Prospettive assistenziali, n. 56, ottobre - dicembre 1981
HANDICAP: LINEE PER UN
INTERVENTO NON ISTITUZIONALE
CLAUDIO CAFFARENA, ISABELLA DELSEDIME,
TERESINA MONTENEGRO, TIZIANA NEGRI
Premessa
L'articolo che segue nasce come riflessione su di una esperienza d'intervento nei confronti del problema «handicap
in età ultraquattordicenne» promosso dall'Ente locale (1) (Comune di Settimo Torinese
anni 1979 - 80 - metà 81) e si colloca all'interno del dibattito attualmente in
corso, in particolare nella realtà piemontese. La necessità di approfondire
tale dibattito scaturisce, da un lato come conseguenza dell'attuale
applicazione delle nuove leggi e del riordino delle competenze tra i vari Enti
locali, dall'altro dal fatto che i modelli di intervento
tradizionali risultano ormai chiaramente superati e la nuova prassi di
lavoro, che si è andata costruendo in alternativa al vecchio tipo di
istituzione rivolta all'handicap, deve trovare una adeguata collocazione in una
teorizzazione più precisa e rigorosa.
Introduzione
La necessità di «leggere» correttamente una esperienza di lavoro in atto impone di collocare
l'esperienza stessa rispetto al momento storico nel quale viene vissuta,
precisando i contorni entro i quali ci si è mossi.
Ovviamente per fare ciò partiamo
dalla nostra realtà particolare per ampliare gradualmente la visione sino a
tentare di comprendere in essa gli elementi più generali e diffusi che possono
aver contribuito a determinare la sua evoluzione.
Premettiamo che il nostro lavoro è sorto come
esperienza sperimentale all'interno del progetto della Regione Piemonte
finanziato dal F.S.E. (2). Proprio tale carattere di sperimentalità, in termini progettuali e temporali, ha
condizionato l'avvio e la realizzazione
dell'intervento. L'aver previsto infatti particolari
condizioni (età dell'utenza, grado di gravità dell'handicap, obiettivo da
raggiungere, durata stabilita) ha permesso da un lato di mantenere l'esperienza
in una dimensione di relativa autonomia, dall'altro di imprimerle una notevole
carica di vitalità e vivacità.
Parlare di «sperimentalità»
nei servizi per handicappati, in genere di carattere esclusivamente assistenziale, non è un dato da trascurare. Ciò è sintomo,
anche in questo campo, di quel più vasto movimento di rinnovamento che ha
tentato di sostituire nei fatti, ma soprattutto nelle idee, i concetti di isolamento, segregazione, istituzionalizzazione con
quelli di inserimento, integrazione, servizi.
Di qui anche la nascita di leggi che vadano a
garantire diritti che una «scienza» ufficiale per troppo tempo ha negato.
Pensiamo infatti quali sono
state le conseguenze di quel movimento di rinnovamento che ha gradualmente
messo in crisi alcune tradizionali sicurezze sostituendole con altri principi
chiaramente innovativi: non è facile, sia per l'uomo della strada che per
l'addetto ai lavori, accettare il conseguente cambiamento di sé, dell'altro,
dei reciproci rapporti, in un continuo sforzo di adattamento.
Uscita dagli ospedali psichiatrici,
chiusura degli istituti, presa in carico del territorio, decentramento:
verità in cui credere, realtà da
perseguire. Il tempo e la costanza nell'affrontare i problemi ci indicheranno la risposta più adeguata a seconda delle
situazioni e dei differenti contesti. Ma proprio l'aver imboccato la strada del
cambiamento, della dinamicità, impone modalità di
lavoro più precise e momenti di riflessione più puntuali, pena da un lato la
inadeguatezza dell'intervento, dall'altro lo scollamento fra teoria e prassi
quotidiana.
