Prospettive assistenziali, n. 56, ottobre - dicembre 1981
Notiziario dell'Associazione nazionale
famiglie adottive e affidatarie
POLEMICHE
SULL'ADOZIONE
Elena Marinucci, esponente di primo piano del
PSI, ha attaccato a fondo l'adozione speciale con un articolo apparso
sull'Avanti del 29 luglio scorso.
Hanno replicato,
fra gli altri, Giorgio Pallavicini, Presidente
dell'ANFAA, sullo stesso giornale dell'8 settembre e
Alfredo Carlo Moro su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 18 settembre.
Pubblichiamo
integralmente i tre articoli, sottolineando la necessità che tutti i Soci
intervengano presso Ministri, Parlamentari, Regioni, Enti locali, partiti e
sindacati affinché le nuove norme sull'adozione speciale e sull'affidamento
familiare a scopo educativo non siano più arretrate
di quelle attualmente in vigore (come vorrebbero alcuni, fra cui la Marinucci stessa, il Ministro di Grazia e Giustizia e
qualche Parlamentare), ma assicurino - finalmente - una effettiva tutela ai
minori che sono in situazione di abbandono o che debbono essere allontanati
dalle loro famiglie d'origine.
Adozione speciale contro i genitori
di ELENA MARINUCCI
Una delle affermazioni più diffuse e condivise è
quella secondo la quale la legge 5 giugno 1967 n. 431, che ha introdotto nel
nostro ordinamento giuridico la cosiddetta «adozione speciale» avrebbe segnato un'importante tappa e una svolta di tipo
progressista per quanto attiene l'atteggiamento dello stato rispetto al
problema dei bambini abbandonati.
Il progresso sarebbe consistito nel fatto che questa
legge consente di recidere definitivamente i rapporti giuridici con i genitori
naturali.
Questo, che è un innegabile vantaggio per i genitori
adottivi, che così hanno potuto prendersi un bambino garantito dal rischio
dell'evizione, è stato propagandato, e anche a sinistra acriticamente considerato
un superamento del patriarcale diritto dei genitori
sui figli.
Così una legge che viola un fondamentale principio
della costituzione repubblicana - il diritto dei genitori a mantenere, allevare
e istruire i propri figli - che appalta a terzi il dovere costituzionale dello
stato ad assolvere a quei compiti se e fino a quando i
genitori ne sono impediti, è stata accreditata come una legge di grande impegno
sociale.
Il che, negli anni delle grandi battaglie per i
diritti civili, negli anni in cui si è rivendicato da parte dei cittadini il
diritto a disporre di sé e si è chiesto allo stato di
limitarsi a garantire (ove occorra a sostenere) e di astenersi dal vietare e
dall'imporre nell'ambito del privato (pensiamo alle leggi sul divorzio, sull'aborto,
all'abrogazione del reato di adulterio e concubinato), è stata fatta passare
per progressista una legge il cui «pregio» consiste nel demandare ad un organo
dello stato il diritto a «disporre» dei figli di genitori «incapaci» - privi
cioè della capacità giuridica perché minorenni, o, della capacità economica. È
stato gabellato come di sinistra e sociale un intervento che semmai è stato
totalitario.
Nei dodici anni della sua applicazione questa legge
ha trasferito migliaia di bambini da famiglie proletarie a famiglie piccolo o
medio borghesi: un inesorabile meccanismo che una certa cultura di sinistra
ha avallato e continua ad avallare in nome di un interventismo statalista che
ha molto poco a cuore la libertà dei cittadini.
Se la filosofia di questa legge non è accettabile,
si può tuttavia riconoscere che fino a quando c'erano bambini abbandonati,
l'adozione «speciale» - che dà alla famiglia adottiva la certezza di non
correre in nessun caso il rischio di perdere il bambino - è stato uno strumento
utile per incoraggiare le adozioni e dare così un
focolare ai bambini soli. Ma ora che di bambini abbandonati non ce ne sono
quasi più - quelli che, troppo numerosi ancora, stanno negli istituti sono ricoverati
su richiesta dei genitori e parenti che non hanno la
possibilità di tenerli presso di sé e che spesso pagano anche una retta - è
diventato uno strumento terribile.
