Prospettive assistenziali, n. 54, aprile - giugno 1981

 

 

SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE SUI RAPPORTI TRA ADOZIONE SPECIALE E ORDINARIA

 

 

Pubblichiamo la sentenza n. 11 del 29 gennaio 1981 della Corte Costituzionale che è importan­te non solo perché riconferma la preminenza dell'adozione speciale su quella ordinaria, ma anche perché risolve positivamente la vicenda della piccola Stefania (V. Prospettive assistenziali n. 46 «La Corte di Cassazione favorisce il mercato dei bambini?»).

 

 

TESTO DELLA SENTENZA

 

La Corte Costituzionale composta dai signori: Avv. Leonetto Amadei, Presidente - Dott. Giulio Gionfrida - Prof. Edoardo Volterra - Dott. Michele Rossano - Prof. Antonino De Stefano - Prof. Leo­poldo Elia - Prof. Guglielmo Roehrssen - Avv. Oronzo Reale - Dott. Brunetto Bucciarelli Ducci - Avv. Alberto Malagugini - Prof. Livio Paladin - Dott. Arnaldo Maccarone - Prof. Antonio La Pergo­la - Prof. Virgilio Andrioli, Giudici,

ha pronunciato la seguente

sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 296, 311, 312, n. 3, e 314/17 cod. civ. e dell'art. 3 della legge 5 giugno 1967, n. 431 (adozio­ne di minorenni), promosso con ordinanza emes­sa il 20 luglio 1979 dalla Corte d'appello di Torino - Sezione speciale per i minorenni, sui ricorsi riu­niti proposti da M.G. e S.V., iscritta al n. 828 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzet­ta Ufficiale della Repubblica n. 325 del 28 novem­bre 1979.

Visto l'atto di costituzione di M.G. e S.V.;

visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 15 ottobre 1980 il Giudice relatore Leopoldo Elia;

udito l'avv. Luigi Maniscalco Basile per M.G. e S.V. e l'avvocato dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto:

 

1. - Con ordinanza emessa il 20 luglio 1979 la Corte d'appello di Torino sollevava questione di costituzionalità dell'art. 314/17 del codice civile (nella parte in cui stabilisce che «lo stato di adottabilità cessa per adozione») dubitando fos­se lesiva degli interessi e dei diritti del minore (riconosciuti e garantiti dagli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 30, secondo comma, 31, secon­do comma, della Costituzione) la preferenza che viene accordata alla adozione ordinaria rispetto a quella speciale, seguendo l'ipotesi interpreta­tiva, peraltro imposta nello specifico procedimen­to da sentenza della Suprema Corte, secondo cui la stato di adottabilità cessa anche a seguito di adozione ordinaria. In tal modo infatti sarebbe possibile mediante un procedimento più rapido, in cui larga parte assume il momento negoziale, mettere nel nulla un procedimento complesso, avente natura più marcatamente pubblicistica, già iniziato, volto a garantire, attraverso opportune soluzioni ed efficaci controlli, il diritto alla fami­glia del minore in istato di abbandono; così inter­rompendo un rapporto di affidamento eventual­mente in atto, al di fuori di ogni valutazione dell'effettivo interesse del minore e senza poter con­trastare eventuali mercanteggiamenti dei genito­ri naturali.

L'istituto dell'adozione speciale sarebbe diret­ta attuazione dei principi costituzionali in mate­ria di tutela dei diritti del minore (artt. 2, 3, se­condo comma, 30, secondo comma, 31, secondo comma), secondo quel che la Corte costituzionale e la Cassazione hanno già in varie circostanze affermato (Corte costituzionale, sentenza n. 234 del 1975; Corte di cassazione, sentenza 13 gen­naio 1978, n. 156), e dunque dovrebbe godere di un trattamento privilegiato rispetto all'adozione ordinaria, che risponderebbe prevalentemente all'interesse dell'adottante ed a motivazioni pa­trimoniali. L'ingiustificata prevalenza che il siste­ma legislativo finisce con l'accordare alla adozio­ne ordinaria verrebbe a creare anche una spere­quazione arbitraria tra minore e minore e, dun­que, violerebbe il principio di eguaglianza.

La Corte d'appello di Torino, con la medesima ordinanza, sollevava altresì questione di legitti­mità costituzionale dell'art. 3 della legge 5 giu­gno 1967, n. 431, recante «Modifiche al titolo VIII del libro I del codice civile "Dell'adozione" ed inserimento del nuovo capo III con titolo "Dell'adozione speciale"», e dell'art. 311 del codice civile, in quanto, stabilendo per l'adozione ordi­naria la competenza del tribunale per i minoren­ni del luogo di residenza dell'adottante, anziché dell'adottando, come è previsto per l'adozione speciale, aprirebbe la via ad una duplicità di procedimenti, a cognizioni in conseguenza parziali ed incomplete, oltreché alla facile elusione delle garanzie previste per l'adozione speciale e viole­rebbe così il principio costituzionale secondo cui nessuno può essere sottratto al giudice naturale precostituito per legge (art. 25, primo comma, della Costituzione).

