).

(6) L.R. 15/’76 e successive modificazioni.

(7) «I Consorzi della Regione Toscana», Salute e Ter­ritorio, n. 0, 1977, pp. 49-53.

(8) Delibera Consiglio regionale toscano n. 731 del 27-12-1979, Bollettino Ufficiale n. 16 del 22-2-1980, pagi­na 1098 e ss.

(9) V. gli Atti del convegno regionale su I Consorzi so­cio-sanitari verso la riforma sanitaria, Viareggio 2-3-4/6/'77 pag. 27.

(10) Regione Toscana/Giunta Regionale (a cura di), Sicurezza Sociale... cit., p. 19.

(11) V. Regione Toscana/Giunta Regionale (a cura di), op. cit., p. 42-56.

(12) V. Regione Toscana/Giunta Regionale (a cura di), I Consorzi socio-sanitari nel processo per la riforma sani­taria, Firenze, 1976, pp. 11-31.

(13) Tra gli altri: riorganizzazione completa dell'attività e dell'articolazione dei servizi consortili; definizione di mo­delli operativi elastici e modulari; ricerca di un modo uni­tario e correttamente orientato di utilizzo delle strutture sanitario e pubbliche in genere poste al di fuori dell'area di diretta influenza del C.S.S. È tra l'altro specificato uno schema-tipo corrispondente a queste caratteristiche di fondo che identifica: il distretto, con la presenza dell'é­quipe-operatori specializzati che eviti settorialità e abbia­no mobilità sul territorio; l'Ufficio Sanitario Centrale, pun­to di riferimento per strutture politiche ed amministrative. V. Regione Toscana/Giunta Regionale (a cura di), I Consor­zi socio-sanitari nel processo..., cit., pp. 91-101.

(14) Regione Toscana - Dipartimento di Sicurezza Socia­le, Piano sanitario Regione 1980-'82, bozza, Firenze, mag­gio 1980, p. 34.

(15) LL.RR. 4/’73 e 18/'79; L.R. 46/’73.

(16) I filoni di interesse prescelti erano: l'individuazio­ne del « peso di ciascuna delle varie attività consultoriali (8, dalla preparazione alla maternità e alla paternità re­sponsabili alla interruzione volontaria della gravidanza) nell'ambito dei servizi prestati all'interno della struttura; la corrispondenza per ciascuna delle attività alla presumibile «categoria» di utenza a cui era rivolta, considerata in ba­se alle classi di età; lo sviluppo futuro del servizio, i rap­porti con altri servizi, il grado di integrazione delle varie attività all'interno della struttura, le occasioni e gli stru­menti di partecipazione; l'esistenza e l'utilizzo di adeguati strumenti informativi. V. il documento a cura del Diparti­mento di Sicurezza sociale, Relazione sull'attività dei con­sultori rilevata al 31-7-1979, dattiloscritto, pp. 1-6.

(17) Tali piani prevedevano, ad es., per il quinquennio '72/'76, in una previsione orientata a soddisfare almeno il 20 per cento del fabbisogno (stimato in 870 aa.-nn., pa­ri a 10 posti-asilo ogni 1.000 abitanti), la realizzazione di 178 aa.-nn., contro i 60-70 possibili. I prezzi erano sotto­posti ad una forte lievitazione che aveva reso irrisori i contributi assegnati nel frattempo; i Comuni si trovarono così nell'impossibilità di reperire fonti integrative di fi­nanziamento.

(18) Dati forniti dal prof. Augusto Gerola nella sua re­lazione al convegno citato, pp. 63-79.

(19) Dati forniti dalla bozza di Piano citata, p. 231.

(20) Regione Toscana, bozza di Piano cit., pp. 87-98.

(21) Non è stato peraltro possibile, dato il taglio dell'indagine, dedurre se e in che misura questa cifra com­prendesse il dato relativo ai SS.DD. e CC. istituiti ed at­tuati all'epoca.

(22) Si attribuisce ai primi un valore di prevenzione pri­maria del bisogno, nei confronti di tutti i cittadini; ai se­condi quello di intervento contingente tramite prestazioni varie che consentano alla persona in necessità di supera­re tale situazione, in presenza di forti squilibri del siste­ma sociale.

(23) V. al proposito l'interessante capitolo «Gli indica­tori per un sistema informativo dell'unità locale dei servi­zi di sicurezza sociale», in L'Abate, op. cit., pp. 215-223.

(24) Coppola Celso, «L'urgenza della legge-quadro», Prospettive Sociali e Sanitarie, n. 13-14, 15/7-1/8/1980, pagina 4.

 

www.fondazionepromozionesociale.it