La propensione ad adottare
incentivata in maniera spasmodica fa sì che la domanda di bambini superi largamente
l'offerta e questo fenomeno sta generando veri e propri mostri.
Nella cronaca anche recente c'è la testimonianza di interventi praticati sullo sfascio di famiglie di
disoccupati e sottoccupati o sull'esaurimento delle ragazze madri, che sono
interventi di sapore razzista e classista.
Il presidente del tribunale dei minorenni di Palermo,
ora sotto inchiesta, è arrivato a togliere, uno dopo l'altro, ben dieci figli a una stessa famiglia in disagiate condizioni.
Per soddisfare il bisogno di «famiglia perfetta» con
l'aureola della generosità, si sono colpiti i più
poveri e i più deboli.
Invece di sostenere i genitori, si è preferito
sostituirli.
Violando così non solo la norma costituzionale ma
anche impegni internazionali. In effetti la convenzione
europea sull'adozione ratificata dall'Italia con la legge 22 maggio 1974 n.
357, impegna infatti i paesi firmatari a non consentire che siano pronunciate
adozioni senza il consenso espresso della madre e, se il bambino è legittimo,
anche del padre o, in mancanza, dei congiunti. La Risoluzione del comitato dei
ministri del Consiglio d'Europa del 3 novembre 1977,
vista la dichiarazione dei diritti del bambino dell'ONU, raccomanda agli stati
membri di adeguare le legislazioni tenendo conto di alcuni principi fondamentali
primo fra questi quello di evitare, mediante misure preventive di aiuto alle
famiglie, il ricorso a forme di piazzamento del bambino fuori del nucleo
familiare e quello di fare in modo che comunque siano mantenuti i rapporti con
la famiglia d'origine.
Una delle «8» proposte presentate da Maria Magnani Noja, quella sulla revisione dell'istituto dell'adozione, prevede tutta una
serie di misure capaci di porre fine a questo dramma. Attualmente è all'esame del Senato dove un comitato ristretto, a cui
partecipa Margherita Boniver, sta preparando un testo
unificato sulla base anche dei progetti del partito comunista, della democrazia
cristiana e uno governativo. Lo stesso comitato sta mettendo
a punto la proposta di legge sull'adozione internazionale.
Ma ogni modifica legislativa sarà inutile se non si
fa uno sforzo per riesaminare socialmente e culturalmente questo fenomeno della
propensione all'adozione e quello che comporta.
Chi vuole adottare è convinto di fare una buona
azione.
Su questa onesta convinzione
si imbastiscono i traffici più disonesti: basti pensare allo scandalo di Bogotà, riportato dall'Avanti!
del 22 luglio, che dimostra molto chiaramente come
troppo spesso anche dai paesi del cosiddetto Terzo Mondo i bambini partono non
perché sono soli, orfani o abbandonati, ma perché vengono sottratti con
l'inganno ai loro infelici genitori.
Bisogna cominciare a domandarsi allora se adottare è
veramente una buona azione.
Una ricerca pubblicata sul numero 49-50 di Inchiesta, sui perché dell'abbandono dei
figli da parte delle madri dimostra in maniera agghiacciante che solo in
rarissimi casi «l'abbandono» è deciso e dichiarato dalla donna o anche solo di
fatto realizzato. Per la maggior parte dei casi è «pronunciato» dal Tribunale
dei Minorenni contro la volontà dei genitori naturali, sulla base dei rapporti
delle assistenti sociali, onestamente convinte che «l'interesse del minore»
consista nel cambiare status divenendo figlio legale di una brava coppia di
commercianti piuttosto che figlio naturale di una povera prostituta, di una
vedova, di un carcerato, di un alcolizzato. I quali poi sono
costretti a battersi contro una procedura kafkiana e poiché sono deboli e
senza mezzi, spesso senza successo.