Tale normativa contrasterebbe inoltre con il principio di eguaglianza, diversamente regolando situazioni analoghe di minori, in conseguenza di un elemento (residenza dell'adottante) estraneo ai loro interessi, oltreché con le norme già citate della Costituzione (artt. 2, 3, secondo comma, 30, secondo comma, 31, secondo comma) dato che si tradurrebbe in ostacolo a beneficiare dell'istituto dell’adozione speciale che di tali norme costitu­zionali, come si è accennato, costituisce attua­zione.

Con i medesimi valori costituzionali contraste­rebbe anche il combinato disposto degli artt. 296 e 311 del codice civile, che condizionano al con­senso del legale rappresentante del minore l'ado­zione ordinaria quando il minore non ha raggiun­to l'ottavo anno di età e il minore versa in istato di abbandono ed anche quando il consenso sia lo strumento adoperato dal genitore per abbando­nare il figlio affidandolo a terzi, così rendendo possibile l'elusione delle garanzie previste per l'adozione speciale. Tale normativa violerebbe anche l'art. 3, prima comma, della Costituzione, per le ingiustificate sperequazioni che determi­nerebbe tra minori e minori, non correlate al loro interesse.

Del pari in contrasto con gli artt. 2, 3, secondo comma, 36; secondo comma, 31, secondo comma, della Costituzione si paleserebbe l'art. 312, n. 3 del codice civile, in quanto la valutazione della convenienza per il minore della adozione ordina­ria che tale norma impone non comporterebbe un confronto con la (eventualmente maggiore) convenienza dell'adozione speciale, seconda quanto emerge anche dalla sentenza della Cas­sazione cui il giudice a quo, quale giudice di rin­vio, è vincolato.

Nel caso di specie la madre aveva riconosciu­to come figlia naturale una minore in precedenza abbandonata ed immediatamente dopo l'aveva trasportata da Torino a Palermo per consegnarla, previa manifestazione di consenso all'adozione ordinaria, a due coniugi palermitani (G.M, e V.S.). Il Tribunale di Torino ordinava l'immediata resti­tuzione della minore all'IPIM (Istituto provinciale per l'infanzia e la maternità) con decreto in data 15-16 marzo 1976 e, subito dopo, dichiarava lo stato di adottabilità (decreto emesso il 24 marzo 1976 e confermato con sentenza 24 giugno-31 lu­glio 1976 del medesimo tribunale che respingeva l'opposizione proposta dalla madre). Con provve­dimento 12 giugno-16 luglio 1976 il Tribunale per i minorenni di Torino disponeva l'affidamento a due coniugi torinese (R.F. e D.G.L.); con decreto 22-26 luglio 1977 il medesimo tribunale dispone­va l'affidamento preadottivo ai detti coniugi e con decreto 29 settembre-3 ottobre 1978 decide­va farsi luogo all'adozione speciale.

Era stata nel frattempo rigettata l'impugnazio­ne avverso la sentenza che dichiarava lo stato di adottabilità dalla Corte di appello di Torino con sentenza 14 dicembre 1976-19 gennaio 1977, pre­via dichiarazione di inammissibilità dell'interven­to in appello dei coniugi M.-S. Era stato poi riget­tato il successivo ricorso in Cassazione con sen­tenza della Suprema Corte 12 luglio 1977-26 gen­naio 1978, n. 156, che, confermata l'inammissibi­lità dell'intervento dei coniugi adottanti con rito ordinario, affermava, tra l'altro, il principio se­condo cui, nell'affidamento a terzi di minori di otto anni da parte del genitore a scopo di ado­zione, possono ravvisarsi gli estremi di un abban­dono, che giustifica la dichiarazione di adottabi­lità; precisava anzi che «non è il Tribunale di To­rino ad avere indebitamente interferito nel proce­dimento di adozione ordinaria iniziato in frode alla legge sull'adozione speciale, ma sono stati i giudici palermitani a muoversi inavvedutamen­te, escludendo una situazione di abbandono che alla stregua dei principi giuridici che si sono ve­nuti enucleando, avrebbero dovuto riconoscere, ed avallando invece la manovra chiaramente in­tesa a soddisfare i M. nella aspirazione ad adot­tare una neonata aggirando il divieto della legge, ed evitando il giudizio attitudinale».

Il Tribunale di Palermo aveva, d'altra parte, respinto la domanda di adozione ordinaria con decreto 23 marzo 1976, confermato in data 21 aprile 1976 dalla Corte d'appello di Palermo. Se­nonché tale Corte (sezione minorenni) successi­vamente (con decreto 2-25 marzo 1977) revocava la precedente pronunzia ed, in riforma del decre­to 23 marzo 1976 del Tribunale per i minorenni di Palermo, disponeva farsi luogo all'adozione ordi­naria della minore.

I coniugi adottanti, sulla base di tale provvedi­mento, chiedevano che il Tribunale per i mino­renni di Torino disponesse la consegna a loro favore della minore medesima. Con decreto 8 aprile 1977 il tribunale dettava disposizione sull'esercizio della patria potestà nel corso del pro­cedimento vietando che la minore fosse conse­gnata ai coniugi M.-S. e che fosse consentito a costoro di incontrarla. Il gravame proposto con­tro tale provvedimento era rigettato dalla Corte d'appello di Torino con decreto in data 13-18 giu­gno 1977.

