Prospettive assistenziali, n. 56, ottobre - dicembre 1981

 

 

LA CORTE DI CASSAZIONE EMARGINA GLI HANDICAPPATI

 

 COMMENTO DI ELVIO FASSONE

 

1. Premessa

La nota sentenza della Corte di Cassazione, in data 30 marzo 1981, oltre che a numerose criti­che sul piano umano, sociale e politico, si presta a non poche riserve anche sul piano strettamen­te tecnico-giuridico. È opportuno mettere in luce tutte le inesattezze e le omissioni che la pronun­cia contiene, sia per diminuire l'autorevolezza della decisione e fornire alle autorità scolastiche una base legale qualora vogliano disattendere l'«insegnamento» della Corte; sia per auspicare pronunce di contenuto opposto, qualora sorges­sero nuove occasioni di intervento giudiziario; sia, appunto, per dare esca a queste eventuali nuove occasioni, che potrebbero essere introdot­te da un contenzioso non più penale ma ammini­strativo, messo in moto da qualche famiglia inte­ressata.

 

2. Svolgimento dei fatti

Dalla sentenza della Cassazione si ricava che, agli inizi dell'ottobre 1978, i genitori di V.M. pre­sentarono domanda di iscrizione alla quarta clas­se elementare di una scuola di Livorno. Il ragaz­zo risultava portatore di una «sindrome di insuf­ficienza mentale da cerebropatia», di «notevole impaccio motorio a livello grafico all'età dello scarabocchio», e di «instabilità dell'attenzione e degli interessi, sostenuti da gravi lacune gno­siche».

La direttrice dell'istituto convocò le insegnanti delle quarte classi per l'assegnazione del mino­re, ma queste manifestarono perplessità, facen­do rilevare le gravi carenze delle strutture ne­cessarie, sottolineate dal fatto che nella scuola erano già iscritti 35 bambini handicappati, di cui 8 con grave handicap.

Ciononostante, la direttrice assegnò il V.M. ad una quarta classe.

Pochi giorni dopo, il Collegio dei docenti votò a maggioranza una mozione, secondo la quale le iscrizioni dei minori dovevano essere subordina­te all'assenza di un grave handicap. In una suc­cessiva riunione il Collegio dei docenti, occupan­dosi più specificamente dell'accoglimento del mi­nore V.M., decise di rifiutare l'iscrizione, facendo riferimento alla predetta mozione.

La direttrice dichiarò formalmente di non con­dividere la decisione, ma questa restò ferma nonostante vari interventi esterni. La direttrice trasmise per conoscenza copia dei verbali al Provveditorato ed a varie autorità.

Tramite queste fu investita del fatto l'autorità giudiziaria. Il Pretore di Livorno ritenne la diret­trice ed il vicedirettore del circolo colpevoli del reato di rifiuto di atti d'ufficio, per avere ricusa­to l'iscrizione e la frequenza, e li condannò alle pene di legge. Il Tribunale di Livorno confermò la sentenza. Entrambe queste magistrature ritenne­ro che esiste un diritto soggettivo degli handi­cappati a ricevere l'istruzione dell'obbligo nelle classi normali, e che l'eccezione (contemplata dall'art. 28 della legge 30 marzo 1971 n. 118) re­lativa ai casi di grave handicap è invocabile solo a posteriori, e cioè quando l'osservazione diretta dell'alunno accerti la gravità delle deficienze.

La Corte di Cassazione ha totalmente rifor­mato la pronuncia del Tribunale, assolvendo gli imputati perché il fatto non costituisce reato.

 

3. Le argomentazioni della Cassazione

Il ragionamento della Corte può schematizzarsi nelle seguenti proposizioni fondamentali:

a) scopo primario della scuola è quello di im­partire l'istruzione agli aventi diritto;

b) questo diritto non è assoluto in capo a tut­ti gli individui in età scolare, poiché la legge stes­sa (art. 28 della citata legge n. 118) considera determinate situazioni come ostative all'ammis­sione. Sono tali le «gravi deficienze intellettive», e le «menomazioni fisiche di tale gravità da im­pedire o rendere molto difficoltoso l'apprendimen­to o l'inserimento nelle predette classi normali»;

c) quando ricorrano questi requisiti negativi, il diritto soggettivo ad essere ammesso alla scuo­la normale assume un diverso oggetto, vale a dire si trasforma nel diritto a vedersi impartire l'istruzione in una struttura diversa ed apposita;

