Prospettive assistenziali, n. 55, luglio - settembre 1981
INDAGINE SULLA POVERTA'
NEI PAESI DELLA COMUNITA' EUROPEA
GIOVANNI SARPELLON
Il programma della CEE di azione contro la povertà
Con la fine del 1980 si é
concluso un programma sperimentale di «azione contro la povertà» che la
commissione della Comunità europea - in seguito ad una decisione del Consiglio
dei Ministri - aveva iniziato nel 1975. Paragonato alle altre iniziative
comunitarie, il programma contro la povertà è da considerare senz'altro fra le
meno importanti, sia per la quantità di risorse impiegate, che per la
limitata durata di realizzazione; per altri motivi, invece, esso è stato un'occasione
di notevole rilevanza politica e scientifica. Per la
prima volta, infatti, nell'Europa dei nove si è posto il problema della
povertà, della sua estensione e natura, e della necessità di porre in atto
delle politiche specifiche per contrastarla. Da un
punto di vista culturale una tale decisione ha significato l'abbandono di
quella prospettiva d'analisi che si basava sull'assunto che i problemi dell'arretratezza,
e della povertà, avrebbero trovato una soluzione grosso modo
automatica in seguito al realizzarsi di quei processi di sviluppo generale che
avevano preso avvio nel secondo dopoguerra. Affermare l'esistenza del «problema
povertà» nell'ambito comunitario significa infatti
dichiarare che lo sviluppo economico - in vista del quale la Comunità svolge
il suo ruolo principale - non garantisce non solo l'eliminazione della
disuguaglianza, ma neppure la scomparsa della conseguenza estrema di questa,
cioè della povertà. Così come, quindi, la Comunità è impegnata nel
perseguimento dello sviluppo, altrettanto essa deve intervenire per far
scomparire la povertà: e in ciò sta l'importante significato politico del programma
contro la povertà. Al riguardo, però, bisogna anche
aggiungere che il «clima politico» europeo è andato
mutando negli ultimi cinque anni e che, concluso questo primo programma, stanno
emergendo notevoli difficoltà per la sua prosecuzione e, soprattutto, per la
sua trasformazione in un settore di intervento di dimensione ed impegno
proporzionati alla gravità del problema.
In questi cinque anni di lavoro, infatti, è stato
possibile fare il punto sulla situazione della povertà
in Europa, sia per quanto riguarda i metodi d'intervento sociale che
relativamente alle conoscenze del fenomeno. studiato
in misura e maniera diverse nei vari paesi: ne è risultato un quadro alquanto
impressionante nel quale, oltre a venir confermata la situazione relativamente
più grave di alcuni paesi, emerge l'esistenza di un «problema povertà» anche
nelle regioni europee maggiormente sviluppate sia economicamente che
socialmente.
Il programma si è svolto su due livelli: da un lato è
stata realizzata una trentina di progetti-pilota di intervento
(finanziati metà-metà dalla CEE e dai governi nazionali) e dall'altro sono
stati effettuati alcuni studi su base internazionale (finanziati
completamente dalla CEE) allo scopo di arrivare ad una più precisa conoscenza
della situazione e della dinamica della povertà in Europa
(1). Fra questi ultimi particolarmente importante è
stata l'indagine sulla natura e le cause della povertà nei nove Paesi membri,
che si è svolta nell'arco di due anni, sulla base di un progetto di lavoro
unico (2).
L'indagine sulla povertà
L'idea di svolgere un'indagine a livello europeo
sulla povertà era emersa durante le riunioni del gruppo consultivo di esperti che seguiva la realizzazione del programma;
particolarmente si era venuta delineando l'importanza di disporre di una
conoscenza aggiornata e confrontabile dei problemi della povertà nei vari paesi
al momento in cui si cominciava a riflettere sugli esiti possibili del primo
programma e sui progetti da proporre per il futuro. La diversità dei dati
disponibili e dei metodi di analisi, oltre alla
stessa diversità di definizione della povertà, stavano infatti creando
notevoli difficoltà sia nel valutare la sîtuazione attuale che nel proporre un
intervento comunitario nel settore.
Il primo problema da affrontare nel proporre un'indagine
fu quello di individuare una concezione della povertà
accettabile per tutti. Schematizzando e semplificando l'ampia problematica su quest'argomento, fa scelta si ridusse fra tre tipi
principali.