Due nuovi ricorsi presentati al Tribunale per i minorenni di Torino e tendenti ad ottenere, fra l'altro, la cessazione dello stato di adottabilità e l'annullamento del decreto con cui si era dispo­sto l'affidamento della minore erano rigettati con decreto 3-8 giugno 1977. Il reclamo ex art. 739 del codice di procedura civile, avverso quest'ulti­mo provvedimento, veniva rigettato dalla Corte d'appello con decreto 27 settembre-6 ottobre 1977 e l'appello era dichiarato improponibile con de­creto 25 ottobre-2 novembre 1977.

Tutti e tre i provvedimenti della Corte d'appel­lo sfavorevoli agli istanti erano investiti da ricor­so in Cassazione. La Suprema Corte, con senten­za 3 ottobre 1978-19 gennaio 1979, n. 399, dichia­rava inammissibile il ricorso contro il provvedi­mento relativo al decreto del tribunale che rego­lava l'esercizio della patria potestà, stante il ca­rattere non decisorio e non irrevocabile di que­st'ultimo, ed accoglieva il ricorso contro il de­creto 27 settembre-6 ottobre 1977 della Corte d'appello, cassando il provvedimento impugnato ed enunziando il principio secondo cui «la dichia­razione definitiva di adozione ordinaria di un mino­re nel corso di un procedimento di adozione spe­ciale, cui lo stesso sia sottoposto, determina la cessazione dello stato di adottabilità già dichiara­to e preclude l'ulteriore corso del procedimento». Dichiarava assorbito il ricorso contro il provve­dimento di improponibilità adottato dalla Corte d'appello (di cui si è fatto cenno).

Nel corso del giudizio di rinvio, riassunto dai coniugi M.-S. (adottanti con rito ordinario), questi chiedevano la consegna della bambina e l'annul­lamento degli atti compiuti nel procedimento per adozione speciale. Si opponevano i coniugi adot­tanti con adozione speciale (R.-D.G.), in tale sede intervenuti, i quali non solo eccepivano l'illegit­timità costituzionale della normativa in vigore ma facevano presente di aver proposto azione di nullità innanzi al Tribunale di Palermo del decreto di adozione ordinaria per motivi di forma e di sostanza. Chiedevano quindi anche la sospensio­ne del procedimento in corso in attesa dell'esito dell'azione iniziata.

Il curatore speciale, nel frattempo nominato, interveniva a sostegno della tesi dei coniugi affi­datari.

La Corte d'appello di Torino, riservata ogni de­cisione sull'ammissibilità degli interventi, solle­vava la questione di costituzionalità di cui si è fat­to cenno ritenendola pregiudiziale anche rispetto alla pronunzia sulla richiesta sospensione in at­tesa dell'esito dell'azione di nullità del decreto di adozione ordinaria, dato che la questione me­desima «investe anche la materia di quel giu­dizio».

L'ordinanza, regolarmente comunicata e notifi­cata, veniva pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 325 del 28 novembre 1979.

2. - Si costituivano i coniugi M.-S. i quali ec­cepivano l'irrilevanza delle questioni relative agli artt. 311, 296, 312, n. 3 del codice civile, perché non applicabili nel processo a quo e già appli­cati in altro procedimento giudiziario con pro­nunzia non più impugnabile. Deducevano l'infon­datezza nel merito delle questioni relative all'art. 314/17 del codice civile, oltreché delle questioni relative alle norme poc'anzi menzionate.

Avendo il legislatore considerato possibile l'a­dozione ordinaria anche per i bambini minori di otto anni, non si può ritenere il consenso del genitore ad essa equivalente ad un atto di abban­dono. L'adozione speciale, d'altra parte, si giusti­fica solo ove i genitori abbiano completamente abbandonato i figli minori, non anche quando prov­vedano ad essi sia pure affidandoli a persone che li adottino. Tutto ciò non sacrificherebbe gli in­teressi ed i diritti dei minori perché la pronunzia di adozione ordinaria può essere emessa solo previa valutazione della convenienza per l'adot­tato (art. 312, n. 3, cod. civ.) avendo riguardo an­che, contrariamente a quel che ritiene la Corte d'appello di Torino, ai vantaggi che, nel caso con­creto, potrebbe offrire l'adozione speciale; sal­vaguarderebbe, al tempo medesimo, i diritti della famiglia naturale, fin troppo trascurati dall'istituto dell'adozione speciale (al punto che potrebbe du­bitarsi della conformità di alcuni aspetti dell'isti­tuto ai dettami dell'art. 29 della Costituzione). Nel conflitto, in ogni caso, tra due diritti costituzio­nalmente garantiti il sacrificio dell'uno sarebbe legittimo solo a condizione che sia necessario e cioè che non sia possibile un contemperamento.

La competenza del giudice dell'adozione ordinaria è stabilita con norma generale ed astratta e ciò varrebbe a garantire il rispetto di quanto prescrive l'art. 25, primo comma, della Costitu­zione; la scelta operata dal legislatore risultereb­be inoltre ragionevole, avendo riguardo ai fini dell'istituto, attesoché nel procedimento si deve accertare non lo stato di abbandono del minore, ma, tra l'altro, la buona fama di colui che intende procedere all'adozione.