d) il potere di valutare se sussistano o meno queste situazioni ostative compete «all'amministrazione preposta al ramo di attività dato, pre­vio, ove occorra, un giudizio medico»;

e) questo potere dell'amministrazione non ur­ta contro la Costituzione, perché l'art. 34 Cost. sancisce il diritto all'istruzione, ma non impone che tale diritto debba essere soddisfatto attra­verso un'identica struttura; e d'altra parte, l'art. 97 Cost. tutela altresì il buon andamento dell'uf­ficio pubblico, il quale sarebbe inevitabilmente pregiudicato dalla contemporanea presenza di alunni normo-dotati e di alunni gravemente handi­cappati;

f) non è possibile procedere all'ammissione provvisoria dell'handicappato, e valutare solo successivamente la gravità del suo handicap, poi­ché la scuola ha il dovere di accertare preventi­vamente la menomazione, al fine di impedire un danno sia all'handicappato, sia alla classe intera.

 

4. Osservazioni critiche

4.1. La prima proposizione non richiede parti­colari commenti, se non il rilievo - sul quale si tornerà - che, se il compito primario della scuola è quello di impartire l'istruzione, tale com­pito non è l'unico, ma - a detta di molti opera­tori scolastici e della legge stessa - esso deve essere letto nel quadro di una «piena formazio­ne della personalità degli alunni», attenuando di molto il ruolo preponderante della mera trasmis­sione di conoscenze.

La seconda proposizione della Corte, vicever­sa, trascura ogni verifica dei contenuti e degli scopi dell'art. 28 della legge n. 118/1971. Tale legge, che detta «nuove norme in favore dei mu­tilati ed invalidi civili», prevede che, riguardo alle categorie di persone ora dette, «l'istruzione dell'obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica, salvi i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l'apprendimento o l'inserimento delle predette classi normali».

Da questo articolo discendono due deduzioni: la prima è che l'attenzione della legge è centrata esclusivamente sugli interessi dell'handicappato e non della comunità scolastica che lo circonda, nel senso che l'impedimento all'ammissione può derivare non da eventuali turbamenti al resto della classe, ma solo da difficoltà che lo stesso handicappato potrebbe incontrare.

Il secondo corollario è che l'insuccesso (dal punto di vista dell'handicappato) non deve esse­re misurato solo sul terreno dell'«apprendimen­to», ma anche su quello dell'«inserimento»: ed è noto che l'inserimento è concetto quanto mai delicato e vasto, comprendendo una somma di relazioni umane e sociali atte a sviluppare la per­sonalità del bambino, ben distinte dall'acquisizio­ne di un determinato corredo di conoscenze.

Orbene, solo quando la compresenza dell'han­dicappato nella classe normale non apportasse benefici né sul piano dell'apprendimento, né su quello dell'inserimento (come sopra inteso), sa­rebbe legittimo rifiutare l'ammissione del mede­simo alla classe normale.

4.2. Da quanto detto derivano due palesi ine­sattezze e lacune nell'impianto della sentenza. La prima è la non pertinenza del richiamo, fatto dalla Corte, all'art. 97 Cost. («i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione»).

Poiché l'art. 28 della legge n. 118/1971 orga­nizza la scuola nei termini detti or ora, ciò si­gnifica che il «buon funzionamento dell'ammini­strazione» deve essere concepito, appunto, co­me l'insieme delle prestazioni che la scuola deve fornire sia agli alunni normo-dotati sia agli han­dicappati, nell'equilibrio e con le modalità indi­cate dal predetto art. 28.

L'invocare - come fa la sentenza - il «dan­no della classe» e le «disfunzioni» conseguenti alla presenza degli handicappati è operazione ar­bitraria, perché contraria allo spirito ed alla let­tera della legge, e perché, in ultima analisi, so­stituisce l'opinione della Corte circa il buon fun­zionamento della scuola alla impostazione ed alle scelte fatte dal legislatore.

Che poi la compresenza dell'handicappato pos­sa produrre non già delle «disfunzioni», ma del­le esigenze supplementari, è un fatto innegabile: ma a questo si pone rimedio non escludendo l'handicappato (come conclude la sentenza), ben­sì introducendo sostegni scolastici compensativi (come infatti prevede la legge: art. 7 della legge 4 agosto 1977 n. 517; v. infra il par. 4.5.).