Può stupire il sottolineare la specificità del
problema handicap legato ad una certa fascia di età
(nel nostro caso quella che va dai 15 ai 30 anni), ma è proprio la mancanza di
modelli (3) cui riferirsi (ovviamente rifiutando quelli legati alla «vecchia»
pratica psichiatrica, prima ed unica risposta per molti anni nei confronti di
tali problemi) che obbliga ad un ripensamento in termini teorici e progettuali
Troppo sovente, infatti, a partire
dalla considerazione del giovane handicappato come «eterno bambino»,
si commette l'errore di applicare modelli di analisi e di intervento validi per
le problematiche infantili estendendoli, nei fatti, a giovani adolescenti.
In termini progettuali ciò significa tener conto e
tentare di conciliare due differenti necessità: da un lato la specificità
delle esigenze del giovane portatore di handicap,
dall'altro il collegamento con la cosiddetta «normalità».
In questo senso pare utile, nell'attuale momento,
non trascurare ogni tentativo che si ponga nell'ottica
della ricerca e del cambiamento, ogni sperimentazione che vada ad aggiungere
una nuova prospettiva secondo la quale affrontare tali problematiche, ogni
indicazione che permetta di superare gli stereotipi cui troppo spesso si rimane
legati.
La tentazione delle definizioni
Definiamo la realtà dell'handicappato (4) in un'ottica complessiva che tenga conto, da un lato, degli aspetti peculiari che
caratterizzano la sua storia individuale (il suo handicap, i deficit che ne
conseguono, i bisogni espressi e inespressi), dall'altro la sua storia
sociale, il suo essere in relazione con gli altri all'interno dei vari gruppi
di appartenenza: la famiglia, l'istituzione, l'ambiente sociale. Tentiamo cioè di superare una definizione dell'handicappato come
soggetto passivo, condizionato esclusivamente dalle proprie inadeguatezze
psico-fisiche, espressione di negatività e di inferiorità.
L'ottica medicalizzante e assistenzialistica, in cui di solito si considera il
problema, ha favorito invece un pregiudizio largamente diffuso sul giovane
portatore di handicap, considerato, in una visione totalizzante, riassunto e
identificabile con il suo deficit, quasi con questo coincidente, perdendo così
di vista come anche ridotte capacità dell'individuo siano
suscettibili di sviluppare azioni finalizzate, progetti, comportamenti
interattivi e comunicativi.
Tale considerazione permane sia a livello di senso
comune (richieste di istituzionalizzazione,
sopravvalutazione delle possibilità di risposta medico-farmacologica
o tecnico-riabilitativa, considerazione dell'handicappato come malato da curare
o malato inguaribile, scetticismo sulle possibilità di recupero e di migliore
utilizzo delle esistenti capacità), che a livello tecnico-legislativo (psicodiagnosi che si limitano alla «misurazione» delle
capacità del soggetto, verbali d'invalidità che traducono le capacità
lavorative in maggiore o minore inseribilità nel
mondo del lavoro, legislazione inadeguata in relazione ai diritti al lavoro,
all'istruzione, all'integrazione sociale, all’assistenza).
Porsi in un'ottica alternativa
d'intervento significa invece essere in grado di cogliere gli aspetti dinamici
della realtà del l'handicappato.
Considerarne le potenzialità ed i bisogni, le possibilità di cambiamento, significa elaborare risposte che sempre si adeguino ad una
evoluzione in corso e fornirsi di una metodologia di intervento che sappia
utilizzare ogni esperienza come stimolo e strumento di cambiamento.
A partire da tali considerazioni individuiamo due criteri di
definizione rispetto alla fascia di utenza considerata (in aggiunta alla
distinzione ormai diffusa tra handicap fisico, psichico e sensoriale):
- il primo, di tipo classificatorio,
definisce l'utenza considerando la maggiore o minore gravità dell'handicap;
- il secondo, di tipo storico, rileva le tappe più significative dell'essere e dell'essere diventato
handicappato.
I due criteri colgono aspetti interdipendenti della
medesima realtà: significativo intreccio tra la
presenza di una situazione psico-fisica deficitaria e l'influenza determinante
di una personale storia di vita.