Interveniva il Presidente del Consiglio dei mi­nistri, attraverso l'Avvocatura dello Stato, svol­gendo analoghe eccezioni di irrilevanza ed analo­ghi rilievi di infondatezza. Sottolineava in parti­colare l'intervenuta evoluzione legislativa dell'istituto dell'adozione ordinaria che ne fa uno strumento di tutela del minore e non più solo un mezzo per assicurare la discendenza a persone anziane e garantire un diritto ereditario all'adot­tato; sarebbero segni di ciò la possibilità di far luogo all'adozione ordinaria anche mancando l'assenso dei genitori dell'adottando, qualora il ri­fiuto sia ingiustificato e contrario all'interesse dell'adottando (art. 297), ed il dovere di valutare se l'adozione conviene all'adottando, prima di procedere ad essa (art. 312, n. 3 cod. civ.).

Nell'udienza di discussione le parti costituite ribadivano le rispettive tesi.

 

Considerato in diritto:

1. - La Corte d'appello di Torino - sezione speciale per i minorenni - pronunziando come giudice di rinvio a seguito della sentenza della Corte di cassazione 3 ottobre 1978-19 gennaio 1979, n. 399, ha sollevato questione di legittimità costituzionale:

- dell'art. 314/17 del codice civile (nella parte in cui dispone che «lo stato di adottabilità cessa per adozione») in riferimento agli artt. 2, 3, pri­mo e secondo comma, 30, secondo comma e 31, secondo comma, della Costituzione;

- degli artt. 3 della legge 5 giugno 1967, n. 431 e 311 del codice civile (nel loro combinato disposto sul punto della competenza in ordine all'adozione ordinaria) in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 25, primo comma, 30, secondo comma e 31, secondo comma, della Co­stituzione;

- degli artt. 296 e 311 del codice civile (nel loro combinato disposto sul punto del consenso all'adozione ordinaria del legale rappresentante dell'adottando minore) in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 30, secondo comma e 31, secondo comma, della Costituzione;

- dell'art. 312, n. 3 del codice civile (sul pun­to della verifica se l'adozione ordinaria convenga all'adottando) in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 30, secondo comma e 31, se­condo comma, della Costituzione.

2. - Peraltro le questioni sollevate in ordine agli artt. 296, 311, 312, n. 3 del codice civile e all'art. 3 della legge 5 giugno 1967, n. 431, non possono considerarsi rilevanti ai fini del presente giudizio, in quanto attengono alla competenza e ai poteri del tribunale per i minorenni del luogo di residenza dell'adottante ed al consenso dei genitori del minore adottando nell'adozione ordi­naria; infatti a tali norme si è già data applica­zione in altre sedi, mentre la Corte d'appello di Torino trova una precisa delimitazione al tema del suo decidere nel principio di diritto enunziato dalla Cassazione, che attiene alla cessazione dello stato di adottabilità nel procedimento di adozione speciale, a seguito di «dichiarazione definitiva» della adozione ordinaria.

3. - Certamente applicabile nel giudizio a quo è invece l'art. 314/17, nella par-te sopra indicata. Tale norma dev'essere valutata, ai fini del sinda­cato di costituzionalità, secondo l'interpretazio­ne adottata dalla Corte di cassazione in sede di enunciazione del principio di diritto e, al riguardo, non si può ritenere che il regime delle preclusio­ni, proprio nel giudizio di rinvio, impedisca la pro­posizione delle questioni di legittimità costitu­zionale in ordine a quella norma dalla quale è stato tratto il principio di diritta cui deve unifor­marsi il giudice di rinvio (cfr. da ultimo la sen­tenza n. 138 del 1977 di questa Corte). Né la prio­rità attribuita dalla Corte di Torino alle questioni di legittimità costituzionale rispetto all'altra pre­giudiziale (parimenti rilevabile d'ufficio, e rela­tiva alla sospensione o meno del procedimento instaurato in sede di rinvio in attesa della defini­zione della causa per la dichiarazione di nullità dell'adozione ordinaria di G. Stefania, promossa dai coniugi R.-D.G. presso altro giudice) può es­sere rimessa in dubbio dalla affermata irrilevanza delle questioni di legittimità costituzionale circa le norme in tema di adozione ordinaria; in effetti la sospensione non può avere carattere pregiudi­ziale rispetto alla quaestio di cui all'art. 314/17, primo comma, del codice civile, risultando evi­dente che l'accoglimento di questa impedirebbe alla pronunziata adozione ordinaria di produrre gli effetti relativi sul procedimento di adozione speciale e precluderebbe così il condizionamento del giudizio a quo all'esito della causa promossa con la quaerela nullitatis.

La questione di legittimità costituzionale sol­levata in riferimento all'art. 314/17, primo com­ma, del codice civile è dunque da ritenersi rile­vante; ed essa risulta fondata.

4. - Com'è noto, con il nome generale di «adozione» si designano già nelle fonti romane e medioevali istituti assai diversi. Nell'epoca mo­derna (ma non mancano in quelle precedenti esperienze significative) vi si raccolgono disci­pline che rispondono tendenzialmente a finalità ben distinte in linea di principio, anche se non di rado congiunte nella realtà della vita e nelle previsioni normative: la finalità del provvedere un figlio e un erede a chi non abbia figli e si pre­sume non possa averne; e l'altra di allevare un cittadino allo Stato (come si diceva dopo la rivo­luzione francese) compiendosi un atto di benefi­cenza verso il minore, eventualmente designato poi all'adozione.