La seconda inesattezza nella quale è incorsa la Cassazione consiste nel considerare la scuola come ufficio preposto esclusivamente alla som­ministrazione dell'istruzione, la quale verrebbe compromessa dalla ricordata compresenza di bambini diversamente dotati.

Che così non sia è patrimonio non soltanto di tutti gli operatori scolastici, ma ormai anche della legge stessa, poiché l'art. 2 della legge 4 agosto 1977 n. 517 disciplina la programmazione educativa alla luce di un duplice fine, quello di «agevolare l'attuazione del diritto allo studio» e quello di conseguire «la promozione della pie­na formazione della personalità degli alunni».

Questa coppia di valori («istruzione» e «for­mazione della personalità») si colloca in signifi­cativo parallelismo con la coppia di valori consi­derata nel ricordato art. 28 della legge n. 118/ 1971 («apprendimento» e «inserimento»), e conferma che la c.d. socializzazione dello scola­ro è un obiettivo istituzionale avente pari dignità rispetto alla sua acculturazione, intesa nel senso tradizionale del termine.

In questo ordine di idee si può ulteriormente affermare che è un valore non trascurabile (e in­vece del tutto obliterato dalla Corte) anche il fe­nomeno simmetrico all'inserimento dell'handicap­pato, e cioè l'impulso alla crescita ed alla matu­razione che lo stesso scolaro normo-dotato rice­ve dalla compresenza del bambino menomato, nei cui confronti recepisce ed acuisce sentimenti di solidarietà e stimoli di sensibilità particolari.

4.3. Altra grave inesattezza della sentenza si riscontra là dove essa assegna il compito di va­lutare la gravità dell'handicap:

a) all'amministrazione scolastica, senza speci­ficare a quale livello;

b) all'amministrazione scolastica, senza richia­mare le procedure di garanzia previste dalla legge;

c) all'amministrazione scolastica, senza obbli­go di sussidi tecnici (il previo parere medico sa­rebbe richiesto solo «ove occorra»);

d) all'amministrazione scolastica in termini di vincolo negativo, nel senso che, accertata la gra­vità dell'handicap, ne scaturirebbe non solo la facoltà di rifiutare l'ammissione, ma addirittura l'obbligo, e l'eventuale ammissione sarebbe ille­gittima, per vizio dell'atto.

L'infondatezza di queste tesi si constata ad una semplice lettura del D.P.R. 22 dicembre 1967 n. 1518, che regolamenta i servizi di medicina scolastica. L'art. 31 del decreto, infatti, occupan­dosi dei soggetti che presentano anomalie o anor­malità somato-psichiche che non consentono la regolare frequenza nelle scuole comuni e che abbisognano di particolare trattamento ed assi­stenza medico-didattica, prevede una serie di se­gnalazioni culminanti nel medico scolastico. Que­st'ultimo sottopone i soggetti ritenuti irregolari alle indagini opportune e ad un eventuale ulte­riore periodo di osservazione; si avvale a tal fine della collaborazione dei centri medico-psico-pe­dagogici, di istituti specializzati e di medici spe­cialisti; riferisce all'autorità scolastica compe­tente, la quale, presi gli opportuni contatti con le famiglie interessate, procede all'assegnazio­ne dei soggetti alle classi differenziali o alle scuole speciali. Contro il provvedimento è am­messo ricorso al medico provinciale, il quale adotta il provvedimento definitivo.

Non priva di rilievo, infine, è la considerazione che le «differenziate strutture scolastiche» (le quali, secondo la Cassazione, dovrebbero rappre­sentare l'alternativa praticabile in presenza dei gravi handicap, e che avevano il nome di «classi differenziali» nella previsione della legge 31 di­cembre 1962 n. 1859, istitutiva della nuova scuo­la media) più non sussistono nella realtà opera­tiva scolastica, poiché l'art. 7 della ricordata leg­ge 4 agosto 1977 n. 517 le ha espressamente abo­lite. Onde, anche sotto questo profilo, l'intera problematica dell'handicappato deve essere af­frontata e risolta non in termini di dirottamento verso strutture speciali, ma verso la specializza­zione della struttura ordinaria che lo accoglie, realizzata attraverso le forme indicate dal pre­detto art. 7 (limitazione del numero degli alunni a 20 per le classi che accolgono dei portatori di handicap; integrazione specialistica dei docenti; servizio socio-psico-pedagogico; e tutte quelle «forme particolari di sostegno» che le peculia­rità dei casi rendano necessarie).

