Prospettive assistenziali, n. 54, aprile - giugno 1981

Notiziario del Centro italiano per l'adozione internazionale

L'OPERATORE SOCIALE DI FRONTE ALLA COPPIA CHE ASPIRA ALL'ADOZIONE INTERNAZIONALE SILVANA BOSI - LILIANA GUALANDI - MASSIMO CAMIOLO

Con sempre maggior frequenza gli operatori sociali sono chiamati in causa a proposito dell'adozione internazionale, sia per verificare l'ido­neità di coppie che la richiedono, sia per segui­re - quantomeno in teoria - le famiglie dove già sia stato inserito un bambino straniero. Ma, mentre la prassi o l'idea dell'adozione internazio­nale si è diffusa con rapidità in questi ultimi dieci anni, non sono state parallelamente dibattu­te a sufficienza le problematiche che le sono peculiari. Ciò espone al rischio di arrivare con leggerezza all'adozione internazionale e impone quindi agli operatori sociali una riflessione appro­fondita sulle coppie e sulle famiglie che ad essa aspirano.

Il CIAI, in dodici anni di lavoro, ha visto modi­ficarsi sensibilmente le caratteristiche delle cop­pie che chiedono di adottare un bambino prove­niente da altri Paesi. All'inizio degli anni '70 si trattava prevalentemente di coppie di condizio­ni socio-culturali medio-alte, con figli naturali o adottivi italiani, spinte da forti motivazioni ideo­logiche. Oggi, le coppie che chiedono un'adozio­ne internazionale sono in prevalenza di livello socio-culturale medio-basse e sterili: le stesse coppie, insomma, che fanno richiesta di adozio­ne «nazionale».

È utile chiedersi ragione di tale mutamento. Fra gli elementi che hanno prodotto un nuovo at­teggiamento - una disponibilità più allargata - verso l'adozione internazionale, possiamo indivi­duare:

1) mutamenti culturali. Le diverse realtà etni­che, che prima erano lontanissime, oggi sono più vicine a tutti noi, grazie alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e grazie alla crescen­te facilità a compiere viaggi in paesi lontani. Inol­tre, le calamità naturali e le guerre, che hanno devastato e devastano tanti paesi del Terzo Mon­do, hanno costretto molti a prendere consapevo­lezza dei problemi delle popolazioni lontane e hanno particolarmente sensibilizzato le persone verso i bambini abbandonati;

2) scambi antropologici. L'Italia è forse il pae­se più accessibile a chi emigra dal Terzo Mondo, non solo per vicinanza geografica, ma anche per­ché nel nostro paese sono in atto trasformazioni

nel mondo produttivo e nel mercato del lavoro che consentono - come è avvenuto in passato in Francia e in Inghilterra - l'assorbimento di manodopera non specializzata. La presenza di stranieri è accettata in Italia - almeno in linea di principio e fino ad oggi - e crea una certa familiarità con chi abbia tratti somatici diversi. Su questo punto, tuttavia, non è dato fare previ­sioni troppo ottimistiche: molto dipenderà dalle vicende economiche del nostro paese e dalla rea­le consistenza di certi episodi di razzismo che oggi sembrano sporadici;

3) diminuzione dei bambini italiani adottabili. La diffusione della contraccezione, la maggior ac­cettazione sociale della maternità illegittima, la legalizzazione dell'aborto riducono il numero dei bambini nati per errore e abbandonati in brefo­trofio. E ciò mentre aumenta parallelamente la richiesta di adozione da parte di coppie sterili;

