Prospettive assistenziali, n. 53, gennaio - marzo 1981
IL RECUPERO FUNZIONALE
DELL'ANZIANO NON AUTOSUFFICIENTE
GIACOMO BRUGNONE
Le scuole di medicina riabilitativa, oltre a differenziarsi
fra di loro per le tecniche usate, attribuiscono
spesso un significato diverso al termine di «recupero funzionale», imponendo
all'opinione pubblica delle immagini di questo problema che quasi sempre
vengono recepite passivamente.
Ci pare quindi indispensabile,
prima di affrontare questo argomento, definire l'esatto significato
che attribuiamo ai concetti di recupero funzionale, riabilitazione,
autosufficienza, emarginazione ecc.. In questa sede non vogliamo proporre una
raccolta di indicazioni e tecniche riabilitative, in quanto su tale argomento
esiste già tutta una ricca letteratura a cui far riferimento, bensì affrontare
il tema di quale debba essere il ruolo dei tecnici ed i contenuti e le modalità
degli interventi riabilitativi.
La riabilitazione è purtroppo
spesso considerata come la somma di manovre meccaniche (che si
differenziano a seconda della scuola), eseguite esclusivamente dai tecnici
della riabilitazione in apposite strutture, quasi sempre residenziali e
raramente territoriali. Questo intervento è comunemente finalizzato al totale
recupero della perduta o ridotta autonomia funzionale dell'invalido e, qualora
ciò non sia possibile a rendergli accettabile l'emarginazione. Pur essendo
convinti assertori dell'esigenza che gli operatori della riabilitazione debbano
avere una formazione professionale ineccepibile,
continuamente aggiornata, riteniamo che il loro intervento non debba limitarsi
esclusivamente all'esecuzione di manovre meccaniche, ma andare ben oltre.
Un diverso intervento riabilitativo, tecnicamente e
politicamente corretto, deve mirare al maggior recupero possibile delle
funzioni perdute ed alla valorizzazione di quelle
residue, e contemporaneamente all'adattamento
dell'habitat e dei vari momenti della vita di relazione dell'anziano con il suo
entourage a tali possibilità funzionali, tenendo presente che queste sono
suscettibili sia di miglioramenti ma più spesso di peggioramenti.
Questo intervento deve mirare alla risocializzazione dell'invalido, resa possibile dalla
collaborazione concreta tra operatori, paziente, suoi
parenti ed amici, e realizzata nel territorio, limitando al minimo
indispensabile l'intervento residenziale.
Ma l'esatto ruolo del recupero funzionale dell'anziano
non autosufficiente, intervento tra il sociale ed il sanitario, potrà essere
pienamente evidenziato solo se lo si collocherà nel
più vasto campo interdisciplinare del trattamento dell'anziano.
Le tecniche riabilitative.
Abbiamo accennato all'esistenza di svariate scuole di
medicina riabilitativa, che hanno elaborato loro
metodi originali per il recupero funzionale dei motulesi o che hanno adattato
o modificato alle esigenze particolari delle loro utenze quelli esistenti. La
nascita di queste scuole e la messa a punto o l'adattamento di queste metodiche
riabilitative, a cui ha fatto seguito il proliferare in ogni dove di centri
per il recupero funzionale, non è stato un fatto casuale né tanto meno la
conseguenza di una spontanea evoluzione scientifica,
bensì la conseguenza della spinta di un poderoso movimento di opinione.
Enormi masse di cittadini «con potere contrattuale»,
cioè che producono e che consumano, hanno imposto ad
amministratori e politici di prevedere nei loro programmi, prioritariamente e
concretamente, la promozione di questi tipi di interventi.
Se è pur vero che spesso questi interventi sono stati tecnicamente inadeguati ed emarginanti, è anche
vero che quelli validi sono in continua espansione e l'opinione pubblica è
culturalmente orientata in quella direzione.
Anche nel settore del recupero funzionale degli anziani
non autosufficienti, si trova una conferma a quanto abbiamo detto in altri
lavori: chi non produce e/o non consuma, viene emarginato e ciò avviene in
misura tanto maggiore quanto minore è la sua possibilità diretta o indiretta
di imporre delle scelte a chi detiene il potere. I servizi di riabilitazione
sono sorti per soddisfare la richiesta di recupero funzionale deali invalidi
di guerra, degli infortunati civili o da cause di lavoro, dei poliomelitici, dei cerebropatici
infantili ecc.: tutta gente che poteva contare sulla
concreta solidarietà dell'opinione pubblica, dei sindacati e dei parenti in
particolare.
Ben diverso è il destino riabilitativo dell'anziano
non autosufficiente: un individuo che ha perso ogni
ruolo sociale, spesso privato del diritto alla salute e ad una vita
economicamente e socialmente decorosa, senza potere contrattuale, i cui diritti
sono male tutelati dalla «famiglia giovane», occupata a difendere i suoi
propri diritti e ad uscire dalla crisi esistenziale in cui si dibatte. In
questa situazione la non autosufficienza diviene spesso
un alibi che la società (consciamente) ed i parenti (inconsciamente) adducono per escludere i vecchi. I figli lo accompagnano in
cronicari-parcheggio eufemisticamente definiti
«reparti di lungadegenza riabilitativa», ripromettendosi
di farli rimanere il tempo minimo indispensabile alla loro riabilitazione, al
recupero di una almeno parziale autosufficienza.