Esiste anzitutto una povertà che in genere si qualifica
come «assoluta» o come povertà estrema. È la povertà
di coloro che hanno condizioni di vita tali da far
ritenere che la stessa sopravvivenza ne viene messa in pericolo. Il
riferimento a questo tipo di povertà viene normalmente
fatto dagli studiosi che basano le loro analisi su alcuni standards
- comunque definiti - di «minimo vitale»: coloro che si trovano al di sotto del
livello di «minimo vitale» vengono definiti poveri, tenendo conto che il
minimo può riguardare sia un particolare settore, come - per dire il più
semplice - il reddito a disposizione, sia l'insieme delle condizioni di vita,
in qualche modo rese omogenee e misurabili.
Per l'osservatore esterno, come per lo studioso, si
tratta di una povertà evidente, indiscutibile, che
spesso si designa anche con il termine «miseria», più esplicito ed
inequivocabile.
Il secondo tipo di povertà fa invece riferimento ad
una situazione di confronto: essa viene designata come situazione di
privazione relativa o, più semplicemente, come «povertà relativa».
In questo caso non è tanto il livello di vita in sé ad essere considerato,
quanto il confronto di esso con una situazione reale e
significativa. A ben vedere anche nella prima definizione - povertà assoluta -
si opera un confronto: la relazione in quel caso si stabilisce con ciò che viene
individuato come «livello di minimo vitale»; ma tale
livello non nasce dal nulla, bensì rappresenta una razionalizzazione di
condizioni di vita che, in un dato momento e luogo, vengono da alcuni definite
«minime». Non per niente nessuno pensa di confrontare le condizioni di vita medio-basse di un secolo fa con quelle d'oggi: chi non era
povera allora sarebbe forse oggi il più disgraziato dei miserabili. Ad ogni
buon conto bisogna tener presente che nella povertà assoluta il termine di confronto è così lontano ed
indiscusso che apparentemente viene dimenticato;
nella definizione invece della povertà
relativa il termine di confronto diventa essenziale, anche se non sempre è
ben identificato e può comunque mutare nel tempo e nello spazio.
La povertà assoluta, o miseria, richiama alla mente
una concezione della povertà in cui prevale piuttosto l'aspetto economico e
che, di conseguenza, richiede nell'immediato
interventi assistenziali basati sulla redistribuzione
del reddito (altro sarebbe il discorso per interventi radicali di non breve
periodo). La povertà relativa fa piuttosto
riferimento alle disuguaglianze sociali, essendo evidente che in una società
non perfettamente egualitaria si riscontreranno sempre situazioni «inferiori
alla media»; ciò che in questo tipo di approccio viene massimamente tenuto presente
è l'impegno a ridurre gli scarti dal centro e, in particolare, ad accorciare
«le code» della distribuzione statistica.
Esiste poi un terzo tipo di povertà che riceve
diversi nomi, il più comune dei quali è marginalità.
In questo senso l'accento è posto sul tipi di rapporto
che si stabiliscono fra i gruppi sociali, essendo individuabile una fascia
marginale in ciascuna delle tre aree sociali: economica, culturale e
politica.
La marginalizzazione del
settore economico riguarda gli esclusi dal processo produttivo e coloro che
in esso hanno una posizione precaria o non garantita;
nel settore culturale la marginalizzazione produce
esclusione dalla cultura dominante, scarso accesso al sistema educativo, perdita
di integrazione in un sistema di valori; nel settore politico, infine, i
marginali non hanno accesso alla gestione del potere, sono esclusi dai
meccanismi ascendenti di esclusione e dipendenza.
Questi tre diversi modi di intendere la povertà non
sono evidentemente equivalenti: non solo essi si ricollegano a
interpretazioni del fenomeno diverse fra di loro, ma riflettono anche la prevalenza
di uno o di un altro aspetto dello stesso problema generale che, in situazioni
sociali concrete, può essere più importante di altri. Le notevoli differenze
economiche e sociali esistenti fra i paesi europei hanno quindi reso più
difficile l'individuazione di un approccio unico che fosse
anche di comune soddisfazione. Un altro problema, poi, rendeva ancor meno
facile la scelta: trattandosi infatti di un'indagine
eminentemente empirica, finalizzata non tanto al l'approfondimento teorico
quanto alla quantificazione della povertà e all'individuazione dei processi multidimensionali che la originano, la prima necessità da
soddisfare consisteva nell'individuazione di un concetto di povertà che si
prestasse ad una quantificazione quanto più esatta possibile.