4.4. Il completo silenzio della Cassazione su tutti questi aspetti del problema conduce ad una ulteriore inesattezza sul punto relativo alla me­todologia che - secondo la sentenza - la scuo­la dovrebbe seguire per la valutazione della gra­vità dell'handicap. La decisione, infatti, sostiene che «l'amministrazione scolastica ha l'obbligo giuridica di valutare (l'anomalia) prima dell'am­missione alla frequenza»: ed è questo il punto nodale in cui contraddice la decisione del Tribu­nale, il quale aveva affermato che l'eccezione pre­vista dall'art. 28 della legge n. 118/1971 è invoca­bile solo a posteriori, quando l'osservazione di­retta del comportamento dell'alunno ed il giudi­zio tecnico scientifico abbiano accertato l'insupe­rabile gravità della carenza.

L'infondatezza del principio enunciato dalla Cassazione è sottolineata dal menzionato D.P.R. 22 dicembre 1967 n. 1518, posto che gli accerta­menti medici ivi previsti possono esigere un'os­servazione del bambino alla quale è funzionale l'esperimento scolastico. Ciò è tanto più vero nel caso in esame, dal momento che il minore V.M. aveva frequentato le prime tre classi ed era sta­to ammesso alla quarta: onde il problema si era acutizzato non per effetto di un aggravarsi della situazione personale del bambino, ma a causa del crescente numero di bambini handicappati già ammessi in quella scuola.

4.5. Non si può tacere che, se la tutela dell'han­dicappato è un valore meritevole di difesa giuri­dica, altrettanto degno è il valore costituito da­gli interessi degli alunni normo-dotati: e come il primo non può essere sacrificato in nome del secondo, così deve dirsi per il reciproco.

Ma la sentenza, che palesemente si è posta di fronte al problema del bilanciamento dei due valori, ha risolto l'antitesi in termini di assai dubbia correttezza.

Secondo la Cassazione il contemperamento de­gli opposti interessi si realizza escludendo I'han­dicappato dalia scuola normale quando la sua menomazione rende molto difficile il raggiungi­mento dello scopo primario della scuola, che è quello di impartire l'istruzione.

Secondo la legge, invece (e ci si riferisce all'art. 7 della legge 4 agosto 1977 n. 517) il bilan­ciamento si consegue compensando le oggettive difficoltà, nascenti dalia compresenza dell'handi­cappato, con adeguati rinforzi scolastici, che ri­muovano o riducano le disfunzioni.

Secondo la Cassazione il prevalere degli inte­ressi degli alunni normo-dotati insorge quando la menomazione dell'handicappato sia tale da ren­dere, di per sé, molto difficoltoso l'apprendimento o l'inserimento (e per giunta focalizzato sugli altri alunni).

Secondo la legge, invece, ed in particolare se­condo una lettura ad incastro degli artt. 28 della legge n. 118 e 7 della legge n. 517, la grave diffi­coltà al l'apprendimento od all'inserimento (la quale sola legittima l'esclusione) deve essere intesa come «difficoltà che permane nonostante siano stati attuati tutti gli interventi compensa­tivi previsti dalla legge».

Secondo la legge, insomma, il costo sociale dell'handicappato non deve ricadere né sul mede­simo, né sulla micro-collettività rappresentata dalla scuola che lo riceve, ma sulla comunità più ampia, che deve predisporre le strutture di so­stegno.

Secondo la Cassazione, invece, una volta con­statato che queste strutture sono carenti, il co­sto non può essere addossato alla comunità sco­lastica, e dunque ritorna sull'handicappato stesso.

Che questa sia la preoccupazione della Corte, traspare da più punti della decisione, e la si può anche condividere: a più riguardi si lamentano le «carenze nelle scuole delle strutture necessa­rie» e la «mancanza delle condizioni previste dalla legge per l'accoglimento dei minori handi­cappati»: e non è un mistero per alcuno che il problema è reso drammatico (non soltanto nella scuola di Livorno) dalla mancanza di personale specializzato, dalla scarsa qualificazione di quel­lo che esiste, e dalla penuria di mezzi necessari per il particolare tipo di attività didattica richie­sto dall'handicappato.

Ma la preoccupazione della Corte, legittima in linea di principio, offre un'indebita patente di legittimità a chi tollera queste carenze. Il ragio­namento ripete, con impressionante analogia. le cadenze di altre situazioni analoghe (si pensi, ad esempio, al diritto al lavoro, alla sanità, alla rifor­ma penitenziaria): quando una legge riconosce determinati diritti, e prevede la creazione di strut­ture per l'esercizio di tali diritti, ove le strutture non vengano realizzate, ne consegue (da un pun­to di vista giudiziario) la pratica negazione dell'esercizio del diritto riconosciuto.