Trapiantato in queste realtà, allontanato dall'ambiente
familiare, costretto a modificare le sue abitudini e a rinunciare alla sua «pricacy», per adattarsi ad un modello di vita funzionale
non alle sue esigenze ma a quelle dell'istituzione totale, l'anziano va
incontro ad un continuo regresso psico-fisico, che da
solo basterebbe a compromettere irrimediabilmente ogni possibilità di
recupero. Se poi a questi elementi si aggiunge l'assenza
completa o la mistificazione dell'intervento riabilitativo, allora il quadro è
completo e non è difficile immaginare quale sarà il destino del ricoverato.
Altrove abbiamo ampiamente e chiaramente trattato del ruolo più corretto che
deve svolgere la geriatria e ciò ci consente ora, senza ulteriori
preamboli, di parlare della riabilitazione geriatrica
senza tema di essere tacciati di riproporre interventi settoriali o inutili
specializzazioni, funzionali esclusivamente agli interessi dei tecnici.
La riabilitazione geriatrica
non deve essere altro che una normale riabilitazione motoria, attuata nelle
sedi obiettivamente più funzionali alle esigenze dell'utente anziano, eseguita
da normalissimi tecnici e fisiatri che, nella
pratica quotidiana e durante i corsi di aggiornamento
periodici, abbiano approfondito le modalità più adeguate al trattamento di
questo tipo di utenza.
Mentre la medicina geriatrica,
nata come «medicina di serie B», per sistemare primari, è riuscita pur con i
suoi limiti, in presenza di condizioni favorevoli, a
creare una sua scuola ed un suo positivo movimento culturale; la riabilitazione
funzionale geriatrica, nata anch'essa come
«riabilitazione di serie B», o addirittura come mistificazione dell'intervento
ed alibi per liberarsi degli anziani, è rimasta tale senza riuscire a produrre
nulla di originale. Essa viene quasi sempre praticata
da fisiatri e tecnici improvvisati, la buona volontà
dei quali non è sufficiente a sopperire alla carenza di una seria preparazione
professionale. Altre volte invece, la praticano operatori che non avevano trovato una loro collocazione in «settori più
gratificanti». In questo caso le cose non andranno meglio; dimenticheranno
progressivamente e sempre più ogni nozione professionale ed in capo ad un
tempo più o meno lungo, limiteranno ad un ripetitivo lavoro di routine il loro
intervento che non sarà personalizzato, uguale per tutti i pazienti indipendentemente
dalla loro patologia: esercizi di deambulazione tra le parallele, alle pulegge,
alle scale, alla sedia e tutta una serie di stupidi esercizi di ginnastica segmentaria; tutte cose queste che potrebbe fare
altrettanto bene chiunque, anche senza una particolare preparazione
professionale.
Questi operatori, o per carenza
di una seria preparazione o perché considerano transitorio questo lavoro, in
attesa di poterlo cambiare al più presto, non produrranno nulla di originale, a
differenza di quanto è avvenuto in altri settori della riabilitazione.
Nel campo della riabilitazione delle
cerebropatie infantili, Bobath è partito
dall'analisi del comportamento del «bambino normale» e dall'osservazione delle
varie fasi della sua evoluzione motoria, mettendo a punto tutta una serie di
metodiche che tendono ad inibire l'anomalia comparsa o il perdurare oltre il
periodo fisiologico di riflessi e comportamenti motori anomali, e a stimolare
quelli normali che tardano a comparire.
Kabath, partendo dall'osservazione di individui
(perfettamente sani) in movimento, si rese conto che una rieducazione motoria
che avesse continuato a basarsi esclusivamente sulla ginnastica
segmentaria, così come veniva fatto sino ad allora (e
purtroppo continua ad essere fatta tuttora fra i tecnici improvvisati), era
doppiamente restrittiva sia perché si basava su movimenti semplici che
avvenivano esclusivamente intorno ad assi ortogonali fra di loro, sia perché
provocavano una risposta motoria ed un coinvolgimento muscolare limitato.
Partendo da queste osservazioni, egli mise a punto un
suo metodo originale che si basa su movimenti compositi, diagonali e spirali
che interessano contemporaneamente più segmenti corporei e la cui esecuzione,
contro resistenza, mette in funzione risposte motorie quantitativamente e
qualitativamente migliori: tecniche di facilitazione neuromuscolari.
Potremmo continuare per moltissime pagine ad elencare
tecnici che hanno messo a punto loro metodi: Klapp, Nieder Hoffert
ed altri per la ginnastica vertebrale correttiva; Vojta
per le cerebropatie infantili ed altri che hanno messo a punto metodi di
rieducazione muscolare che sfruttano i riflessi posturali,
quelli tendinei, quelli noci-cettivi
ecc.
Riabilitatori che hanno orientato la loro
attività verso il trattamento delle varie categorie di motulesi, hanno adattato
alle loro esigenze queste tecniche, arricchendole con contributi originali.