Il codice civile francese del 1804 ha per la prima volta inquadrato e regolato unitariamente l'istituto (artt. 343-360 del libro I) in conformità alle esigenze economiche e sociali dell'epoca moderna, e gli ha attribuito in via primaria scopi successori (richiedendo il consenso da parte dell'adottato, fornito di capacità di agire, e lascian­do inalterati i rapporti con la famiglia originaria, anche in ardine alla patria potestà). Tuttavia la disciplina del codice civile non ha ignorato gli scopi di carattere assistenziale ed educativo; co­sì, se l'art. 346 disponeva non potersi far luogo all'adozione prima della maggiore età dell'adot­tando, l'art. 361 prevedeva l'istituto della «tutela officiosa», che serviva normalmente da prologo all'adozione stessa. Secondo l'art. 364 la tutela poteva aversi solo a profitto di minori inferiori ai quindici anni; e dopo cinque anni, il tutore ufficioso, in previsione di morire prima della maggiore età del pupillo, poteva conferirgli l'ado­zione con atto di ultima volontà (art. 366).

Singolarmente isolata (anche nel panorama dei codici preunitari, nessuno dei quali richiedeva un minimo di età nell'adottando) è dunque la disciplina in proposito sia del codice albertino sia di quello unitario del 1865, perché, ricalcando nel resto la normativa del codice Napoleone, trascu­rava del tutto l'esigenza di allevare fin dalla pri­ma infanzia il figlio adottivo in seno alla nuova famiglia, esigenza corrispondente, oltreché a fina­lità filantropico-assistenziali, anche all'intento di supplire e meglio imitare la natura.

Non può stupire, perciò, che specie in occasio­ni di varie calamità collettive (a cominciare dal terremoto calabro-siculo), si proponessero mo­difiche rilevanti, dal punto di vista ora accenna­to, alla disciplina sull'età degli adottandi, fissata in anni diciotto; modifiche che introdusse il de­creto legge 31 luglio 1919, n. 1357, consentendo l'adozione degli orfani di guerra e dei trovatelli nati in quel periodo che non avessero raggiunto il limite di età (e quindi senza il loro consenso). Fu buon profeta chi ritenne che queste norme eccezionali (conversione in legge 6 dicembre 1925, n. 2137) contenessero il germe di provvide innovazioni da accogliere poi nel diritto civile comune.

Infatti il codice del 1942 estese a tutti i minori la possibilità di essere adottati (art. 296), ri­flettendosi peraltro tale innovazione non soltan­to in una modifica quantitativa delle possibilità di applicazione dell'istituto, ma in un suo muta­mento qualitativo in ordine alle finalità e alla struttura. Ciò che nelle disposizioni eccezionali del 1919 era un rimedio reso necessario dalla condizione degli orfani di entrambi i genitori e dei trovatelli (e cioè il conferimento all'adottante dei poteri e dei doveri attribuiti al tutore dalla legge 18 luglio 1917, n. 1143) diventava con l'art. 301, primo comma, del nuovo codice una radicale alterazione della precedente disciplina rispetto ai genitori naturali consenzienti all'adozione: la patria potestà sull'adottato minorenne spettava così all'adottante, dandosi seguito ad una propo­sta contenuta nella relazione del 1931 della Com­missione reale per la riforma del codice civile, secondo cui «l'adozione opera di fatto il distac­co dell'adottato dalla famiglia di origine e la sua assunzione in quella che l'adottante tende ... a costituirsi con esso ed i suoi discendenti».

Ora, con tale riforma, non solo ci si è allonta­nati dallo schema del codice napoleonico ma si sono affiancate normative assai diverse, attinen­ti l'una all'adozione dei maggiori, l'altra alla ado­zione dei minori di età. D'altra parte l'accogli­mento nel nuovo codice dell'istituto dell'affilia­zione, nettamente distinto dall'adozione (anche se sostenuto nei lavori preparatori con la formula della «piccola adozione»), indicava chiaramente la volontà del legislatore di soddisfare, insieme con l'affidamento dei minori previsto dall'art. 404 del codice civile, esigenze ritenute in parte co­muni con quelle cui rispondeva l'adozione estesa ai minori, giudicata peraltro troppo impegnativa e, comunque, possibile soltanto in difetto di prole.

Le successive innovazioni in tema di adozione ordinaria hanno accentuato la possibilità di uti­lizzare l'istituto a fini assistenziali ed educativi: così l'abbassamento dell'età degli adottanti (art. 291, cod. civ.), la previsione di una pluralità di adottati (art. 294, cod. civ.), la normativa sulla competenza (artt. 311 e 313, cod. civ.). A queste significative modifiche, disposte con la legge 5 giugno 1967, n. 431, ha fatto seguito, nell'ambito della riforma del diritto di famiglia attuata con la legge 19 maggio 1975, n. 151, la nuova disciplina dell'assenso all'adozione da parte dei genitori dell'adottando, assenso del quale può prescinder­si in talune circostanze, quando essi non eserci­tino la potestà che ad essi compete (art. 297, cod. civ.).