Bisogna cominciare a domandarsi se
non ci sia del feroce razzismo in chi comunque crede che questo sia utile al
bambino.
Bisogna cominciare a studiare i
danni dello sradicamento.
Bisogna interrogarsi sul concetto
di generosità. C'è un modo per
essere generosi, occuparsi di bambini bisognosi di aiuto
nell'attesa che i genitori escano dalle difficoltà in cui si trovano senza
toglierli loro ma anzi mantenendo costanti rapporti, per togliere i bambini
dall'istituto e farli vivere in un ambiente familiare, magari insieme ai propri
figli senza però volersene appropriare. Ed è di
prendere i bambini in affidamento. Ma la propensione a questa forma di
generosità gratuita, cioè senza compenso, senza
ammortamento del capitale affetto, senza proiezioni nel futuro, non esiste.
Alcuni tribunali dei minorenni l'hanno tentata ma non trovano famiglie disponibili.
È questa propensione, invece, che va incentivata.
Se vogliamo che non si producano più i mostri della
compravendita dei bambini, della spoliazione dei
bambini da parte dell'autorità giudiziaria, della tratta dei bambini.
I diritti di chi nasce
di GIORGIO PALLAVICINI
L'Avanti! del 29 luglio scorso ha pubblicato una nota dal titolo «Adozione
speciale contro i genitori» di Elena Marinucci e sui suoi contenuti, non fosse altro che per
amore di verità, sento il dovere di fare le seguenti precisazioni.
Il principale carattere innovativo della legge del 6
giugno 1967 n. 431, consiste nel fatto che il legislatore, per la prima ed
ultima volta nella storia del nostro diritto, ha considerato come preminente
l'interesse del minore. Vi è chi ha definito efficacemente questo
episodio una «rivoluzione copernicana»; io mi limito ad osservare come
questa legge finalmente riconosca il minore come portatore di diritti
soggettivi; il che non solo è innovativo ma anche giusto.
Il fatto che questa legge consenta di rescindere i
legami giuridici del minore con la famiglia d'origine
che lo ha abbandonato non è altro che la logica conseguenza di quanto detto, in
quanto solo attraverso questa atto è possibile che l'adottato acquisisca
pienamente lo stato di figlio legittimo degli adottanti senza subire alcuna
discriminazione o altro.
Altro aspetto innovativo su cui si basa questa legge
è il riconoscere che il rapporto materno e/o paterno con un ragazzino non si instaura automaticamente per motivi biologici ma si realizza
in concreto solo quando si stabilisce un reale legame affettivo ed educativo:
il che mi sembra, anzi è, di enorme e fondamentale importanza.
Non è vero che la legge 431 viola, come afferma la Marinucci, la Costituzione. Facendo questa
affermazione l'autrice dell'articolo dimostra di tenere conto solo di
quello che porta acqua al suo mulino; infatti la nostra Costituzione, all'art.
30 così recita: «È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio»,
però aggiunge: «Nei casi di incapacità dei genitori,
la legge provvede a che siano assolti i loro compiti».
Prima dell'approvazione della 431 lo Stato e le
«brave persone» provvedevano alle difficoltà dei
minori giusto quanto previsto da questo comma secondo, esclusivamente con lo
sbatterli negli istituti; con l'introduzione dell'adozione speciale parecchie
decine di migliaia di minori hanno potuto sfuggire a questa soluzione che,
come provano tutti gli studi compiuti, è la peggiore che si possa immaginare.
Altra affermazione priva di ogni
fondamento è quella riguardante la presunta violazione degli impegni
internazionali sottoscritti dal nostro governo: infatti la Convenzione Europea
contempla per l'adozione che il consenso non è richiesto se il padre (o la
madre) è stato privato dei suoi diritti parentali nei confronti del minore.