Fra questi creatori di scuole,
senza dubbio il professor Milani Comparetti
è uno fra i più geniali e fra i più seguiti; l'originalità e validità del suo
metodo si basano su presupposti semplicissimi: «ogni buon riabilitatore deve essere padrone
e non schiavo delle varie tecniche, che deve saper usare discrezionalmente al
momento opportuno; egli deve nel modo più assoluto rifiutare la delega a
gestire da solo un processo di riabilitazione finalizzato al reinserimento
sociale del paziente e che deve veder coinvolti i parenti del paziente e tutto
il suo entourage. In questa operazione il
tecnico deve progressivamente delegare a questi ultimi la riabilitazione di routine,
rimanendo sempre a loro disposizione per risolvere nuovi problemi che
potrebbero presentarsi e per modificare, qualora fosse necessario, il programma
di lavoro».
Come si è detto sopra, ogni categoria di utenti ha avuto uno o più fondatori di scuole che sono
riusciti a produrre contributi originali e positivi, non solo per la categoria
specifica, ma per tutta la riabilitazione in generale; a questa regola solo la
geriatria ha fatto eccezione.
La messa a punto di un tale metodo di riabilitazione,
che tenga conto particolarmente delle esigenze e delle caratteristiche dei
soggetti anziani da trattare, è un capitolo della riabilitazione tutto da
scrivere, e perché esso sia scientificamente valido
deve tener conto di tutta una serie di elementi di cui qui di seguito ne
elenchiamo soltanto alcuni:
- deve essere praticata da fisiatri e tecnici con una seria preparazione professionale
di base, che, per libera scelta, decidano di esercitare nel settore
degli anziani;
- la formazione nel settore specifico la si farà ricavando, con assoluta rigidità scientifica, dal
lavoro di tutti i giorni gli elementi che differenziano il trattamento dell'anziano
da quello tradizionale, elementi ed osservazioni che dovranno essere
verificati durante i momenti di dibattito e di confronto all'interno
dell'équipe interdisciplinare e durante gli stages di
aggiornamento;
- nel mettere a punto i programmi di lavoro non si
deve partire dall'osservazione del comportamento motorio del bambino o
dell'uomo giovane ma prendere come modello di riferimento l'anziano «sano»,
magari indebolito dall'età; di conseguenza l'obiettivo da perseguire sarà
quello del recupero più o meno completo della
funzionalità tipica di questi soggetti;
- per le stesse ragioni si dovrà mirare a sopperire
all'eventuale mancato raggiungimento dell'autosufficienza completa, adattando
l'habitat ed i vari momenti della vita di relazione dell'anziano alle sue
capacità funzionali residue, tenendo presente che esse sono, sì suscettibili
di migliorare, ma più spesso sono inesorabilmente destinate a peggiorare;
particolare cura deve essere dedicata alla predisposizione di strumenti
didattici accessibili ai non tecnici, in quanto i buoni risultati
della riabilitazione dipendono in gran parte dal fatto che l'intervento possa
protrarsi nel tempo con una puntuale periodicità, il che sarà possibile solo
se l'intervento di questi potrà integrare il lavoro dei riabilitatori;
- primo elemento per tale realizzazione è l'impegno
dei riabilitatori ad
adattare il loro comportamento (nel rapportarsi a questi pazienti) alle
caratteristiche particolari delle loro patologie. Per fare alcuni esempi:
l'arto fratturato dell'anziano andrà trattato con lo stesso scrupolo con il
quale si rieducherebbe quello di un giovane, indipendentemente dal fatto che
questi dovrà servirgli solo per reggere l'ombrello o il bastone o riprendere una attività produttiva. In luogo di
escludere questi utenti dalla ginnastica vertebrale, si studieranno esercizi
compatibili con le loro possibilità motorie residue.
Generalmente non si fanno eseguire a
questi anziani tecniche di facilitazione neuromuscolari,
adducendo la scusa che la loro esecuzione richiede un notevole grado di
partecipazione. La realtà è un'altra, esse richiedono una notevole preparazione
professionale che non tutti i riabilitatori posseggono. Non é infatti
sufficiente saperla eseguire meccanicamente, è indispensabile esser capaci di
provocare nel paziente una risposta. Si tratterà quindi di sforzarsi di
ricercare questa collaborazione. Altrettanto dicasi
per numerosissime altre affermazioni. È indispensabile predisporre per ognuna
di esse un programma personalizzato che tenga conto
delle condizioni del paziente e delle sue capacità di collaboratore.
- Infine va ricordato che la
meticolosa classificazione dei vari gradi di non autosufficienza non
reca alcun vantaggio pratico al recupero funzionale di questa categoria di
pazienti e spesso viene usata come alibi da amministratori e burocrati per
palleggiarsi il vecchietto di cui nessuno vuol farsi carico; sarebbe quindi
più opportuno parlare non di classificazioni ma di rilevazione delle condizioni
funzionali, tenendo presente che esse sono suscettibili di continue evoluzioni.
Quindi non etichettatura di una condizione definitiva di invalidità
irreversibile bensì documento tecnico per rilevare l'evoluzione del recupero e
meglio programmare l'intervento riabilitativo stesso.
Da questa schematica introduzione dell'argomento,
appare chiaro come l'intervento riabilitativo sia stato
sinora sottoutilizzato e circoscritto quasi
esclusivamente a quello ospedaliero, trascurando quasi completamente i trattamenti
ambulatoriali e domiciliari.
Una riabilitazione diversa.
Si ha la sensazione che in molte realtà geriatriche,
dove operano medici e tecnici democratici, qualcosa stia
mutando e si stiano creando i presupposti per poter lavorare in maniera diversa.