Utilizzando il primo criterio di analisi
distinguiamo:
a) handicappati medio-lievi -
soggetti in possesso di un certo livello di autonomia e della possibilità di
incrementarlo se adeguatamente stimolato. Soggetti cioè
che esprimono difficoltà rispetta a se stessi e rispetto alle relazioni con
gli altri, in riferimento, da una parte al senso di identità, di realtà, al
livello di autostima, alla capacità di apprendimento e di razionalizzazione,
dall'altra all'integrazione sociale e all'adattamento alle situazioni nuove.
La realtà di questi soggetti è comunque
caratterizzata in senso specifico dalla possibilità, con adeguati stimoli, di
superare tali difficoltà, essendo queste il prodotto di significative
interazioni tra il soggetto portatore di handicap e l'ambiente in cui è vissuto
e non il risultato inevitabile di una patologia organica.
b) Handicappati
gravi e gravissimi - soggetti scarsamente autonomi e che possono presumibilmente
raggiungere soltanto un livello di autonomia parziale
o minima. Appare importante in riferimento a tale tipo
di utenza l'analisi dei bisogni, spesso espressi in modo esplicito e senza
possibilità di mediazione, altre volte confusamente, a volte inespressi,
negati, racchiusi nel mondo dell'incomunicabilità.
Collegato a ciò è il problema della comunicazione: il comportamento, i gesti, le frasi confuse,
il silenzio che caratterizzano il rapporto tra questi soggetti e il mondo
degli altri vanno attentamente registrati e compresi poiché sono parte
integrante di una complessa modalità di rapporto.
Utilizzando invece il secondo criterio di analisi distinguiamo:
a) Utenza
attuale - soggetti ultraquattordicenni che vengono
inseriti per la prima volta in un progetto di intervento pubblico finalizzato
alla loro integrazione nell'ambiente sociale: deistituzionalizzazione,
interventi educativi, terapeutici, esperienze di risocializzazione,
formazione professionale, inserimento lavorativo.
Si rilevano alcune costanti significative:
il passato è segnato pesantemente da una condizione di esclusione sociale e di
segregazione che spesso ha agito precocemente perché i soggetti sono cresciuti
all'interno della famiglia ma senza possibilità di socializzazione esterna o
perché sono stati ricoverati in istituti lontani dal loro territorio di appartenenza.
Tali esperienze caratterizzano la realtà dei
soggetti: la mancanza di socializzazione nell'età evolutiva causa un rallentamento
dello sviluppo mentale; ne risulta una crescita difficile, ostacolata,
interrotta, che determina gravi problemi nella comunicazione con gli altri,
nella coscienza ed espressione dei propri bisogni, nella conoscenza di sé,
nell'autostima, quindi anche nella sicurezza e nell'autodeterminazione.
Si costruisce un ruolo sociale fortemente stigmatizzante:
in esso identità personale e identità sociale sembrano
fondersi, confermando l'immagine dell'handicappato incapace, improduttivo,
«eterno bambino», malato inguaribile, oggetto privilegiato di assistenza. Se
quindi il problema di questo tipo di utenza è la
mancanza di autonomia sul piano personale e sociale, è importante partire dal
dato che, in nessuna delle loro esperienze precedenti, tale autonomia è stata
prospettata come obiettivo da conquistare.
b) Utenza
prossima - soggetti che a partire da precoci
esperienze di socializzazione e scolarizzazione (crescita all'interno del
proprio nucleo familiare, integrazione nell'ambiente sociale, inserimento
nella scuola materna e dell'obbligo) esprimano alle soglie dell'età adulta, precise
domande di intervento.
Al di là dei limiti, da più parti evidenziati, delle esperienze
di inserimento scolastico, si deve infatti rilevare che tali esperienze hanno
prodotto risultati indubbiamente positivi, dal punto di vista generale
(evitando l’istituzionalizzazione precoce e ostacolando, almeno parzialmente,
l'emarginazione sociale) e dal punto di vista del soggetto (minori difficoltà
di comunicazione e integrazione sociale, migliore utilizzo delle proprie capacità,
acquisizione di strumenti atti a superare i limiti che il proprio handicap
comporta).