4) diverso atteggiamento di fronte alla sterilità. Un tempo la sterilità era attribuita prevalente­mente e quasi esclusivamente alla donna, che la viveva come propria condanna ma anche come colpa verso il marito. Oggi, gli accertamenti cli­nici possibili anche sull'uomo inducono ad attri­buire le cause di sterilità al 50 per cento alla don­na e al 50 per cento all'uomo; anzi si tende sem­pre più a parlare di «sterilità della coppia» e non di sterilità femminile o maschile. Le tesi del­la liberazione sessuale e del femminismo, inol­tre, hanno contribuito a superare l’identificazione della femminilità e della virilità con la procrea­zione. Per tutti questi motivi si attenua nella cop­pia il bisogno di adottare un bambino il più pos­sibile simile a sé, tale cioè da poter sembrare biologico. Anche l'adozione di un bambino italia­no, del resto, è accettata sempre più come tale, senza far ricorso a stratagemmi per dare a crede­re che il figlio sia naturale. Questo atteggiamento nuovo verso l'adozione spiana la via all'accetta­zione di un figlio con tratti somatici diversi, e quindi indiscutibilmente non-biologico.

Gli elementi che abbiamo individuato vanno ovviamente considerati come linee di tendenza lungo cui si muove la nostra cultura, più che co­me acquisizioni piene dei singoli individui. E, in ogni caso, alle convinzioni accolte a livello ra­zionale non sempre corrisponde un'assimilazione a livello profondo, tale da escludere dubbi e timo­ri. Questo sia per quanto riguarda le coppie che chiedono l'adozione internazionale, sia per quan­to concerne gli stessi operatori sociali che han­no il compito di indagare sulla disponibilità delle coppie. Anche gli operatori, di fronte ai bambini provenienti da altri paesi, sono spesso coinvolti personalmente in modo profondo e sono portati inevitabilmente ad affrontare le tematiche della adozione internazionale con forti cariche emotive (simili a quelle vissute dagli aspiranti-genitori) che rendono difficile una lettura razionale dei fatti.

Chi deve accertare l'effettiva disponibilità di una coppia ad assimilare un figlio con tratti so­matici diversi, è dunque costretto a scandagliare in un terreno molto incerto. D'altro canto, quel «sano» rapporto fra genitori e figlio adottivo che è indispensabile alla crescita e all'autonomia di ogni bambino, lo è ancor più per il bambino che viene inserito in un contesto culturale diverso da quello di nascita. Si impone quindi un'indagine molto scrupolosa sulle motivazioni che la coppia porta a sostegno della richiesta di un'adozione internazionale.

Generalmente, la prima motivazione verbaliz­zata è di tipo ideologico e umanitario, quasi a giustificare il proposito di volere un figlio stra­niero. Il bisogno di avere un figlio per colmare un desiderio istintivo di maternità-paternità emerge invece in seguito, e spesso deve esser messo in luce proprio dall'operatore sociale. È dunque sulle esplicitate motivazioni di tipo ideo­logico che occorre «lavorare». Come in ogni ri­chiesta di adozione, anche - e forse più - nel caso dell'adozione internazionale si può annida­re, dietro alle motivazioni di tipo ideologico, il desiderio di compensare frustrazioni derivanti da una scadente opinione di sé e da un'analisi ne­gativa della propria realtà. Una premessa di que­sto tipo è carica di rischi perché il bambino vie­ne investito di aspettative e di richieste che non gli competono.

Esistono però anche altri aspetti, più propria­mente legati all'adozione internazionale, che non possono essere sottovalutati. Nella coppia che chiede un figlio somaticamente diverso da sé emergono spesso fantasie specifiche, legate sia ai genitori naturali, sia al bambino stesso. I ge­nitori biologici del bambino sono spesso idealiz­zati, assimilati globalmente alla popolazione del paese d'origine e non considerati come persone reali. Questo induce a giustificarli per l'abbando­no del figlio, a porsi meno dubbi sull'ereditarietà genetica ed anche ad accettare bambini non pic­colissimi, come se i primi anni vissuti in un am­biente diverso e lontano non esistessero. Al tempo stesso, il fatto che i genitori biologici del bambino appartengano ad una realtà remota, ras­sicura contro il rischio che possano emergere all'improvviso per «reclamare» il figlio. Proprio perché lontanissimi, non conoscibili, essi risul­tano insomma più facili da accettare, meglio ancora da cancellare. Ma spesso le ansie della coppia adottiva si trasferiscono sul paese d'ori­gine del bambino: gli aspiranti genitori vivono l'adozione internazionale come sradicamento del bambino dalla terra d'origine e paventano che, un domani, il figlio possa voler far ritorno ad essa (quasi che la terra «reclami» il bambino, come potrebbe fare una madre biologica).