Molti operatori cominciano a rendersi conto che la mancata realizzazione di
proposte da loro avanzate esclusivamente in sede di convegni,
é stata conseguente non solo alla mancanza di spazi operativi e legislativi ed
allo strapotere di amministratori, burocrati e medici conservatori, ma anche
alla loro incapacità a concretizzare queste proposte, partendo magari da progetti
minimali ed aggregando intorno ad essi tutta una serie di forze sia interne
che esterne al settore sanitario.
Credo sia stata l'incapacità degli operatori democratici
di concretizzare queste proposte più che lo strapotere delle forze conservatrici,
a far sì che le cose non cambiassero.
Qui di seguito riportiamo, correndo il rischio di essere banali, tutta una serie di indicazioni in parte
realizzabili da subito ed in parte a tempi più o meno brevi, a condizione
comunque che vi sia da parte degli operatori la concreta volontà di lavorare
per questo cambiamento e la disponibilità, come si è detto sopra, ad uscire
dal loro ruolo di « tecnici neutrali », per confrontarsi con le forze sociali
disponibili ed assieme a queste elaborare e portare avanti il processo di
cambiamento.
Questa diversa riabilitazione, per essere considerata
tale, deve garantire l'interdisciplinarietà e la
continuità del suo intervento. Non solo i riabilitatori ma anche gli altri operatori sanitari che
seguono il paziente, dovranno contribuire alla formulazione ed alla buona
riuscita del programma riabilitativo, con osservazioni ed indicazioni
inerenti le loro discipline specifiche, così che questo programma sia
finalizzato ad una risposta globale delle esigenze di recupero funzionale del
paziente, viste da angolature diverse.
L'ideale sarebbe che la stessa équipe potesse
seguire il paziente durante le varie fasi della sua malattia e riabilitazione:
in ospedale, in strutture semiresidenziali o ambulatoriali e a domicilio. Ciò
non è possibile da subito; però in attesa che una
diversa organizzazione dei servizi sanitari consenta meccanismi di rotazione o
di contemporaneo lavoro degli stessi operatori in più strutture, si deve
assolutamente iniziare a far qualcosa che vada in quella direzione.
Una volta conclusa una fase di trattamento, l'équipe
che l'ha eseguita, non dovrà scaricare il paziente come un pacco, dovrà
seguirlo adeguatamente nelle fasi successive che possono essere: la dimissione
per avviarlo ad un trattamento territoriale, o l'accettazione per avviarlo ad
un trattamento residenziale ospedaliero. In questa prima fase, sarebbe già una
bella cosa se l'équipe, nel trasferire il paziente ad altro servizio, lo
seguisse nella fase iniziale mettendo a disposizione dei nuovi riabilitatori tutte le informazioni e le indicazioni inerenti il caso, di cui sono in possesso e possibilmente
almeno un terapista collaborasse con loro nella messa a punto del nuovo
programma di lavoro.
Per la messa a punto e l'attuazione di un buon
programma riabilitativo, debbono essere curati in modo
particolare alcuni suoi momenti:
- il primo contatto: l'approccio col paziente e col
suo entourage;
- l'obiettiva valutazione delle condizioni funzionali
residue e delle possibilità di recupero; - la messa a punto di un primo
programma di lavoro, tenendo presente che comunque esso
deve essere considerato dinamico, quindi suscettibile di continue modifiche;
- la disponibilità a collaborare in maniera concreta
con quanti dovranno modificare l'habitat e le varie
fasi della vita di relazione del paziente col mondo che lo circonda, adattandolo
al suo residuo funzionale e tenendo presente che questo può essere
suscettibile sia di miglioramento, ma più spesso di peggioramento;
- il lavoro didattico e di consulenza, per consentire (una volta impostato il programma
riabilitativo e svolto un primo ciclo di trattamento intensivo) a tecnici
generici e parenti di eseguire la riabilitazione di routine;
- in attesa che venga
generalizzato l'utilizzo dell'operatore sanitario unico, che oltre a prendersi
cura delle esigenze di tutti i giorni del paziente e ad eseguire la
riabilitazione di routine e fungere da notaio dei suoi bisogni, sarà il
fisioterapista a segnalare all'équipe ogni osservazione che consenta di
adeguare il programma terapeutico e riabilitativo alle evoluzioni del quadro
clinico del paziente. Nei trattamenti ambulatoriali e domiciliari questo ruolo verrà assunto dal «curatore», cioè dal componente della
famiglia che più degli altri si prenderà cura del paziente;
- la gravità del fenomeno patologico e la sua data di insorgenza;
- la precocità o meno dell'inizio della riabilitazione;
- le condizioni fisiche generali del paziente e la
prognosi;
- il livello culturale ed il grado di collaborazione del paziente e dei suoi parenti.
Queste considerazioni valgono non per privilegiare i
meno colpiti o con prognosi più favorevole, ma per perseverare nel trattamento
degli altri che sono più svantaggiati.
La fase di approccio
dell'équipe (e del terapista in particolare) col paziente e con i suoi parenti
ed amici, dovrà essere curata attentamente perché spesso dipende da essa la
qualità dei risultati. In questa delicata fase i riabilitatori
debbono tener ben presenti alcune regole: il loro
rapporto con gli utenti (e loro parenti) deve essere molto equilibrato; non
debbono schiacciare i loro interlocutori, imponendo il loro ruolo di tecnici,
né farsi sopraffare dalle loro ansie; deve essere stabilito un rapporto di
reciproca fiducia e rispetto che non sfoci in eccessiva familiarità, cosa
questa che potrebbe compromettere i rapporti interpersonali ed i risultati
stessi della riabilitazione; non dovranno essere lasciati intravedere
irrealizzabili risultati.