Così facendo, la Cassazione finisce con l'assol­vere lo Stato dalle sue inadempienze, e con il condannare l'handicappato che ne è rimasto vit­tima.

 

 

SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE N. 478 DEL 30 MARZO 1981

 

La Corte Suprema di Cassazione composta da­gli Ill.mi Sigg. Dott. Faccini Giuseppe, Presiden­te; Dott. Grossi Mario, Dott. Gianni Pietro Pao­lo, Dott. Pierro Maurizio, Dott. Cersosimo Dome­nico, Consiglieri, ha pronunciato la seguente sen­tenza (omissis) avverso la sentenza del Tribunale di Livorno del 4.7.1980 con la quale D.V.A.T. e C.A. sono stati condannati alla pena di L. 300.000 di multa con interdizione dai pubblici uffici per an­ni uno e gli altri sono stati assolti per insufficien­za di prova.

Visti gli atti, la sentenza denunziata ed i ri­corsi;

Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dr. Cersosimo Domenico;

Udito il P.M. in persona del Sostituto Procu­ratore Generale Dr. Montesanti che ha concluso per l'annullamento senza rinvio per assoluzione di tutti gli imputati per mancanza di dolo.

Uditi i difensori.

FATTO E DIRITTO

Con sentenza del 4.7.1980 il Tribunale di Livor­no, confermando il giudizio del pretore locale, ha riconosciuto D.V.A.F. e C.A., rispettivamente qua­le direttrice e vice-direttore del circolo scolasti­co «M. D'Azeglio» di Livorno, colpevoli del rea­to di omissione di atti d'ufficio per avere rifiutato l'iscrizione e la frequenza alla scuola elementare «Carlo Bini», del minore V.M., portatore di han­dicap perché cerebroleso; ha assolto per insuffi­cienza di prova tutti gli altri ricorrenti, insegnanti nella scuola predetta, per insufficienza di prove in ordine al reato stesso a loro imputato a titolo di concorso quale partecipanti e votanti alla riu­nione del Consiglio dei docenti del 10.10 e 8.11.1978.

Agli inizi dell'ottobre 1978 i genitori di V.M. presentarono domanda di iscrizione alla IV clas­se elementare, unitamente a certificato sanitario, rilasciato dal medico provinciale, dal quale emer­ge che il bambino presentava «una sindrome di insufficienza mentale da cerebropatia, che l'esa­me psicomotorio evidenziava, tra l'altro, un no­tevole impaccio motorio a livello grafico all'età dello scarabocchio con instabilità dell'attenzione e degli interessi sostenuti soprattutto da gravi lacune gnosiche», che, infine, aveva frequentato formalmente la III classe ottenendo la promo­zione.

Domanda e certificazione vennero ricevute dal­la direttrice D.V.A.F. che, pochi giorni dopo, con­vocò gli insegnanti delle 4e classi per l'assegna­zione del minore, i quali manifestarono delle perplessità in ordine all'accoglimento di un altro bambino portatore di un grave handicap stante le carenze nelle scuole delle strutture necessarie - costituite da personale specializzato e mez­zi - per la realizzazione del particolare tipo di at­tività didattica, facendo rilevare che nella scuo­la «Bini» erano già iscritti 35 bambini handicappati di cui 8 con grave handicap; ciononostante la direttrice avverti l'insegnante C.V.F. che V.M. sarebbe stato assegnato alla medesima.

Il giorno 10 ottobre si riunì il Collegio dei do­centi - presieduto da C.A. - che, tra l'altro, discusse il 3° punto all'ordine del giorno, ossia la «situazione degli handicappati» con riferi­mento alla domanda di iscrizione di V.M. rilevan­dosi da alcuni l'obbligatorietà della iscrizione e da altri, stante la genericità della norma di cui all'art. 2 della legge 4.8.1977 n. 517, la facoltà di rifiutarla nel caso di grave handicap; la espe­rienza infatti aveva evidenziato la mancanza di risultati benefici conseguenti, in tale ipotesi, all'inserimento scolastico e la correlativa sussi­stenza di risultati pregiudizievoli al lavoro degli insegnanti e degli altri allievi a causa dell'asso­luta mancanza delle condizioni previste dalla leg­ge per l'accoglimento dei minori handicappati.