Più precocemente quindi si esprimono i bisogni di autonomia personale e di inserimento sociale:
aspettative, desideri, progetti per il futuro, passando dalla età della
scolarizzazione a quella adulta, rischiano di essere disattesi a causa della
oggettiva mancanza di risposte che l'ambiente è in grado di offrire
all'handicappato adulto. Il rischio, sempre presente, è quello di interrompere un processo di evoluzione in corso perché
si conclude il ciclo scolastico e non se ne può riaprire un altro: perché una
adeguata collocazione nel mondo del lavoro è, in questa fase storica, un
obiettivo sempre più lontano, perché, quindi, non si è in grado di ostacolare
con risposte effettivamente alternative il processo di esclusione sociale.
La distinzione tra utenza attuale e utenza prossima si intreccia con la precedente distinzione (handicappati
medio lievi e handicappati gravi) definendo la realtà di ogni utente a partire
non solo dai problemi e dai bisogni che esprime, ma anche dalla storicizzazione della sua condizione. Tale intreccio è particolarmente
significativo per i soggetti «lievi», ma pare comunque
importante rivolgere l'attenzione alle esperienze di vita, alla storia
individuale, alle condizioni in cui è avvenuta la crescita anche nel caso dei
soggetti portatori di handicap grave e gravissimo.
Nodi fondamentali
Ci proponiamo ora di individuare quei nodi fondamentali
intorno ai quali si costruisce una proposta nuova di operatività
non istituzionale di territorio nell'ambito dell'intervento rivolto agli
handicappati ultraquattordicenni.
a)
Dinamicità-trasmissione
Partendo dal presupposto che un intervento di
territorio non deve tendere alla custodia e alla staticità, emerge chiaramente
la necessità che i servizi si costruiscano su un primo requisito di dinamicità
e mobilità. Tale principio garantisce il passaggio dalla funzione protettiva e custodialistica (dunque anche emarginante) ad una funzione
di trasmissione rispetto alla realtà più generale. Di essa,
infatti, i servizi sono costanti interlocutori, referenti, agenti di
mutamento.
Se da una parte collochiamo la dinamicità in un piano
individuale che tenga conto delle tappe raggiunte e degli obiettivi previsti e
continuamente verificati per ogni situazione, dall'altra riteniamo che
altrettanto dinamismo debba esservi nell'organizzazione dei servizi, che li renda pronti a favorire tutti i cambiamenti nella direzione
dell'ulteriore crescita del soggetto.
L'intervento deve sempre misurarsi con il livello di autonomia raggiunta, per essere in grado di
rispondere ai nuovi bisogni che i soggetti esprimono e di valorizzare al
massimo le capacità che posseggono.
La caratteristica di dinamicità non esclude l'utenza
con problemi più gravi, ma al contrario, calibrando attentamente obiettivi e
strumenti, ricercando e valorizzando nuove possibilità di comunicare e
comprendere, diviene proprio per tali situazioni la garanzia di un lavoro che
non reifica nella non stimolazione, che non annienta
nella non comprensione.
b)
Compresenza-utenza mista
In secondo luogo appare importante sottolineare
la positività della scelta di non differenziare radicalmente gli interventi
sulla base della gravità dell'handicap, attuando la compresenza tra i
soggetti. La scoperta di una dimensione di gruppo,
costruita su una omogeneità di obiettivi quali la crescita, l'autonomia,
l'integrazione, è in grado di offrire a tutti la possibilità di socializzare
la propria esperienza con gli altri. Ogni soggetto deve poter esprimere i
propri bisogni e trovare risposte individualizzate, ma essere anche per gli altri occasione di confronta, di verifica, di stimolo.
In particolare la compresenza offre stimoli a livello
di comunicazione, verbale e non verbale: il costante confronto con realtà
differenti dalla propria incentiva la ricerca di nuovi
strumenti per comunicare, per entrare in contatto con l'altro attraverso canali
vari e stimolanti.