Un'indicazione quantitativa della povertà assoluta è in linea di massima
possibile tanto quanto è concretamente definibile il livello di minimo vitale e
ad esso è paragonabile il livello effettivo di vita
della popolazione interessata. Se la misurazione si fa per grandi aggregati,
tale operazione è spesso possibile; in effetti è
attraverso un procedimento del genere che si è definita sottosviluppata (o
povera) una buona parte dei paesi della terra. Se si tenta invece la misura
del tenore di vita di un insieme di individui
relativamente piccolo (e fors'anche territorialmente
disperso) compreso in una popolazione che mediamente vive in condizioni
migliori, allora i problemi di misura si complicano notevolmente e - in Italia,
per esempio, come in moltissimi altri paesi - essi diventano quasi insolubili.
La difficoltà maggiore non sta tanto
nell'arbitrarietà che è sempre possibile nell'individuazione del livello minimo
di vita (e di eventuali indicatori che lo quantificano) quanto
nell'impossibilità di avere informazioni statistiche a scala individuale o
familiare adeguate per individuare con sufficiente completezza il livello
effettivo di vita. Tuttavia, se del livello di vita ci si limita a considerare
le sole componenti materiali, traducibili prevalentemente in consumi
familiari, allora si può fare ricorso alle
informazioni fornite dalle indagini statistiche simili a quella che l'ISTAT
svolge in Italia sui consumi delle famiglie e ricavare così un'indicazione
quantitativa piuttosto precisa.
Il terzo tipo di povertà, per il quale si è indicato
il termine «marginalità», è quello che più difficilmente si presta ad una descrizione quantitativa: i problemi che subito si
pongono sono di doppia natura. Anzitutto è il fenomeno in sé, unitario ma composito, che non si presta ad una misurazione
diretta. Se si prende in esame la definizione appena posta, ci si rende subito
conto che, nella migliore delle ipotesi, i fattori che compongono la
marginalità sono misurabili solo facendo uso di indicatori,
cioè di strumenti di misura indiretti e parziali, la cui rappresentatività
rispetto al fenomeno globale è da verificare volta per volta e potrà sempre
essere messa in discussione da altri che procedessero alla stessa misura
partendo da presupposti diversi. Qual è, per esempio, un indicatore di «esclusione
dalla cultura dominante» che sia generalmente accettato
da tutti? Ma, anche ammesso che si riuscisse a trovare
un accordo sugli indicatori da usare, ci si scontrerebbe contro il secondo tipo
di difficoltà, ben più difficile da superare: la disponibilità dei dati. I
problemi cui si è accennato descrivendo le difficoltà di misurazione della
povertà assoluta (e relativa) diventano in questo caso infinitamente più gravi: fonti sistematiche e attendibili di informazioni
a livello individuale o familiare su tali argomenti non esistono. Si possono
trovare, più o meno casualmente, alcune micro-ricerche relative ad una piccola comunità, per di
più svolte in genere su di un campione, che coprono una parte dei fattori della
marginalità; si potrà anche forse trovare che, in un dato momento e in luogo
ben limitato, si sono raccolte tutte le informazioni che sarebbero necessarie
per la misura del terzo tipo di povertà; ma sicuramente non esiste una fonte
d'informazioni che copre l'intera popolazione nazionale.
La diversa possibilità di misurare con sufficiente
sicurezza ciascuno dei tre tipi di povertà ha sicuramente influito
sull'accoglienza che è loro riservata nei diversi ambienti scientifici,
culturali e politici: la cosa è particolarmente evidente per la povertà intesa
come marginalità che, pur utilizzando un termine che deve la sua fortuna agli
economisti, viene studiata prevalentemente dai sociologi,
attraverso analisi qualitative o con la tecnica dello «studio del caso» che
permette certamente di conoscere in profondità situazioni anche complesse, ma
che ben difficilmente fornisce materiale suscettibile di sia pur limitate generalizzazioni
e, meno che mai, di misure quantitative su vasta scala.
Il problema della misura della povertà si riduce
quindi alle altre due alternative e, fra queste,
quella che sembra avere più successo è la seconda, cioè la povertà relativa.