Al termine della discussione vennero votate tre diverse mozioni ed ottenne la maggioranza quella che subordinava nuove iscrizioni, secondo i termini di legge, al «grado» di gravità dell'han­dicap.

Trascorse un mese circa senza che il minore V.M. fosse ammesso a frequentare la scuola, fin­ché l'8.11.1978 la sua assunzione si ripropose nella nuova seduta del Collegio dei docenti che decise - quale organo deliberante in virtù dell'art. 4 L. 31.5.1974 n. 116 - di negare l'accogli­mento del minore con riferimento alla mozione approvata il 10 ottobre 1978; la direttrice D.V.A.F. dichiarò - in quella sede - di non condividere la decisione che restò ferma pur a seguito di in­terventi e pressioni della commissione scuola, del Provveditorato e di organi amministrativi co­munali. Il 14 novembre la direttrice trasmise per conoscenza copia dei verbali del 10.10.1978 e 8.11.1978 al Provveditore agli studi di Livorno e ad altri organi.

Nel gennaio 1979 V.M. venne tenuto in osser­vazione per circa un mese nell'istituto di Neuro­psichiatria infantile «Stella Maris» dell'Univer­sità di Pisa, a seguito della quale venne emesso un giudizio di sintesi dal quale emerge che V.M. è «soggetto affetto da insufficienza mentale, infantilismo motorio» che «le capacità cognitive sono riferibili a uno stadio preparatorio con atti­tudini grafiche prescolastiche». Nel marzo 1979 V.M. fu ammessa a frequentare su intervento del Provveditorato, nella scuola integrata di Via Dei Pelegi.

I giudici di merito hanno ritenuto la consuma­zione del reato di omissione di atti d'ufficio opi­nando che esiste un diritto soggettivo perfetto degli handicappati a ricevere l'istruzione dell'ob­bligo nelle classi normali della scuola pubblica, giusto il disposto dell'art. 28 legge 30.3.1971 n. 118, che l'eccezione ivi contemplata è invocabile solo a posteriori quando l'osservazione diretta del comportamento dell'alunno e un giudizio tec­nico scientifico da parte degli organi specializza­ti accerti che si tratta di soggetto affetto da gravi deficienze intellettive o di menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto diffi­coltoso l'apprendimento e l'inserimento nelle pre­dette classi normali secondo il precetto di legge in materia da interpretarsi in tal senso al lume degli articoli 3, 34 e 38 della Costituzione; che nulla rilevano le eventuali deficienze organizzati­ve della scuola; che destinatario dell'obbligo di ammissione e conseguente frequenza è da con­siderarsi il direttore didattico o chi ne fa le veci; che, dal punto di vista oggettivo, l'intervento dei docenti che avevano votato la mozione di inam­missibilità di V.M. si era posto come condotta concorrente a quella del direttore restando però dubbia l'esistenza del dolo, che era da escludere l'errore su norma extrapenale incidente sul fatto.

Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per Cassazione tutti gli imputati.

Sono comuni a tutti i ricorrenti i seguenti mo­tivi:

1) Violazione dell'art. 28 della legge n. 118 del 1971 in quanto espressamente prevede l'esclusio­ne di handicappati gravi dalla iscrizione nelle scuole normali avendo i giudici di merito erro­neamente e illogicamente ritenuto che un tale riscontro è solo successivo all'inserimento nella scuola mentre l'inesistenza di un tale handicap é presupposta per la ammissione e il V.M. era riconosciuto a livello prescolare nella certifica­zione allegata alla domanda;

2) Violazione dell'art. 2 L. n. 517 del 1977 che ha come presupposto oggettivo per l'inserimento di handicappati nella scuola normale strutture psico-pedagogiche particolari completamente as­senti nella «Bini»; che l'inserimento di handi­cappati in scuole normali è correlato alla presen­za di tali strutture, trova conferma nelle circolari ministeriali in materia che, per il raggiungimen­to dell'obiettivo di un inserimento reale teso alla personalizzazione della formazione dell'alunno, prescrivono immissione graduale correlata alla presenza di particolari strutture;

3) Violazione delle norme che concernono l'ele­mento psichico del reato posto che la volontà degli imputati era diretta ad evitare al minore un inserimento pregiudizievole per il minore stesso, stante l'assenza delle strutture necessarie e non ad eludere un obbligo giuridico;

4) Violazione dell'art. 47 C.P. ricorrendo co­munque, posta la incertezza interpretativa delle norme che regolano l'accesso degli handicappati alla scuola normale, l'errore su norme extrape­nali incidenti sul fatto, incertezza emergente, ol­tre che obiettivamente dallo stesso parere espresso dall'Avvocatura dello Stato di Genova.