Secondo requisito dunque è l'apertura ad una utenza mista, non settorializzata,
che possa realizzare in modo differenziato il proprio obiettivo di crescita
personale e di integrazione sociale (per alcuni la raggiunta autonomia sul
piano psicologico e sociale, per altri una dimensione di vita in cui sia
possibile esprimere la propria diversità e comunicare con il mondo degli
altri), ed essere soggetto attivo d'interventi in cui coesistano e
interagiscano progetti individuali e collettivi.
c)
Le famiglie
Ulteriore elemento qualificante dell'intervento è individuato
nel rapporto con il gruppo direttamente coinvolto nella gestione del problema:
la famiglia.
È infatti determinante la
collaborazione con essa per assicurare al ragazzo e al nucleo la possibilità
di accettare e gestire i cambiamenti prodotti e favorire la maturazione di
tali cambiamenti da parte di tutte le parti coinvolte.
L'ambiente familiare ha un peso determinante
sul soggetto handicappato, anche perché spesso è l'unico contesto in cui é
inserito. i necessario quindi considerare attentamente
le problematiche familiari cercando di distinguere le esigenze del ragazzo e
quelle della famiglia, per offrire un intervento adeguato ma non confuso.
Molto spesso infatti i
genitori tendono a sostituire il rapporto di collaborazione e partecipazione
alla gestione del figlio, con un atteggiamento di delega al servizio, che
dovrebbe prendersi in carico completamente il soggetto e i problemi legati a
lui. Ecco allora che prevalgono le richieste di maggiore gestione del ragazzo
da parte del servizio (in termini di ore, di
presenze, ecc.) che tengono conto più delle esigenze familiari che dei bisogni
del ragazzo; per questi infatti è estremamente importante raggiungere una matura
collocazione anche nell'ambiente in cui vive quotidianamente, cioè nella sua
famiglia.
Pertanto ci sembra necessario accompagnare l'intervento
educativo svolto con il soggetto ad un intervento comprensivo di tutto il
nucleo familiare; questo per far sì che l'atteggiamento di completa delega del
problema al servizio, venga sostituito da un rapporto
di collaborazione e comprensione con le famiglie degli utenti.
D'altra parte la delega delle famiglie nei confronti del servizio non è che la punta dell'iceberg
della più ampia delega attuata dalla collettività nei confronti del problema
handicap. È infatti da tener presente che
l'emarginazione passa attraverso il reparto psichiatrico, ma anche attraverso
il servizio ultramoderno per soggetti handicappati; una reale integrazione
avviene solo a patto di potersi poggiare su un terreno molto fertile e pronto
ad attuare una serie di cambiamenti, un terreno cioè che si faccia carico
delle situazioni e dei problemi dei soggetti più deboli. Pertanto una reale
presa in carico dei soggetti portatori di handicap da parte di tutta la
società, quindi i servizi, la famiglia, ma anche le associazioni, i gruppi
presenti sul territorio, il normale cittadino, delimiterebbe alquanto la componente di specificità dell'intervento, trasformandolo in
lavoro di supporto a situazioni particolarmente problematiche.
I rischi dell'istituzione (5)
Per quanto riguarda la risposta istituzionale all'handicap ci pare emergano dalla realtà attuale alcuni
elementi di riflessione e di critica. Se infatti il quadro istituzionale
appare mutato, non è mutata quella peculiarità per cui
all'handicappato viene immediatamente sovrapposta una risposta istituzionale,
collettiva e totalizzante. L'assunto di fondo, che
sottostà a istituzioni anche profondamente diverse, è che l'handicappato necessiti
di risposte a tutti i livelli «speciali», che dunque abbia bisogno non soltanto
di trovare aiuti e supporti relativi allo specifico deficit di cui è
portatore, ma anche in tutte le altre sue sfere di vita richieda risposte
precostituite e particolari, diverse da quelle di cui è in cerca chi handicappato
non è (un lavoro «speciale», una scuola «speciale», una piscina «speciale»,
una amicizia «speciale», un collettivo «speciale»).