La povertà assoluta, quella forma cioè di miseria
estrema che mette in pericolo la stessa sopravvivenza, non è più, infatti, un
grave problema sociale; anche nei paesi europei più poveri, Irlanda e Italia,
la preoccupazione principale è ormai costituita dalle differenze, anche
profonde, delle condizioni di vita fra i diversi strati sociali, pur
sussistendo in alcuni casi (certe categorie di persone o località particolari)
veri e propri problemi di sopravvivenza.
In conclusione quindi l'indagine europea fu
finalizzata allo studio della povertà relativa. Un secondo ordine di problemi
si pose poi al momento di tradurre in termini operativi la scelta così
effettuata. Povertà infatti è un concetto estremamente
vasto, che riassume la globalità delle condizioni di vita, materiali e non
materiali, non tutte individuabili, e soprattutto misurabili, con la medesima
precisione. Per forza di cose quindi si operò un restringimento del campo
d'indagine di modo che, accanto ad un'analisi qualitativa sugli aspetti più
difficilmente quantificabili, risultasse individuato un nucleo centrale di
«fattori di povertà» sul quale basare lo studio
analitico. Pur nella consapevolezza che i fattori interagiscono fra di loro e che l'individuazione di uno di essi come il
più importante rappresenta un'operazione semplificatrice - e in parte
arbitraria -, l'aspetto economico della povertà fu scelto come « punto di
entrata » nel sistema di interazione, non essendo sempre possibile (a causa del
tipo di dati disponibili) svolgere un'analisi di tutti i fattori considerati
contemporaneamente.
Lo schema di indagine che
alla fine fu adottato prevedeva che fossero presi in considerazione i seguenti
fattori di povertà: reddito, occupazione, sicurezza sociale, abitazione,
sanità, istruzione. Ogni gruppo di lavoro nazionale era poi lasciato libero di
approfondire altri temi che risultassero
particolarmente importanti in rapporto alle specifiche situazioni locali.
Con questo programma di lavoro si misero all'opera
nove gruppi di ricercatori, che alla fine del 1980 hanno
presentato altrettanti rapporti alla Comunità; entro la fine di giugno
1981 la commissione CEE elaborerà un rapporto di sintesi che rappresenterà il
primo documento completo sulla povertà nella Comunità europea (3).
La povertà in Italia
L'indagine sulla povertà in Italia ha preso le mosse
da una riconsiderazione delle grandi linee dello sviluppo italiano per arrivare
a porre un'ipotesi di lavoro al centro della quale stava il convincimento
che, nel processo di impoverimento reale del paese, i
gruppi più deboli vedessero peggiorare ulteriormente la loro posizione di
svantaggio relativo. Per quanto riguarda il solo
aspetto economico della povertà - legato alla distribuzione personale dei
redditi - si riteneva che la crisi dello sviluppo e l'elevata inflazione
avrebbero dato vita ad una serie di conflitti fra i gruppi sociali nel
tentativo di trasferire sulla componente più debole il prezzo che
inevitabilmente qualcuno doveva pagare.
Più in generale era sembrato - nel delineare le
ipotesi di lavoro - di dover sottolineare la
demarcazione che separa il sistema ufficiale da quello sommerso, i lavoratori
protetti da quelli emarginati, i gruppi più forti cioè, organizzati in
sindacati o in corporazioni, ed i gruppi più deboli, meno in grado di far
sentire la loro voce e le loro esigenze, e più soggetti perciò a rimanere emarginati
o esclusi in una realtà fortemente conflittuale.
Le informazioni disponibili all'inizio della ricerca
- in particolare i risultati annuali dell'indagine della Banca d'Italia sulla
distribuzione del reddito tra le famiglie - lasciavano intendere che,
probabilmente, negli anni recenti nel complesso
del sistema si erano determinate le condizioni
per un appiattimento della curva di distribuzione dei redditi. Ma ciò non escludeva affatto la possibilità che - riguardando
questo fenomeno la generalità delle famiglie «inserite nel sistema», e quindi
più protette - effetti divergenti si verificassero ai livelli di reddito meno
elevati, cui la ricerca in particolare intendeva rivolgere l'attenzione. I
fattori di appiattimento della curva, automatici o
meno, istituzionali o extra-istituzionali che inducono a ridurre le
sperequazioni nella distribuzione del reddito operano certamente nell'area del
«sistema principale»: non c'è invece scala mobile che valga a difendere i disoccupati.