Il C.A. deduce, poi, violazione degli artt. 42 e 43 del C.P. e difetto di motivazione della senten­za in quanto, ritenuta la competenza esclusiva del direttore didattico per la iscrizione alla scuo­la, è stata poi ritenuta penalmente rilevante la sua condotta che si è manifestata solo con la votazione di mozione per la quale gli altri docenti sono stati assolti con formula piena, in quanto nella sua attività di vicario, nel periodo di assen­za della direttrice, non ebbe a svolgere alcuna attività contraria alla pretesa di V.M., essendo già stati adottati i provvedimenti di iscrizione e ammissione, ma, anzi, chiese istruzione all'orga­no gerarchicamente superiore, ponendo il quesi­to se il capo dell'istituto, trovandosi in disaccordo con una risoluzione del Collegio dei docenti po­tesse decidere sulla situazione data.

La ricorrente D.V.A.F. deduce anche la violazio­ne dell'art. 34 D.P.R. 31.5.1974 n. 417 e dell'art. 4 D.P.R. 31.5.1974 n. 416 rilevando che rientra nei compiti del Collegio dei docenti, nel quadro di una gestione didattico-amministrativa della scuo­la, l'ammissione e la frequenza degli alunni sic­ché non era ipotizzabile un suo provvedimento che consentisse la frequenza della scuola a V.M. stante la mozione, approvata dall'organo collegia­le di cui ella faceva parte, pur se da lei non con­divisa e dalla quale si era dissociata; deduce, altresì, il difetto di motivazione per apoditticità di affermazione e omissione di valutazione di fatti rilevanti in relazione alle attività da lei svol­te per la soluzione del problema degli handicap­pati.

I ricorrenti, assolti per insufficienza di prove, rilevato il contrasto tra l'affermazione - con­tenuta in sentenza - della incompetenza del Col­legio dei docenti in materia di ammissione e fre­quenza degli scolari e la apodittica asserzione che la risoluzione votata abbia rafforzato il pro­posito della direttrice di non ammettere il V.M. lamentano anche il difetto di motivazione in or­dine alla assoluzione per insufficienza di prove sul dolo in quanto tutte le argomentazioni adotta­te in precedenza sono affermative dell'elemento psicologico.

Il primo motivo di ricorso, comune a tutti i ri­correnti, è fondato.

L'art. 28 della L. 30.3.1971 n. 118 statuisce che la istruzione dell'obbligo in favore dei mutilati e invalidi civili - tra i quali sono da ricomprender­si gli irregolari psichici e insufficienti mentali giusto il disposto dell'art. 2 della stessa legge deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica, con esclusione dei soggetti affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fi­siche di tali gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l'apprendimento o l'inserimento nelle classi stesse.

La formulazione di questa norma consente di affermare i seguenti principi:

a) scopo primario della scuola è quello di im­partire l'istruzione agli aventi diritto; ne è con­ferma la lettera del 2° comma dell'art. 34 della Costituzione la cui ratio è l'eliminazione della piaga dell'analfabetismo in armonia al precetto di cui al 1° capv. dell'art. 34 della Carta costitu­zionale;

b) requisiti negativi per l'ammissione a fre­quenza delle scuole normali sono tutte quelle deficienze intellettive o fisiche la cui gravità è tale da escludere o rendere molto difficile che lo scolaro possa raggiungere lo scopo che l'ammi­nistrazione pubblica tende a conseguire attraver­so l'organizzazione di un apparato di mezzi e do­centi;

c) competente ad accertare e valutare l'esisten­za dei requisiti di ammissione alla frequenza della scuola normale, in relazione al consegui­mento dei fini istituzionali, è l'amministrazione preposta al ramo di attività data, previo, ove oc­corra, un giudizio medico.

Da tale principio consegue che, contrariamen­te a quanto opinato dai giudici di merito, non esi­ste un diritto soggettivo perfetto di qualsiasi cit­tadino in età scolare dell'obbligo di essere am­messo alla scuola normale, essendo fatto espres­samente salvo il potere dell'amministrazione sco­lastica di escludere determinati soggetti grave­mente handicappati con una valutazione di con­venienza e opportunità - sia oggettiva che sog­gettiva - come emerge dalla previsione della rilevante difficoltà sia dell'inserimento nella sco­laresca che dell'apprendimento.