Ma soprattutto i riabilitatori
non dovranno accettare la delega a gestire da soli questo processo; come
abbiamo detto sopra, essi dovranno mettere a
disposizione di tutti coloro che circondano l'anziano ogni loro conoscenza
facilmente trasmissibile e sforzarsi di far sì che questi riescano ad
eseguire correttamente le manovre apprese, assicurando la loro consulenza ogni
qualvolta questa venga richiesta e vigilando affinché questo diverso modo di
lavorare non vada a discapito dei risultati, riprendendo direttamente in cura
il paziente ogni qualvolta ciò dovesse essere necessario.
Un trattamento integrato
Per giustificare la discriminazione che viene fatta a danno degli anziani cronici e degli acuti con
prognosi sfavorevole, si dice che la carenza di personale specializzato non
consente di generalizzare l'intervento riabilitativo che deve pertanto essere
limitato esclusivamente a coloro che presentano maggiori possibilità di
recupero.
Molto vi sarebbe da dire su questo tipo di valutazione morale, ma ciò ci porterebbe a divagare; ogni
paziente ha eguale diritto ad essere trattato: l'acuto perché ha maggiori
possibilità di recupero, il cronico perché è stato sinora ingiustamente
trascurato ma soprattutto perché è falsa l'affermazione secondo la quale non vi
è in questi pazienti più nessuna possibilità di recupero. Non si può attendere
che vengano adeguati gli organici dei riabilitatori (quasi ovunque inadeguati) per avviare
questi processi di trasformazione; già da subito si può iniziare a fare qualcosa.
I terapisti potrebbero iniziare a delegare agli operatori sanitari generici
parte del loro lavoro di routine: far camminare i pazienti, eseguire semplici
esercizi di ginnastica segmentaria, di terapia
occupazionale ecc.; ed utilizzare il tempo così
risparmiato nell'esecuzione di cicli di trattamento intensivo limitati nel
tempo e nella programmazione e consulenza dei piani di lavoro che dovranno poi
essere eseguiti dai tecnici generici o dai parenti, a seconda che il paziente
sia ricoverato o rimanga a casa.
In sintesi: i terapisti dovranno continuare a vigilare sull'evoluzione del caso, modificando di volta in
volta il programma e riprendendo il trattamento intensivo tutte le volte che
ciò sia richiesto da obiettive esigenze terapeutiche. L'anziano reagisce in
maniera spesso diversa dal giovane all'insorgere di fatti morbosi, cadendo
spesso in stati di confusione mentale e debilitazione per fenomeni che nel
giovane passerebbero inosservati o regredirebbero rapidamente. Questa
osservazione ci deve indurre a dedicare la maggior cura possibile all'approccio
col paziente ed alla messa a punto del programma riabilitativo che deve
essere la sintesi delle osservazioni sul paziente fatte da tutti i componenti dell'équipe.
Si è detto che la perdita di
autosufficienza nell'anziano è conseguente spesso ad un intervento
riabilitativo tardivo o inadeguato o ad un intervento precoce che non si è
però protratto nel tempo; ciò si verifica soprattutto nelle sequele di disturbi
vascolari del sistema nervoso centrale, che sono fra le cause più frequenti di
invalidità nell'età senile e presenile.
E' stato statisticamente dimostrato che qualora venga iniziata entro le quarantotto ore dall'insorgenza
dell'ictus sia la terapia intensiva che il recupero funzionale, si ha una
notevole riduzione sia della mortalità che dell'invalidità.
A sostegno di questa esigenza
di intervento precocissimo da realizzarsi in una sezione di terapia intensiva multidisciplinare del dipartimento di emergenza ed
accettazione, riportiamo qui di seguito tutta una serie di dati ricavati dalla
rivista inglese «The Stock». Dal 1959, anno di avvio della riorganizzazione dei reparti per acuti con
l'avvio del servizio di terapia riabilitativa precoce, al 1974, la mortalità
dei ricoverati scende dal 57 al 22 per cento. Prima di tale data, solo il 28
per cento dei ricoverati ritornava a casa; in 15 anni questa percentuale è
quasi triplicata, passando al 73 per cento dei ricoverati, mentre i trasferiti
in cronicari sono stati il 5 per cento del totale: dati questi suscettibili di ulteriori miglioramenti.
Altro dato incoraggiante è rappresentato dal fatto
che circa il 50 per cento dei pazienti trattati precocemente riesce a
conseguire un'autosufficienza più o meno totale.
Il grado di autosufficienza
di questo paziente deospedalizzato è però
suscettibile, sia di migliorare, in presenza di condizioni favorevoli (habitat
confortevole e strutture territoriali sociosanitarie), sia di peggioramenti
qualora queste non sussistano.