I risultati della ricerca sono stati, invece, in certa misura sorprendenti. Essi non hanno verificato le
ipotesi di partenza, mentre hanno invece consentito di meglio conoscere una
realtà molto complessa. Una certa cautela è tuttavia d'obbligo in queste
valutazioni, risentendo certamente i risultati del metodo e dei dati
adoperati. Questi ultimi sono stati forniti dalle indagini ISTAT sui consumi
delle famiglie dal 1973 al 1978; il metodo seguito è quello
dell'«international standard of poverty line» che
prevede un'analisi dei redditi o dei consumi delle famiglie di diversa ampiezza,
mediante: a) un rapporto di equivalenza (tra redditi o
consumi medi e quelli della famiglia di due componenti); b) un rapporto di
differenziazione (che tiene conto delle economie di dimensione che si
verificano al crescere del numero dei componenti) (4).
Nei sei anni presi in esame la distribuzione del
reddito - nel nostro caso, dei consumi - risulterebbe migliorata, non solo tra
le categorie più inserite nel sistema, ma anche nei confronti delle famiglie
emarginate, rappresentate ampiamente nella rilevazione campionaria.
Ma questo risultato complessivo va subito precisato,
mettendo in evidenza che la tendenza alla riduzione
del numero dei poveri (numero di famiglie e, soprattutto, numero di persone
povere, tendendo a ridursi il numero medio dei componenti delle famiglie
povere più di quello delle famiglie in complesso) è la risultante di movimenti
di segno contrario. Alcuni gruppi migliorano la loro
posizione, altri la peggiorano. E questo fenomeno si inscrive
in un generale processo redistributivo che - pur lasciando pressoché inalterato
il divario nord/sud - manifesta che la crisi economica e l'inflazione hanno
modificato sensibilmente la posizione all'interno delle due grandi aree. In
genere presentano un miglioramento le aree rurali ed
i centri urbani minori, soprattutto lungo la traiettoria adriatica, dal Friuli
alla Puglia, con epicentro nell'Emilia-Romagna; in
difficoltà sia grandi aree metropolitane un tempo fiorenti, come quelle di
Genova e di Torino, e - per motivi diversi - Roma, mentre si fa pesante la
situazione di Napoli, Palermo, Catania. Tra le regioni del
mezzogiorno, la Calabria deteriora ancora la sua posizione relativa.
Tutto ciò emerge attraverso l'analisi dei redditi
(per meglio dire, dei consumi) delle famiglie. L'appiattimento retributivo
derivante soprattutto dalie politiche egualitarie (che hanno trovato efficacissimo
strumento nella contingenza egualitaria) è un primo importante fattore di redistribuzione
quando esistono le premesse per migliorare la distribuzione del
reddito. Ma la crisi passa attraverso i settori produttivi (e, all'interno dei
settori produttivi, attraverso le singole imprese), che subiscano contrapposti
andamenti; la crisi influisce soprattutto in modo contrastante su categorie
sociali e su aree diverse; divide i gruppi che riescono a difendersi meglio
dall'inflazione rispetto a quelli che perdono potere d'acquisto; migliora
persino la posizione relativa dei pensionati, per effetto della superindicizzazione
introdotta nel 1975 (ed è da tener presente che i pensionati che vivono soli
rappresentano uno dei contigenti più numerosi tra i
poveri); divide la società secondo schemi diversi dai
tradizionali, ma moltiplica invece le tensioni sociali, soprattutto nelle aree
urbane in declino e nelle regioni più povere del mezzogiorno.
Volendo ora fornire alcune sommarie indicazioni
sulla consistenza numerica della povertà economica a livello nazionale bisogna
anzitutto far riferimento alla «linea della povertà» che separa le famiglie
povere dalle altre. La linea è costruita facendo uso dei dati sulla spesa per
consumi delle famiglie (ottenuti con rielaborazioni sull'indagine ISTAT) e
seguendo sostanzialmente il già ricordato metodo dell'«international standard
of poverty line». Si ottiene così una prima linea
della povertà, riportata nella Tab. 1.