Tuttavia la maggiore riforma sopravvenuta in questo campo è sicuramente rappresentata dalla legge 5 giugno 1957, n. 431, che ha inserito nel titolo VIII del libro I del codice civile un nuovo capitolo terzo intitolato «Dell'adozione speciale». Questo complesso normativo, chiaramente indi­rizzato alla tutela dell'interesse del minore infra­ottenne in stato di abbandono, interesse conside­rato in posizione di preminenza rispetto a tutti gli altri, compresi quelli dei genitori naturali, si caratterizza per alcuni tratti decisamente innova­tori: a) ampi poteri degli organi giurisdizionali cui spetta accertare lo stato di abbandono del mi­nore, adottando i migliori mezzi per porvi rime­dio; b) applicazione più conseguente del criterio della imitazione della natura, intendendosi offrire al minore una famiglia sostitutiva che, per com­pletezza di ruoli - materna e paterno - e per l'età degli adottanti, meglio supplisca la famiglia di origine; c) miglior garanzia di riuscita dell'inserimento del minore nella nuova famiglia, giac­ché il provvedimento di adozione speciale deve essere preceduto da un periodo di affidamento preadottivo, di natura esplicitamente sperimen­tale; d) la scelta degli adottanti più idonei in base ad un giudizio attitudinale tra le coppie di­sponibili all'adozione speciale; e) tra gli altri ef­fetti della adozione speciale, acquisto dello stato di figlio legittimo degli adottanti e cessazione dei rapporti dell'adottato verso la famiglia di origine (salvi i divieti matrimoniali e le norme penali fon­date sul rapporto di parentela).

5. - Si suol dire che la riforma del 1967 ha spostato il centro di gravità dell'adozione dall'in­teresse dell'adottante a quello dell'adottato. Ed è innegabile che a livello di legislazione ordina­ria la legge n. 431 ha alterato a favore del minore l'equilibrio che poteva ormai riconoscersi, nell'a­dozione ordinaria per i minori, tra l'interesse di chi si continua attraverso un figlio - erede e l'in­teresse del minore ad essere allevato ed educato in condizioni più vantaggiose. Ma lo spostamen­to del centro di gravità dell'istituto era impo­sto ancor prima sul piano superiore della nor­mativa costituzionale, per il combinato disposto degli artt. 2 e 30, primo e secondo comma, della Costituzione. Queste norme, riconoscendo come fine preminente lo svolgimento della personalità in tutte le sedi proprie, assumono a valore prima­rio la promozione della personalità del soggetto umano in formazione e la sua educazione nel luo­go a ciò più idoneo: da ravvisare in primissima istanza nella famiglia di origine, e, soltanto in caso di incapacità di questa, in una famiglia so­stitutiva. L'art. 30, secondo comma, della Costi­tuzione, prevede infatti il dovere del legislatore e dell'autorità pubblica in generale di predisporre quegli interventi che pongano rimedio nel modo più efficace al mancato svolgimento dei loro com­piti da parte dei genitori di sangue: e cioè alle funzioni connesse al dovere-diritto di mantene­re, istruire ed educare i figli. Ma la finalità di una educazione sostitutiva al meglio comporta la sod­disfazione del bisogno di famiglia avvertito con forza dal minore, che richiede per la sua cre­scita normale affetti individualizzati e continui, ambienti non precari, situazioni non conflittuali.

Del resto, anche sulla base di ben noti docu­menti di organismi internazionali (né è casuale che la legge n. 431 del 1967 sia stata preceduta di pochi mesi dalla firma a Strasburgo della Con­venzione europea in materia di adozione dei mi­nori), deve procurarsi al minore, mediante l'ado­zione, «un foyer stable et harmonieux» (art. 8, n. 2 Convenzione europea - ratificata e resa esecutiva in base a legge 22 maggio 1974, n. 357).

Se dai dati normativi presenti nel nostro ordi­namento a livello costituzionale e legislativo ri­sultano il dovere-diritto dei genitori d'origine ed il dovere dello Stato di predisporre le condizioni in cui possa meglio realizzarsi il diritto del mino­re all'educazione e all'educazione in famiglia, non si possono trascurare talune conseguenze: così il carattere «funzionale» del diritto dei genitori del sangue, che sta e vien meno in relazione alla capacità di assolvere i compiti previsti nel primo comma dell'art. 30 della Costituzione; il carattere di «effettività» che deve rivestire l'assolvimen­to dei compiti stessi, non delegabili ad altri e dunque da svolgersi con impegno personale e di­retto; infine il carattere di «adeguatezza» (cfr. sentenza n. 145 del 1969, in fine) che deve presie­dere alla individuazione della famiglia sostitutiva - quando trovi applicazione l'art. 30, secondo comma, della Costituzione - il che comporta la ricerca della soluzione ottimale «in concreto» per l'interesse del minore, quella cioè che più garantisca, soprattutto dal punto di vista morale, la miglior «cura della persona».

6. - La posizione preferenziale riconosciuta alla situazione soggettiva del minore in sede di art. 30, primo e secondo comma, della Costitu­zione non ha mancato di riflettersi, come si è visto, sulla disciplina legislativa delle varie for­me di adozione. Per quella speciale è superflua ogni ulteriore considerazione in merito, essendo unanime, in giurisprudenza ed in dottrina, il rico­noscimento che la legge n. 431 del 1967 rappre­senta un esempio di legge chiaramente ispirata a precetti costituzionali (cfr. da ultima sentenza n. 234 del 1975).