Secondo la stessa fonte sono stati controllati, dopo
6-10 settimane dal loro ritorno a casa, circa 900 pazienti, e le osservazioni
emerse sono le seguenti:
- rimangono a casa circa l'80
per cento delle persone che vivono in famiglia;
- la concreta presenza del medico, che si occupa dell'anziano invalido, consente la permanenza a
casa dei dimessi, anche se la famiglia non può svolgere un effettivo ruolo
assistenziale;
- le buone condizioni abitative consentono la
permanenza a casa del 90 per cento dei dimessi;
- la presenza di strutture territoriali socio-sanitarie
di sostegno, la collaborazione di familiari e la disponibilità del medico a
seguire concretamente l'anziano, riducono di un ulteriore
10-20 per cento l'esigenza di protrarre la degenza ospedaliera;
- l'estrema povertà è causa di ritorno in ospedale
nel 95 per cento dei casi; tale percentuale diminuisce del 5 per cento se vi è
un servizio di assistenza domiciliare e di un'ulteriore
3 per cento ove esista un ospedale diurno.
Questi ed altri dati facilmente reperibili dovrebbero
costituire per amministratori e politici elementi di riflessione; ciò è
particolarmente attuale, in previsione del concreto avvio delle
Unità locali e della formulazione dei piani regionali socio-sanitari.
Fra le altre cose sarebbe indispensabile che essi tenessero presente che va rivista
l'attuale organizzazione dell'intervento riabilitativo residenziale
ospedaliero, finalizzandolo prioritariamente al trattamento precocissimo al
letto del paziente o comunque nel reparto di degenza:
Tutto ciò comporterà necessariamente una radicale trasformazione
dell'organizzazione del reparto di degenza, così da consentire l'attuazione di
questi ed altri interventi terapeutici e riabilitativi che attualmente vengono
svolti altrove.
In presenza di condizioni politiche favorevoli e della
disponibilità degli operatori, un tale progetto minimale, che includa
inizialmente solo alcune salette di degenza, potrebbe partire da subito
utilizzando le possibilità di mobilità volontaria degli operatori all'interno
dell'ospedale e predisponendo assieme agli amministratori un concreto progetto
operativo che contenga indicazioni su come si vogliono utilizzare questi operatori
(alcuni necessariamente a tempo pieno, altri a tempo parziale, prendendoli in
prestito dagli altri servizi, per il tempo minimo indispensabile a svolgere
questo lavoro).
Un tale progetto non richiede grossi investimenti né
particolari attrezzature né modifiche delle strutture; il tutto è facilmente
reperibile utilizzando i mezzi economici e tecnici ordinari a disposizione
dell'ospedale. Le attrezzature per un tale progetto sono semplici e poco costose;
spesso la richiesta di sofisticate macchine, risponde
più ad una distorta concezione di prestigio del reparto che a reali esigenze
tecniche.
Il soddisfacimento dell'esigenza degli
operatori di veder realizzata la loro corretta professionalità e
quindi di svolgere un lavoro più qualificato, è un notevole incentivo e siamo
convinti che, dopo l'avvio, l'ampliamento e la generalizzazione
dell'esperimento diverranno automatici.
Grande importanza va attribuita al trattamento
precocissimo di questo tipo di pazienti, perché da
ciò dipende il loro destino riabilitativo: la possibilità di recuperare una più
o meno completa autosufficienza e quindi di rientrare nel loro ambito familiare
e sociale o al contrario di divenire cronico ed essere confinato in strutture
emarginanti. L'attuale confusione ideologica (o malafede) in materia di
riabilitazione, fa sì che, in alternativa ad un
intervento inadeguato, si proponga una riorganizzazione tecnicistica
dei reparti per acuti e cronici: suddividendoli in settori attraverso i quali
far ruotare i pazienti, a seconda della evoluzione delle loro condizioni e del
tipo di richiesta dell'intervento, quasi una catena di montaggio della riabilitazione.
Tutto ciò sarebbe psicologicamente e materialmente nocivo per l'anziano che vedrebbe accresciuta
la sua confusione mentale, dovendosi ambientare continuamente a nuove
situazioni, e di nessuna utilità ai fini del recupero funzionale. Molto meglio
sarebbe anche in questi casi l'utilizzo di un'unica struttura muraria e
l'adozione della prassi del «progressive patient cure».
Non si comprende in che potrebbero consistere le
contraddizioni nell'ospitare in una stessa struttura pazienti acuti e pazienti
da decronicizzare. Infatti, se è pur vero che esiste
una netta differenziazione di trattamento fra queste due categorie di pazienti,
è altrettanto vero che ogni intervento riabilitativo, personalizzato, cioè studiato su misura per quel paziente e non per altri,
non potrà non essere diverso da caso a caso. Per gli anziani
la negazione del diritto alla salute che si concretizza col rifiuto di
accoglierli in normali strutture ospedaliere o di trattarli nei servizi
territoriali, non riguarda i «cronici recuperabili» bensì i «non autosufficienti
irrecuperabili», che sono spesso il frutto di un intervento riabilitativo
inadeguato o addirittura mistificante e che vengono classificati come tali
secondo una logica che spesso tiene esclusivamente conto delle loro
possibilità di recupero spontaneo.
Questa logica va respinta senza mezzi termini, sia
perché non esiste in assoluto nessun paziente bisognoso di intervento
sanitario (nel nostro caso riabilitativo) che non possa trarre giovamento da
un trattamento adeguato: beneficio che potrà concretizzarsi con un più o meno
grande recupero di autosufficienza o come prevenzione del peggioramento delle
sue condizioni.