Tab. 1. Linea della
povertà al 1978 (prima versione)
Componenti Consumo Linea
la famiglia pro-capite della povertà
1 102,3 102,3
2 89,1 178,1
3 78,0 234,0
4 68,7 275,0
5 63,2 315,9
6 e più 56,6 384,9
Il metodo seguito si basa
sull'uso di un rapporto di equivalenza (sono considerate povere le famiglie
con due componenti che hanno spesa media mensile pari alla media mensile
pro-capite) che comporta alcuni inconvenienti a causa del suo riferirsi a
valori medi per abitante. In una situazione come quella italiana,
con squilibri strutturali tra nord e sud, tra agricoltura ed altri settori, in
presenza di differenze notevoli non solo nelle abitudini di consumo ma persino
nelle esigenze (ad esempio, di abitazione e di riscaldamento, di abbigliamento)
c'è da chiedersi se il riferimento ad una media nazionale non assuma carattere
astratto.
Se si considera l'Italia come un'unica realtà,
evidentemente lo studio della «povertà relativa» non può che mettere
in evidenza un fatto già noto in precedenza, con una stima che -
all'interno delle due aree - è poco coerente con il criterio della relatività. Ma se si considera - come forse sarebbe più opportuno in
un'analisi sulla distribuzione del reddito - le specifiche realtà delle due Italie (pur mettendo in luce che a ciò si è introdotti,
appunto. dal divario esistente tra le due
realtà) si presentano gli inconvenienti opposti.
Nel primo caso, un problema strutturale (il sottosviluppo
del mezzogiorno) perde le connotazioni tipiche per divenire esclusivamente problema redistributivo. Nel
secondo caso, preso atto che centro-nord e mezzogiorno rappresentano due mondi
diversi, si finisce per considerare relativamente più importante la indigenza del centro-nord sottovalutando la miseria del
mezzogiorno.
Non rimaneva quindi che procedere all'esame di entrambe le soluzioni, definendo due distinte linee della
povertà (LP1 e LP2) e distinguendo nell'insieme delle famiglie «povere»:
a) famiglie in condizioni di miseria (al di sotto della prima linea della povertà, LP1);
b) famiglie in condizioni di indigenza
(al di sotto di una seconda linea della povertà, LP2, ma al di sopra della
LP1).
Infatti, una volta individuata la prima linea della
povertà si è provveduto a stabilirne una seconda per
tener conto della differenza fra «le due Italie» di
cui si è detto poco sopra. Operati alcuni arrotondamenti e differenziando per
unità la ampiezza delle famiglie si è ottenuto il
seguente risultato, dove la seconda linea della povertà (LP2) si basa su un
rapporto di equivalenza che indica per la famiglia di 2 persone la spesa che
nella LP1 era indicata per la famiglia di 3 persone. Nella Tab.
2 sono riportate le due linee della povertà ed il loro rapporto rispetto alla
spesa media mensile (SMM) delle famiglie di corrispondente
ampiezza.
L'introduzione di nuovi termini non dovrebbe generare
confusione ove si tenga presente che con la seconda linea della povertà (LP2) s'intende definire una
fascia più larga di famiglie che genericamente soffrono di una diffusa
inadeguatezza dei mezzi di sussistenza rispetto al loro tenore di vita medio,
mentre con la prima linea della povertà (LP1) (ora
chiamata linea della miseria) si
individua quel più circoscritto fenomeno, all'interno dell'area della povertà,
che riguarda le famiglie con il tenore di vita più basso. È opportuno infine chiarire il terzo termine - indigenza -, usato per designare la condizione di quelle famiglie
che hanno un tenore di vita al di sotto della linea della povertà (LP2) ma al
di sopra della linea della miseria (LP1). L'insieme delle famiglie povere risulta così formato dal sottoinsieme delle famiglie misere
sommato al sottoinsieme delle famiglie indigenti.
Tab. 2. Linea della
miseria (LP1) e linea della povertà (LP2)
Componenti LP1 LP2 SMM LP1 LP2
la famiglia (migliaia
di lire) SMM SMM
1 100 130 270,2 37,0 48,1
2 175 235 441,3 39,7 53,3
3 235 315 626,5 37,5 50,3
4 275 385 698,0 39,4 55,2
5 315 385 743,7 42,4 51,8
6 e più 385 500 775,7 49,6 64,5
Media 222 303 575,0 38,6 52,7
L'adozione di due linee della povertà è senz'altro
coerente con il carattere «relativo» della povertà.