Né può ritenersi che un tale potere dell'ammi­nistrazione sia incompatibile con il dettato costi­tuzionale, posto che l'art. 34 della Corte Costitu­zionale sancisce il diritto alla istruzione ma non certamente che un tale diritto debba essere sod­disfatto con una identica struttura; d'altra parte un inserimento indiscriminato di handicappati - qualsiasi sia la gravità dell'handicap - sareb­be contrario, per l'inevitabile disfunzione della contemporanea presenza di alunni normo-dotati e di gravemente handicappati, al principio costi­tuzionale del buon andamento dell'ufficio pubbli­co (art. 97).

Appare razionale, invece, la predisposizione di speciali e differenziate strutture scolastiche che evitino una tale disfunzione e soddisfino congiun­tamente il diritto degli handicappati gravi sicché è da escludersi qualsiasi contrasto con il prin­cipio costituzionale di parità (art. 3) essendo noto che la giurisprudenza costituzionale lo ha esclu­so in presenza di condizioni soggettive - natura­li o giuridiche - differenziate che non consento­no razionalmente una identità di trattamento e a fortiori quando tale identità si traduca in un con­flitto con altri principi costituzionali.

Ciò posto, va osservato che ove le condizioni psico-fisiche di un soggetto in età della scuola d'obbligo siano state accertate da un esercente la professione medica - in assenza di una pre­visione normativa che deputi l'accertamento a un determinato soggetto o équipe specializzata - e tale accertamento evidenzi un handicap nella sfera intellettiva o fisica, l'amministrazione sco­lastica ha l'obbligo giuridico di valutarlo prima della ammissione alla frequenza - non solo per motivi formali ma per impedire un danno all'han­dicappato e alla classe in cui venisse inserito - e, ove l'handicap venga ritenuto incompatibile con lo scopo primario di impartire a quel deter­minato soggetto l'istruzione in una scuola nor­male, deve essere negata l'ammissione salvo i rimedi giuridici contro il provvedimento di esclu­sione; solo se un accertamento preventivo non sia stato effettuato e non appaia icto oculi l'esi­stenza di un handicap come qualificato dall'art. 28 di cui sopra, l'amministrazione della scuola deve ammettere l'alunno, salvo il potere di un accertamento successivo delle condizioni fisio­psichiche onde dedurne l'idoneità alla continua­zione della frequenza.

Nella fattispecie concreta alla domanda di iscri­zione venne allegato un certificato di un medi­co - esercente un pubblico ufficio quale medico provinciale - dal quale risultava sia la qualità di cerebroleso con insufficienza mentale e note­vole impaccio motorio, sia la gravità delle lacune della conoscenza e l'incapacità assoluta di scri­vere - diagnosi completamente confermata dalla clinica di neuropsichiatria infantile dell'Universi­tà di Pisa - sicché legittimamente gli organi scolastici hanno dedotto la gravità degli handicap in relazione e all'apprendimento della istruzione da impartirsi in una IV classe elementare nor­male e all'inserimento nella stessa.

Avendo l'amministrazione provveduto in con­formità alla legge ne consegue che il fatto non costituisce reato in quanto la condotta degli im­putati, lungi dall'essere diversa da quella pre­scritta è quella che era da attendersi in base alla norma che disciplina il diritto-dovere degli handi­cappati gravi alla scuola dell'obbligo.

Né ha alcuna rilevanza il fatto che in prece­denza fossero stati ammessi alla scuola degli handicappati gravi in quanto una tale ammissio­ne è motivo di illegittimità dell'atto amministra­tivo di ammissione degli stessi ma non è certo idoneo a far qualificare l'esclusione di V.M, quale omissione in quanto il giudizio di valore da espri­mersi dal giudice deve tener solo conto della con­dotta imputata e della norma giuridica che impo­ne all'agente un certo comportamento in esecu­zione dei suoi doveri di ufficio; una condotta, quindi, conforme alla norma di comportamento non può assumere rilevanza penale con la sua diversità in casi analoghi ma, al più, determinare un vizio dell'atto amministrativo.

P. Q. M.

Visti gli artt. 537 e 539 C.P.P. annulla senza rinvio l'impugnata sentenza nei confronti di tutti i ricorrenti perché il fatto non costituisce reato.

 

 

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