Non si tratta quindi di negare loro questo diritto,
ma di programmare un diverso intervento che meglio risponda allo scopo che ci
prefiggiamo.
Attualmente una vasta area del settore assistenziale e dei
servizi sanitari territoriali è coperta esclusivamente dagli ospedali o è
addirittura sguarnita; pur condividendo il parere di quanti negano
all'ospedale una tale funzione, non possiamo accettare il dato di fatto secondo
il quale, ad un anziano indigente bisognoso di intervento sanitario (o
riabilitativo), comodamente erogabile in servizi territoriali che non esistono,
venga rifiutato il ricovero. Provveda il servizio sanitario nazionale ad
erogare nella sede più idonea gli interventi richiesti e qualora questa non
esista, vi provveda comunque utilizzando quelle
esistenti, anche se non sono le più adeguate, e non si continui a trasformare
il problema degli anziani non autosufficienti da fatto sociale a fatto
individuale, lasciando che questi siano costretti a trovare privatamente una risposta
ai loro bisogni.
In questa logica si inserisce
il problema dell'intervento sanitario e riabilitativo erogato dalle case di
riposo e di conseguenza del loro costo, che nonostante i recenti provvedimenti
nazionali e regionali, è ancora a parziale carico degli utenti o comunque del
settore assistenza.
Questa impostazione del problema va respinta, anche
perché favorisce il sorgere di un servizio sanitario di «serie B»,
direttamente gestito dalle case di riposo, con suoi organici ed attrezzature,
in contrapposizione a quello sanitario nazionale che
eroga gratuitamente nelle sedi più appropriate (o almeno dovrebbe essere così)
ogni intervento sanitario agli anziani come a tutti gli altri cittadini.
In attesa di poter concretamente superare le case di
riposo, si deve provvedere allo scorporo delle loro rette, perché non è
ammissibile che questi cittadini, oltre a dover continuare a subire
l'emarginazione, debbano anche pagarsela.
Lo scorporo delle rette dovrebbe far sì che si arrivi
alla retta unica, che copra le sole spese alberghiere; i maggiori costi dovuti
alla condizione di non autosufficienza dovranno
essere rimborsati dal servizio sanitario nazionale, mentre ogni intervento
terapeutico, preventivo o riabilitativo deve essere direttamente gestito da quest'ultimo e non lasciato in appalto alle case di
riposo.
Riprendendo ora il discorso sull'organizzazione del servizio di riabilitazione ospedaliera ed
ambulatoriale, prima di verificare la validità di quelli attuati o definire i
nuovi criteri a cui essi dovrebbero ispirarsi, sarà opportuno chiedersi come
abbiamo fatto noi all'inizio: a che cosa deve essere finalizzato un diverso
servizio di recupero funzionale. Se questo deve essere finalizzato al
recupero di quei pazienti che hanno comunque una prognosi favorevole e
all'etichettatura di «irrecuperabile» per gli altri, in questo caso basterà
potenziare gli organici degli attuali servizi,
acquistare nuove e sofisticate attrezzature e generalizzarli in tutte le
realtà ospedaliere e territoriali, continuando l'attuale lavoro di routine.
Se invece concordiamo nel fatto che l'invalido debba
mirare ad un recupero funzionale che gli consenta, magari con un adeguato
adattamento del suo habitat, di raggiungere un'autosufficienza tale da
consentirgli di curare il suo corpo, abitare la sua camera e la sua casa
(possibilmente il suo quartiere e la sua città), e ad accedere a tutte le
occasioni di socializzazione; in questo caso bisognerà rivedere tutto: il
concetto di riabilitazione, la formazione e l'aggiornamento degli operatori,
il loro ruolo, la definizione delle sedi e delle modalità di intervento
più idonee; quasi una rifondazione del concetto di riabilitazione geriatrica.
Ma per avviare un tale processo non possiamo
attendere che si creino le condizioni ideali è
indispensabile partire da subito, con progetti minimali, prefigurando «sul
campo» i modelli che domani dovranno essere generalizzati.
L'intervento riabilitativo residenziale ha ragione di essere esclusivamente finché lo imporranno ragioni di
obiettività terapeutica, e dovrà divenire semiresidenziale, ambulatoriale o
domiciliare non appena queste lo consentiranno. Parallelamente alla revisione degli obiettivi da raggiungere, bisognerà
riorganizzare il lavoro dei servizi di riabilitazione: non è ulteriormente accettabile
che ogni paziente venga trattato per non più di mezz'ora giornaliera cinque
volte la settimana e spesso anche meno a causa di una indisposizione sua o del
terapista o del portantino o per incompatibilità fra i tempi di lavoro di
questo servizio con quelli del reparto di degenza.
Se riusciremo a coinvolgere in questo lavoro anche
operatori generici e parenti dei pazienti, lasceremo più spazio ai terapisti
per occuparsi di un lavoro di messa a punto e verifica di più vasti programmi
riabilitativi.
Dopo di ciò, dovrebbero essere progressivamente sostituiti gli attuali esercizi in palestra, spesso
non finalizzati e poco gratificanti, con un programma più rispondente a questa
logica e che prepari veramente il paziente alla fase riabilitativa successiva,
quella dell'inserimento sociale.