Ma non si può trascurare che ogni soluzione ha le sue
controindicazioni, come in parte già accennato.
a) Se si sceglie un criterio analogo per tutto il
territorio nazionale (espresso in una o più linee della povertà), non si
finisce per considerare tra loro analoghe situazioni obiettivamente diverse?
b) se si scelgono criteri diversi (ossia, una linea
per il centro-nord ed una per il mezzogiorno), perché allora non portare avanti
un'analoga differenziazione anche per tener conto di diversità tra regione e regione, tra ambiente urbano ed ambiente rurale, e così via?
c) in questo modo, diventando opinabile stabilire se
le Italie siano «due» o siano molte, quale fondamento
oggettivo può avere la ricerca? I risultati non sono altro che una petizione di
principio, proprio nella misura in cui per ciascuna situazione si stabilisca una linea della povertà diversa.
Le due linee della povertà che si è ritenuto dover
disegnare, in realtà, consentono di superare alcune di
queste difficoltà concettuali e metodologiche: distinguendo in ogni caso la
situazione del centro-nord da quella del mezzogiorno e considerando, con le
due linee, gradi diversi di povertà nelle due grandi ripartizioni, in pratica
si sposta il problema da una misura quantitativa ad un'interpretazione
qualitativa.
Resta aperto il problema cruciale: se considerare il
paese come una sola realtà o con riferimento ai fondamentale
dualismo nord/sud. La scelta di utilizzare per tutto il paese le due linee della povertà LP1 e LP2 può favorire una
valutazione comparativa della povertà e della miseria, restando aperta la
possibilità di interpretare in modo differente i risultati, tenendo conto del
tenore di vita medio delle due aree.
Nella Tab. 3 sono riportati
i risultati ottenuti usando le due linee senza distinzioni territoriali: a livello
nazionale si possono considerare complessivamente «povere» 3.600.000 famiglie
(20,9% del totale) e di esse più povere, o «misere»,
1.600.000 famiglie (9,4% del totale).
Ma se, coerentemente con le ragioni che hanno indotto a
differenziare le due linee della povertà, si usa la LP1 per determinare la
situazione del mezzogiorno e la LP2 per il centro-nord, si ottiene un'altra
immagine della diffusione della povertà molto probabilmente più vicina alla
realtà complessa del paese.
Sommando i due totali parziali si ottiene una nuova
stima della povertà economica nell'Italia del 1978 che ammonta a 2.590.000 famiglie, pari al 15% del totale.
Tab. 3. Famiglie in condizioni di miseria (M) e di povertà
(P): Italia
Componenti Famiglie (migliaia) Incidenza percentuale
la famiglia M P M P
1 323 585 13,6 24,6
2 458 974 11,4 24,3
3 247 625 6,3 15,9
4 257 756 6,9 20,2
5 161 314 8,3 16,2
6 e
più 179 372 13,2 27,5
In complesso 1.625
3.626 9,4 20,9
Tab. 4. Famiglie in
condizioni di miseria (LP1, mezzogiorno) e in condizione di povertà (LP2,
centro-nord) (valori assoluti in migliaia; percentuali sul totale delle
famiglie di corrispondente ampiezza)
Componenti Centro-nord
(LP2) Mezzogiorno (LP1)
la famiglia v.a. % v.a. %
1 323 19,0 158 23,4
2 475 16,6 269 23,6
3 294 7,5 140 13,7
4 321 12,7 160 13,4
5 87 7,7 123 15,2
6 e più 89 13,9 154 21,6
In complesso 1.589 13,5 1.004 18,0
Il breve spazio concesso a questa nota non permette
di fornire altre informazioni su tutte le altre elaborazioni effettuate; ci si
limiterà quindi a richiamarle in forma schematica, ricordando che i risultati
dell'intera indagine verranno presto pubblicati.
Per quanto riguarda l'analisi della povertà economica, oltre al confronto
fra la situazione del 1973 con quella del 1978, si è provveduto ai seguenti
approfondimenti (dati 1978):
a) i gradi della povertà secondo
l'ampiezza delle famiglie e la distribuzione territoriale;
b) idem, secondo la composizione familiare (relazioni fra i membri e
loro età);
c) la povertà nelle famiglie di
lavoratori occupati, disoccupati e pensionati;
d) diffusione della povertà nelle regioni italiane;
e) i fattori della povertà.