Il bambino stesso, per le sue caratteristiche somatiche diverse da quelle della coppia adot­tante, potrebbe essere vissuto come un compro­messo fra un figlio e un non figlio: un figlio che, in futuro, i nuovi genitori potrebbero anche ripu­diare qualora non risultasse conforme ai progetti. Non è un caso se le preferenze si indirizzino alle bambine: il maschio, in quanto continuatore del nome di famiglia, risulterebbe «troppo figlio» e quindi compromettente per il buon nome dei ge­nitori.

Si tratta di realtà sottili, spesso impalpabili, ma molto vischiose: è facile che l'operatore so­ciale stesso si lasci prendere dalle proprie fan­tasie o ideologie e viva il colloquio con gli aspi­ranti all'adozione internazionale in modo strano, diverso da quando ha di fronte una coppia che aspira all'adozione nazionale.

Viceversa, lo sforzo deve essere proprio quello di rapportarsi alla coppia che chiede un'adozione internazionale così come ci si rapporta ad ogni altra coppia: è l'unica via per cogliere il bisogno­desiderio di un figlio, indipendentemente dalla sua provenienza e dalla sua somiglianza o diver­sità somatica.

Una volta colto questo desiderio, avvertendo quasi il «piacere» di avere un figlio, l'operatore sociale deve in qualche modo ritornare sui propri passi per compiere un esame più approfondito e per mettere gli aspiranti genitori di fronte alle reali difficoltà che l'adozione internazionale com­porta. Si tratta di capire se la coppia chiede que­sto tipo di adozione per scavalcare le proprie paure: quasi voglia mettere alla prova se stessa, compiendo un passo più grande di quello che sa­rebbe ragionevole per le proprie forze, nel timore di non essere all'altezza.

Si tratta anche di ragionare obiettivamente sulle difficoltà di inserimento che il bambino in­contrerà nella famiglia allargata, negli ambienti di socializzazione cui via via accederà (la scuola, il gruppo dei pari, l'ambiente di lavoro, ecc.). La sicurezza con cui il bambino straniero si propor­rà ai diversi ambienti è direttamente proporzio­nale alla certezza e alle conferme del proprio valore che avrà in famiglia, dai genitori. Ma a loro volta i genitori sono sottoposti a continue verifiche della scelta fatta e delle sicurezze rag­giunte, mano a mano che il figlio cresce ed entra in contatto con ambienti sociali più ampi, dove i mutamenti culturali cui si accennava all'inizio non sono certamente assimilati come sarebbe desiderabile. Avvertire che la società considera «diverso» il proprio figlio può stimolare i geni­tori ad una maturazione più profonda e ad una più piena accettazione del figlio stesso, di cui di­ventano complici. Ma se ciò non avviene, o se avviene in misura diversa nei due componenti la coppia, può essere motivo di lacerazioni e di pro­blemi per il figlio, che non potrà arrivare ad una identificazione positiva e ad un livello di autosti­ma soddisfacente.

Si tratta, in sintesi, di guardare all'adozione internazionale con realismo, senza sottovalutarne i problemi peculiari. La buona volontà con cui, spesso, si cerca di convincersi che non esistono difficoltà, perché i bambini sono tutti uguali e ugualmente capaci di farsi amare, può essere un tranello di cui, presto o tardi, le famiglie e so­prattutto i bambini potrebbero fare le spese. An­che questo è un motivo per impegnarsi contro le adozioni internazionali troppo facili, più o meno «selvagge», che vengono fatte direttamente da coppie che si recano all'estero o tramite organiz­zazioni che agiscono puramente con criteri pie­tistici.

 

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