Ma, come si è detto, anche la normativa sulla adozione ordinaria dei minori è stata modificata nel periodo 1967-1975, nel senso di consentire condizioni più favorevoli all'assistenza ed all'edu­cazione dei soggetti adottati nonché al loro inse­rimento nella famiglia adottiva: e le norme costi­tuzionali predette spiegano un'influenza non se­condaria nella formazione del giudizio di conve­nienza per l'adottando che tribunale dei minoren­ni e Corte d'appello (sezione corrispondente) deb­bono premettere alla emissione del decreto di adozione (art. 312, n. 3, cod. civ.). Si può dire che la normativa costituzionale ha esercitato una forte spinta tendente ad unificare le due forme di adozione per i minori sul piano delle finalità ad esse comuni, orientando giudici ed ammini­stratori (senza dire degli organi del potere legi­slativo) a far prevalere, nella maggiore misura possibile, la tutela degli interessi fondamentali del minore.

Questa tendenza unificante, promossa dalla Costituzione e dalia Convenzione europea del 1957, ha reso entro certi limiti compatibili i vari istituti previsti a favore dei minori dal codice del 1942 e dalla legge n. 431 del 1967 ed in partico­lare le due forme di adozione: ciò spiega perché già con la sentenza n. 158 del 1971 questa Corte abbia ritenuto «ben possibile ... che, sia pure ri­volti a finalità concorrenti o comuni, coesistano istituti distinti, quali l'affidamento e l'affiliazione, e le due forme di adozione, e le norme circa la assistenza pubblica all'infanzia abbandonata, ecc., e che la complessiva disciplina sia variamente articolata».

Peraltro la tendenza all'unificazione, pur agendo vigorosamente sul piano delle finalità degli istitu­ti e degli sviluppi interpretativi in sede giurispru­denziale e dottrinale, non era in grado di supera­re certi limiti rappresentati dalla profonda di­versità di struttura e soprattutto di procedimento caratterizzante le due forme di adozione. La coe­sistenza può quindi essere pacifica quando ad un unico giudice, territorialmente e funzionalmente competente, fanno capo il procedimento di ado­zione ordinaria e quello di adozione speciale, per modo che la concordanza pratica dei criteri si realizza attraverso la scelta del giudice, orientato a far precedere, nell'interesse del minore, l'una o l'altra serie procedimentale. Ma la coesistenza rischia di divenire fonte di conflitti, quando diver­si siano il giudice chiamato a pronunziare sull'a­dozione ordinaria (sede dell'adottante) ed il giu­dice competente a pronunziare sull'adozione spe­ciale e, prima ancora, sullo stato di adottabilità (sede dell'adottando).

È evidente che solo l'auspicata ed auspicabile revisione da parte del legislatore può rimuovere del tutto simili antinomie dal corpo dell'ordina­mento, attuando quell'opera coordinatrice e di ne­cessaria convergenza delle discipline richiesta dalla Costituzione, dalla Convenzione europea e dalla unità del sistema. Tuttavia in questo giu­dizio non si domanda alla Corte costituzionale di porre rimedio ad un mancato coordinamento le­gislativo, ma piuttosto di verificare se, alla luce degli artt. 2, 3 e 30, primo e secondo comma, del­la Costituzione, l'art. 314/17, primo comma, del codice civile (secondo l'interpretazione contenu­ta nel principio di diritto enucleato dalla Corte di cassazione) contrasti in modo positivo e di­retto con i parametri costituzionali ora evocati.

Si potrebbe forse nutrire qualche dubbio circa la consistenza del «supporto normativo» che so­stiene il risultato ermeneutico acquisito a questo proposito nella pronuncia che ha dato luogo al giudizio di rinvio; essendo quanto meno opinabile l'affermazione che lo stato di abbandono, da ac­certare nei confronti dei genitori di origine e dei parenti tenuti all'assistenza del minore, possa automaticamente venir meno, dopo la dichiara­zione dello stato di adottabilità, per il sopravve­nire del decreto di adozione ordinaria. Ma in rela­zione ai giudizi di rinvio non può certo discono­scersi la qualità di «diritto vivente» al principio di diritto affermato dalla Cassazione; secondo il quale, come si è già riferito nella parte in fat­to, la «dichiarazione definitiva» di adozione ordi­naria di un minore nel corso del procedimento di adozione speciale, cui lo stesso sia sottoposto, determina la cessazione dello stato di adottabi­lità già dichiarato.

Orbene, l'ammettere che il decreto di adozio­ne ordinaria possa ex se determinare la caduca­zione dello stato di adottabilità contrasta, se­condo questa Corte, con la particolare tutela ri­conosciuta al minore dall'art. 30, commi primo e secondo, della Costituzione.