Sono poi state svolte le seguenti indagini settoriali:
a) povertà e mondo del lavoro;
b) sicurezza sociale;
c) salute;
d) istruzione;
e) abitazione;
f) povertà e mezzogiorno;
g) atteggiamenti verso la povertà.
Alcune considerazioni sulle politiche sociali e la
lotta alla povertà sono state infine poste a conclusione del lavoro.
Nota sull'organizzazione delle indagini
I nove gruppi di lavoro nazionali che hanno
collaborato per la realizzazione dell'indagine europea sulla povertà hanno scelto ciascuno la formula organizzativa che
riteneva più efficiente in rapporto alle diverse situazioni locali.
In Italia
l'indagine è stata affidata alla Fondazione Giorgio Cini
di Venezia e diretta da Giovanni Sarpellon,
docente di sociologia alla facoltà di economia e
commercio di Venezia; ad essa hanno collaborato una trentina di studiosi i
quali, singolarmente o in piccoli gruppi, hanno approfondito singoli aspetti
del tema, producendo una serie di saggi che sono stati successivamente «rifusi»
ed integrati nel rapporto finale (di parte di questi saggi è prevista una
prossima pubblicazione).
In Francia
l'indagine è stata svolta dalla Fondation pour la Recherche Sociale
di Parigi, sotto la direzione di Antoine Lion, «chargé de mission» alla Direzione dell'azione sociale del ministero
della sanità e della famiglia.
Nella Repubblica
federale di Germania la direzione del lavoro è stata assunta da Richard Hauser e Hans-Jurgen Krupp, professori
dell'università di Francoforte.
In Gran
Bretagna l'indagine è stata affidata al Policy Studies Institute di Londra e
posta sotto la direzione di Richard Berthoud, membro dell'istituto.
In Belgio
ha operato un'équipe coordinata da Jean Remy, dell'università cattolica di Lovanio,
da Arthur Doucy,
dell'università libera di Bruxelles e da H. Deleeck, dell'università di Anversa.
In Lussemburgo
ha diretto l'indagine il prof. Gaston Schaber, direttore dell'istituto pedagogico di Walferdange.
Nei Paesi Bassi
l'indagine si è svolta presso il Social Cultureel Planbureau, a Rijswijk, sotto la
direzione di A.P.N. Nauta,
membro dell'ufficio.
In Danimarca
l'indagine è stata condotta dal Socialforskningstituttet
(istituto nazionale di ricerca sociale) di Copenhagen,
sotto la direzione di Henninl Friis,
direttore dello stesso istituto.
In Irlanda
il lavoro è stato svolto presso l'Institute of Public Administration di
Dublino, sotto la direzione di P.A. Hall, membro dell'istituto.
Ciascuno dei rapporti nazionali verrà prossimamente pubblicato
nei rispettivi paesi; è allo studio una proposta di pubblicazione in lingua
inglese di una sintesi dei risultati dell'intera indagine
europea.
(1) Per più dettagliate informazioni si
veda Rapport d'évaluation interimaire du programrne de lutte contre la pauvreté, doc.
CEE, COM (80)665, Bruxelles, 1980.
(2) G.
SARPELLON, Esquisse d'une proposition de
projet international: «Rapport de synthèse sur la situation de la pauvreté dans
les Etats membres», doc. CEE, V/1370/77, Bruxelles, 1977.
(3) Nel 1980 è uscito presso la Routledge and Kegan di Londra il
libro Poverty and Inequality in
Common Market Countries, a cura di V. George e R. Lawson; si tratta di
un lavoro certamente utile ed importante il quale tuttavia non prende in
considerazione Olanda, Lussemburgo e Danimarca né
dispone di quella ricchezza di informazioni originali elaborate nel corso
dell'indagine della CEE.
(4) Una esauriente descrizione del
metodo si trova in W. BECKERMAN, Stime della povertà in Italia nel 1975, in «Rivista Internazionale
di Scienze sociali», 1980, n. 2, pp. 220-249; lo stesso numero della rivista,
dedicato agli aspetti economici della povertà, contiene fra l'altro il mio
articolo Definire e misurare la povertà:
un nuovo tentativo per il caso italiano, pp. 264-290, che fornisce più
ampie informazioni sull'indagine italiana sulla povertà; il rapporto finale sul
lavoro svolto verrà pubblicato in Italia nel corso del
1981.
www.fondazionepromozionesociale.it