Dunque individuiamo quale primo rischio che le
istituzioni rivolte all'handicap corrono, quello di proporre, sotto forme
apparentemente nuove, modalità superate d'intervento, di nascondere sotto
etichette nuove che parlano di apertura e
integrazione, la vecchia chiusura, l'isolamento, l'esclusione.
Molti elementi istituzionali arretrati, a livello di
strutture fisiche (grandi edifici lontani dal centro urbano, barriere all'interno, concentrazioni di utenza), e ancora di più a
livello di strutture mentali, schemi culturali (l'handicappato passivo, diverso,
incapace, improduttivo) sopravvivono, si mescolano e permeano quanto di diverso
si è andato costruendo. Così la vecchia istituzione chiusa spesso sopravvive
dentro le persone che operano in strutture nuove e aperte.
Ma anche strutture che abbiano superato realmente questo pericolo, e dunque realmente si presentino come
aperte, stimolanti, integrate, mantengono al loro interno meccanismi e rischi
tipicamente istituzionali, che tentiamo ora di esaminare.
Un meccanismo di irrigidimento,
per cui i rapporti che si creano tra le persone, i problemi che sorgono, i
conflitti, le difficoltà, le scoperte, si cristallizzano in regole e schemi,
perdendo di valore e di autenticità, perdendo le nuove valenze di crescita
(6). Ad esempio alcuni aspetti dell'organizzazione stessa del lavoro,
conquistati con una pratica sperimentale, diventano, nel momento in cui si codificano
ed entrano in una regolamentazione precisa, di ostacolo
e di freno al lavoro stesso (certi aspetti dell'orario, certe competenze
specifiche, ecc.).
Un meccanismo di resistenza al cambiamento per cui, una volta che si sia avviata un'istituzione sulla
base di precisi presupposti legati al momento storico, diventa difficile
adeguarsi al mutamento, così rapido e frequente, delle condizioni
socio-storiche della realtà; se non sono presenti in essa dei meccanismi
correttivi, già presupposti fin dall'inizio, si sviluppa un'inerzia
particolare, per cui ad ogni spinta al cambiamento l'istituzione si oppone e
resiste in una condizione di immobilismo.
Le istituzioni di nuovo tipo rivolte all'handicap
presentano un rischio ulteriore, ossia di stabilire con
i propri utenti un rapporto circolare e collusivo, per cui l'istituzione si
crea, si costruisce un proprio utente, perfettamente integrato, che ha i bisogni
adatti alle risposte che l'istituzione può fornirgli. L'utente si modella
passivamente, secondo quanto è adeguato all'istituzione in cui é collocato,
rinunciando alla propria iniziativa e attività. Questo meccanismo di dipendenza
nasce anche in quelle situazioni che apparentemente si configurano come molto
attive e impegnative, proprio nel momento in cui sono il luogo di risposta a
tutte le esigenze del soggetto (affettive, materiali, intellettuali,
lavorative, ecc.) e dunque si avvicinano al modello di istituzione
totale descritte da Goffman (7).
In ultimo, problematiche e rischi sorgono dal rapporto che si instaura tra
l'istituzione comunitaria e la famiglia dei ragazzi handicappati. Si trovano
di fronte due modelli educativi molto diversi. Spesso i genitori hanno poca
fiducia nelle possibilità del ragazzo di emanciparsi mentre
il servizio lavora molto proprio in quella direzione; spesso i genitori fanno
riferimento ad un metodo educativo poco stimolante e poco rischioso mentre il
servizio si muove in modo vivace, stimolante e talvolta con poche certezze.
A partire da queste difficoltà si crea una spaccatura, una
separazione tra i due ambienti, che non sanno trovare canali di comunicazione
adeguati, per cui il ragazzo diventa l'unico canale di comunicazione, suo
malgrado, esportato ora in una situazione ora in un'altra. Così, diviso tra due
realtà forti, che non comunicano tra loro e che si fronteggiano, il ragazzo
handicappato rimane il più debole, confuso, diviso, collocato al centro di un
conflitto che non può che subire.