In effetti non si vede come l'esito di un pro­cedimento che offre minori garanzie (tra l'altro il decreto di adozione ordinaria non deve essere motivato) possa ragionevolmente caducare gli effetti di un atto motivato, che conclude una serie procedimentale in cui i genitori di origine ed i parenti, tenuti all'assistenza del minore, hanno tutti i mezzi per provare la idoneità e disponibi­lità loro ad assolvere i compiti assistenziali ed educativi previsti in Costituzione. A differenza del decreto di adozione ordinaria, il decreto sullo stato di adottabilità, in sé e nello stato che pro­duce, è poi suscettibile di impugnazione e di re­voca, sicché la validità e la sussistenza dei suoi presupposti possono essere rigorosamente va­gliati.

Inoltre non si intende come, senza violare l'art. 30, secondo comma, della Costituzione, sia pos­sibile far prevalere sui procedimento certamente più «comprensivo» previsto per l'adozione spe­ciale quello in cui un solo soggetto o una sola coppia si propone come adottante: da una parte i requisiti di cui ai nn. 2) e 3) dell'art. 312 del codi­ce civile possono in concreto non equipararsi alle condizioni dell'adottabilità speciale, dall'altra la dichiarazione dello stato di adottabilità è all'ori­gine di sub-procedimenti (affidamento preadotti­vo e dichiarazione di adozione speciale) nei quali si cerca, con criterio comparativo e non assoluto (e cioè non in relazione ad un solo soggetto o ad una sola coppia), la soluzione migliore nell'inte­resse del minore ad una assistenza ed educazio­ne familiare.

La prevalenza accordata dall'art. 314/17, primo comma, del codice civile (secondo l'interpreta­zione della Cassazione) al provvedimento di ado­zione ordinaria non è dunque conforme ai principi costituzionali che impongono - anche sul piano della garanzia della difesa dei diritti in sede di giudizio - una adeguata tutela dell'infanzia quando sia necessario avvalersi di una famiglia sosti­tutiva di quella originaria; non assicura un tratta­mento ragionevolmente eguale di tutti i minori in stato di abbandono; ed infine, favorendo indiret­tamente la conclusione di vicende iniziate in chia­ra elusione delle norme sull'adozione speciale, può incentivare quel «mercato dei bambini» cui si oppongono non soltanto lo spirito e la lettera della nostra disciplina costituzionale e legislativa ma il comune sentire dei cittadini.

Coesistenza di istituti adottivi in ordine ad uno stesso soggetto di età infraottenne non può quin­di significare indifferenza dell'ordinamento riguar­do ai procedimenti più o meno idonei che ad essi si ricollegano, come ha ben visto la giurispruden­za della stessa Cassazione, specialmente nella pronunzia del 1978 ricordata nella parte in fatto: sicché non sarebbe in armonia con i principi co­stituzionali, ex art. 30, primo e secondo comma, della Costituzione, un'applicazione ad effetto au­tomatico del criterio di priorità temporale che sacrifichi il preminente interesse del minore alla ricerca della soluzione più adeguata per lo svi­luppo della sua personalità. Del resto, anche a voler insistere su considerazioni di ordine tem­porale, non sembra che debba parlarsi di possi­bilità di scelta tra la messa in opera dei due istituti soltanto ex ante, giacché, quando il pro­cedimento di adozione speciale ha dato luogo alla dichiarazione dello stato di adottabilità, è piutto­sto ex post che devono valutarsi gli effetti del decreto di adozione ordinaria.

Quanto si è detto non comporta, com'è evi­dente, una opzione in assoluto tra adozione spe­ciale e adozione ordinaria, perché, in concreto, può essere proprio questa forma dell'istituto adottivo ad offrire la soluzione più adeguata alle condizioni particolari di un minore infraottenne (dovendo tra l'altro il giudice valutare sempre la consistenza dei legami affettivi che si siano crea­ti col tempo tra il minore e la famiglia comunque affidataria). Ma ciò non significa che in sede di ricerca della soluzione più idonea per lo sviluppo educativo del minore si possa da parte del giu­dice rimettere in gioco la scelta a suo tempo compiuta dal legislatore, che fa discendere dalla pronunzia di adozione speciale la cessazione dei rapporti dell'adottato verso la famiglia di origi­ne; in particolare il mantenimento di tali rappor­ti non può essere invocato per giustificare l'auto­matica caducazione dello stato di adottabilità, previsto dall'art. 314/17, primo comma, del co­dice civile.

Le considerazioni di carattere più generale for­mulate in precedenza valgono peraltro, nella fatti­specie normativa sottoposta a questa Corte, in riferimento ad un thema decidendum qualificato in senso riduttivo sia dal principio di diritto enun­ziato dalla Cassazione sia dal profilo di rilevanza quale emerge dal giudizio a quo.

 

Per questi motivi

 

la Corte Costituzionale

dichiara l'inammissibilità, per difetto di rilevan­za, delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 296, 311, 312, n. 3, del codice civile e dell'art. 3 della legge 5 giugno 1967, n. 431, sol­levate con l'ordinanza di cui in epigrafe dalla Cor­te d'appello di Torino - sezione speciale per i minorenni - in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 25, primo comma, 30, secon­do comma, e 31, secondo comma, della Costitu­zione;

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 314/17, primo comma, del codice civile, nella parte in cui, anche quando l'adozione ordinaria è pronunciata da giudice diverso da quello com­petente per l'adozione speciale, dispone che lo stato di adottabilità cessa per adozione ordinaria.

 

 

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