In questa diversa ottica il terapista potrebbe
curarsi di un ristrettissimo numero di pazienti. Partendo dalle loro condizioni
generali e dal loro residuo funzionale, egli predisporrà un piano di lavoro
che occupi i pazienti per l'intera giornata, durante la quale si alterneranno momenti di sperimentazione di nuovi esercizi e
di nuovi sussidi riabilitativi a momenti di esecuzione del programma vero e
proprio (esercizi chinesiterapici e terapia
occupazionale).
Un buon riabilitatore dovrà
saper attingere a piene mani dalle tecniche già sperimentate, adattandole alle
particolari esigenze dei suoi pazienti. Bobath potrà
ispirare esercizi in posizione quadrupedica,
intermedia, in ginocchio, il teeping, la stimolazione
dei riflessi di equilibrio, e tutta una serie di altre
metodiche generalmente utilizzate per il trattamento delle cerebropatie infantili.
Anche l'anziano più confuso potrà trarre maggior
giovamento da schemi motori diagonali-spiroidali
(che molto si avvicinano alle tecniche di Kabath) in
luogo della banale ginnastica segmentaria. Ma forse
uno degli aspetti sinora più trascurati del problema consiste nella ricerca di
sussidi riabilitativi ed accorgimenti capaci di compensare i deficit funzionali
e renderli compatibili con le esigenze di autosufficienza
del paziente. Questo obiettivo verrà raggiunto solo
se riusciremo ad educare o inventare (stimolandone adeguatamente la comparsa)
funzioni collaterali a quelle distrutte e/o adattando l'habitat alle sue
condizioni funzionali.
Per raggiungere questi obiettivi sarebbe opportuno
limitare al minimo indispensabile il lavoro in palestra,
privilegiando invece il reparto di degenza e le strutture ospedaliere destinate
al tempo libero (soggiorno, corridoi, scale, giardino, ecc.).
A questo aspetto della
riabilitazione, sinora trascurato, va dedicato ogni nostro impegno, perché da
esso dipende il destino riabilitativo dell'anziano e la possibilità che egli
possa continuare a rimanere fra di noi.
Se è vero che spesso la «famiglia giovane» rifiuta il
vecchio, è anche vero che molte volte chiede
pochissimo per continuare a tenerselo in casa: la sicurezza di poter contare
sull'assistenza saltuaria e sui consigli di un terapista, di medici e
paramedici, sull'insegnamento per usare semplici attrezzature sanitarie quali
l'aspiratore per- il catarro, l'apparecchio per l'aerosol, per la
misurazione della pressione ecc., sull'insegnamento per poter eseguire
semplici interventi infermieristici e rieducativi, tutte cose facilmente
realizzabili dopo brevi corsi di educazione sanitaria e pratiche
infermieristiche, che possono essere facilmente realizzate ovunque. Ricevere
consigli pratici sul come adattare la casa al residuo funzionale del paziente:
corrimano, maniglioni, adattamento della vasca da
bacino o della doccia ecc.
Altre volte basterebbe l'installazione di un citofono
e la disponibilità di un vicino a venirgli in aiuto nei periodi di assenza dei parenti.
E si potrebbe continuare a lungo senza esaurire
l'elenco delle piccole difficoltà a cui possono
andare incontro un invalido e la sua famiglia, tutti problemi che esaminati
caso per caso, con un po' di buona volontà, potrebbero essere facilmente
risolti.
Conclusioni.
Nonostante i limiti di un'analisi così sommaria, riteniamo sin
d'ora di poter anticipare delle considerazioni, rimandando l'approfondimento
dei vari aspetti della riabilitazione in geriatria al dibattito che ci
auguriamo di aver contribuito a provocare:
- la riabilitazione dell'anziano non deve essere
l'ottusa applicazione di tecniche generiche a questo tipo di paziente; partendo
dall'anziano, dai suoi limiti e dalle sue possibilità deve essere messo a punto un programma riabilitativo più originale;
- sarebbe limitativo circoscrivere questo intervento
alle sole manovre chinesiterapiche; essa deve
comprendere anche l'adeguamento dell'habitat alle possibilità funzionali dell'anziano
e la rimozione delle barriere psicologiche e culturali che lo circondano;
- il recupero funzionale è un intervento interdisciplinare
che non deve essere eseguito esclusivamente da riabilitatori,
ma deve veder coinvolti anche tecnici generici, parenti ed amici del paziente,
opportunamente addestrati e seguiti;
- l'intervento residenziale ospedaliero e l'utilizzo
dei tradizionali servizi di recupero funzionale debbono
essere circoscritti ad esigenze di obiettività riabilitativa; in tutti gli
altri casi, va privilegiato l'intervento territoriale adeguatamente
organizzato;
- la programmazione di strutture residenziali per non
autosufficienti, così come è stata propasta da alcune
Regioni, va respinta in quanto è funzionale alla vecchia logica, secondo la
quale vengono riabilitati esclusivamente pazienti in fase acuta o comunque
tutti coloro per cui si prevede una prognosi favorevole o un regresso spontaneo
del fenomeno invalidante, abbandonando tutti gli altri al destino di «cronici»;
- una diversa riabilitazione ridurrebbe notevolmente
la percentuale di non autosufficienti prevista da molte Regioni,
circoscrivendola a pazienti obiettivamente bisognosi di ricovero ospedaliero o
da dislocarsi in numero di uno o due per gruppo in
comunità alloggio per autosufficienti, purché adeguatamente assistiti dal
medico di base e dalle strutture specialistiche dei servizi territoriali.
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