A partire da questi limiti delle istituzioni rivolte
all'handicap, cerchiamo di superare la logica che associa all'handicappato
un'istituzione che risolva i suoi problemi in blocco, per proporre una
modalità di lavoro diversa.
Dunque non l'istituzione totalizzante, ma una progettualità complessiva, mirata
ed individuale caso per caso, collettiva e allargata all'intera fascia di
utenza handicappata, che preveda al suo interno servizi, operatori, verifiche,
linee di lavoro.
In particolare individuiamo tre dimensioni d'intervento, che sostituiscono alla risposta istituzionale
totalizzante e standardizzata, risposte diverse e diversificate nel tempo, di
volta in volta progettate, verificate, superate.
Dimensione
comunitaria: non si esaurisce in una
struttura fisica, ma è piuttosto un «modo di stare» da scoprire, in più ambienti,
in più persone, facendo cose diverse. Si costruisce in relazione ai bisogni
di crescita, comunicazione, relazione e scambio. È uno spazio insostituibile di esplorazione e conoscenza di se stessi e degli altri. Al
suo interno i bisogni materiali trovano possibilità di risposta
qualitativamente nuove; l'aiuto diventa stimolo, la dipendenza è superata da
una dialettica nuova del ricevere e offrire. La vita comunitaria, quando non è
coatta, non è chiusa ma si colloca in spazi sia
costanti che nuovi, permette la acquisizione di strumenti di vita collettiva,
l'accesso ad una legge sociale da cui troppo spesso chi è handicappato è
escluso. Inoltre in questa dimensione nasce per le persone,
anche le più resistenti agli stimoli, la possibilità di misurarsi su
esperienze impreviste; in tale dimensione infine, ogni evento, conflittuale,
aggressivo, emotivo, se adeguatamente gestito, ha una possibile valenza terapeutico-educativa, in una parola di cambiamento e di
crescita.
Dimensione
territoriale mista, che vede l'utilizzo
di tutto il territorio e la compresenza di ragazzi con problemi di tipo diverso
e profondità diversa (i problemi di chi è giovane e «normale»,
di chi è handicappato, di chi sta male), ma che aggregano questi soggetti su
obiettivi comuni, risultati comuni, un ritmo e una crescita comune.
Dimensione
familiare: riprendendo le cose dette
in precedenza, ribadiamo la necessità di uno spazio di
conoscenza, comunicazione, scambio tra operatori e famiglia, che integri e non
strumentalizzi il soggetto stesso. Non tener conto
dell'ambiente familiare come ambiente-chiave, aggirare o dimenticare il
problema-famiglia, rende a volte inutile e infruttuoso il lavoro con il
soggetto. È dunque essenziale un lavoro «in loco» volto all'integrazione del
soggetto nel suo ambiente di vita, volto all'elaborazione positiva
del rapporto famiglia-istituzione rivolta all'handicap, superando la delega,
la rivendicazione sterile, attraverso forme reali di comunicazione.
BIBLIOGRAFIA
AA.VV., La
formazione professionale e gli handicappati: una politica educativa del
territorio, Bologna, Il Mulino, 1980.
F. BASAGLIA, L'istituzione negata, Torino, Einaudi,
1968.
B. BETTELHEIM, Psichiatria non oppressiva, Milano, Feltrinelli,
1976.
A. CANEVARO, Educazione e handicappati, Firenze, La Nuova Italia, 1979.
E. GOFFMAN, Asylums, Torino, Einaudi, 1968.
G. LAPASSADE, L'analisi istituzionale, Milano, Isedi, 1974.
S. MINUCHIN, Famiglia e terapia della famiglia, Roma,
Astrolabio, 1976.
NAPIER, Il crogiolo della famiglia, Roma, Astrolabio, 1981.
J.P. SARTRE, Critica della ragion dialettica, Il Saggiatore, 1963.
P. WATZLAWICK, G.H.
BEAVIN, Don D. JACKSON, Pragmatica
della comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1971.
(1) Una prima analisi in Prospettive assistenziali n. 50, aprile
'80, pag. 31-36.
(2) Progetto triennale (anni 79-'81)
che ha coinvolto circa 1200 utenti attraverso i seguenti servizi ed interventi:
comunità, strutture diurne, formazione professionale, inserimenti lavorativi,
cooperative; con impegno finanziario di sette miliardi.
(3) A riprova di ciò si pensi, ad
esempio, al divario esistente fra gli studi che hanno approfondito le
tematiche legate alla prima infanzia e all'età evolutiva, e quelli che hanno
affrontato le problematiche degli handicappati adolescenti.
(4) In tutta la legislazione italiana
sono contemplate tre grandi categorie di handicappati: i fisici, gli psichici e
i sensoriali; se per quanto riguarda i concetti di handicap fisico e sensoriale
non sembrano esservi ambiguità di definizione, gli equivoci e le ambiguità
sussistono nel definire la categoria dell'handicap psichico. Per esigenze di
chiarezza, quindi, riportiamo qui la definizione elaborata dai proff. Henry V. Cobb e Peter
Mittler che è stata approvata e adottata come
puntualizzazione ufficiale della «International League
of Societies for the Mentally Handicapped» nel
settembre 1980:
«Insufficienza (o handicap) mentale:
... il termine comprende due componenti fondamentali,
ambedue rapportate all'età biologica e alla cultura sociale:
a) funzionamento
intellettuale notevolmente inferiore alla media, già presente nella prima età;
b) notevole riduzione della capacità di adattamento alle richieste culturali della società.
... L'insufficienza mentale non è di
per sé un'infermità o una malattia. Essa comprende una vasta gamma di condizioni
che, pur essendo spesso causate da malattie biologiche e danni organici,
possono anche derivare da complesse cause sociali e psicologiche...» (Da Prospettive sociali e sanitarie n. V/81, pag. 9 e seg.).
(5) La definizione di «istituzione» da
cui partiamo è quella che vede l'istituzione come organizzazione che si sia
data obiettivi e che possegga requisiti di stabilità, continuità e durata nel
tempo. È inoltre istituzione, il sistema di regole che determina la vita di
tale organizzazione.
Questa definizione, strettamente
sociologica, trova un senso nuovo nella prospettiva terapeutica in cui si è posta la psichiatria francese del dopoguerra, quando ha cominciato
ad occuparsi delle valenze terapeutiche (o antiterapeutiche) dell'istituzione
stessa e dunque ha individuato le possibilità di un'analisi istituzionale che
partisse dall'idea, sviluppata da Levi-Strauss, che
l'inconscio individuale appartiene all'ordine istituzionale. L'istituzione dunque
è presente ed attiva non soltanto come prassi sociale, ma anche come struttura interiorizzata dell'individuo, che l'individuo
perpetua e alimenta.
(6) Scrive J.P.
Sartre ('63): «Il gruppo reagisce con pratiche nuove
e si autorealizza nella forma di gruppo istituzionalizzato:
ciò significa che gli "organi", le funzioni e il potere si
trasformeranno in istituzioni. Che l'individuo comune si autotrasforma in individuo istituzionale...». Ruoli predefiniti, determinazioni che investono l'individuo, individuo-utensile, uomo-istituzionale, il sistema
istituzionale aliena la libertà in un oggetto trascendente: la sovranità
istituzionale.
(7) Istituzioni totali: istituzioni che
secondo l'analisi di E. Goffman ('68), tendono ad
inglobare al proprio interno i soggetti, il loro tempo, i loro desideri, la
loro vita in maniera totalizzante. In esse il
soggetto è collocato insieme a numerose altre persone; i momenti essenziali
della sua giornata sono tutti strutturati e preordinati. I bisogni individuali
trovano una risposta burocratica e standardizzata. L'istituzione diventa il
mondo intero del soggetto che è in essa collocato.
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