Niente da eccepire quando la Marinucci
sostiene l'inderogabile necessità di operare fattivamente
per eliminare le cause che contribuiscono a determinare le condizioni di
abbandono dei minori. Da più di un decennio l'Associazione Nazionale Famiglie
Adottive e Affidatarie (ANFAA) e quanti si preoccupano che i diritti dei minori
non siano conculcati, si batte perché chi di dovere
(oggi gli enti locali), metta concretamente in atto tutti gli interventi capaci
di prevenire, eliminare o almeno contenere le situazioni di difficoltà per i
bambini. Sotto questo profilo è esemplare la delibera che il Comune di Torino,
anche sotto la spinta dell'ANFAA e delle altre forze
sociali democratiche, ha assunto il 20 luglio 1976, nella quale si stabilisce
un quadro articolato di interventi secondo una precisa scala di priorità. Tali
interventi sono:
- la messa a disposizione dei servizi primari (casa,
scuola, lavoro, ecc.);
- l'assistenza domiciliare anche di carattere
educativo;
- l'assistenza economica; -
l'affidamento educativo;
- l'istituzione di comunità alloggio;
- segnalazione ed adempimenti di servizi sociali per l'adozione.
Il ricorso all'adozione è previsto solo
quando permangono condizioni di «abbandono morale e materiale» del
minore nonostante siano stati attuati gli interventi di sostegno alla famiglia
d'origine.
Questa scelta, che è la scelta
corretta, colloca l'adozione speciale come uno degli strumenti alternativi al
ricovero in istituto e non come l'unico strumento.
La Marinucci scopre l'acqua
calda quando afferma che l'abbandono matura particolarmente nella parte povera
ed emarginata della nostra società. Tuttavia, ed è
questa la domanda, che cosa fare quando il ragazzino è in situazione di totale
abbandono, situazione destinata a rimanere tale per la
mancanza di servizi o perché è tanto incancrenita da non far balenare alcuna
prospettiva di ricupero?
La delibera del Comune di Torino è esemplare non solo
perché è stata formulata correttamente ma, purtroppo, perché attualmente
costituisce uno dei pochissimi esempi di un impegno ad intervenire secondo
modi e metodi adeguati.
Per il resto, al di là delle
parole, la realtà è quella che è e l'unica possibilità offerta al bambino in
difficoltà è l'istituto con le note conseguenze.
Sbaglia quindi la Marinucci quando sostiene
che la filosofia di questa legge non è accettabile; sbaglia quando afferma che
è una legge anticostituzionale; sbaglia ancora quando afferma che viola gli
accordi internazionali; la imbrocca, invece, quando sostiene che manca una
reale politica di interventi alternativi al ricovero dei minori di cui,
aggiungo io, l'adozione speciale è parte indispensabile.
Riassumendo, se è sbagliato togliere il bambino ad
una famiglia solo perché è povera e senza aver provveduto a
sostenerla nelle sue difficoltà, lo è almeno altrettanto il lasciarle il bambino
abbandonato a se stesso. La Marinucci forse non sa
che tanti ragazzini, per i quali era stato disposto lo stato di
adottabilità e che in seguito all'accoglimento di appello proposto dalle
relative famiglie sono stati lasciati alle stesse, hanno concluso la loro
povera odissea a marcire in istituto.
L'autrice dell'articolo infatti
trascura i casi, tutt'altro che infrequenti, del o
dei genitori che reclamano il possesso del bambino senza avere un minimo di
interesse affettivo per questa bambino.
Non entro nel merito dei motivi che spingono tante
madri e padri «padroni» a questo atteggiamento possessivo
fine a se stesso, o a esercitare su questi bambini violenze di ogni genere,
dalla violenza carnale ai maltrattamenti. Ciò che mi preme rilevare è che in
questi casi, per i ragazzini l'unica prospettiva è l'istituto.
Sul finire della nota, l'autrice mette sul tappeto
una serie di interrogativi sul fenomeno della
propensione all'adozione. Non concordo su questo modo di impostare il
problema: secondo la nostra esperienza questa cosiddetta «propensione all'adozione» è quasi sempre una legittima «propensione»
ad avere dei figli. Si potrà discutere se la propensione ad avere figli sia da
incoraggiare o meno, resta il fatto che se la specie
umana è arrivata fino ad oggi, per di più affermandosi su tutte le altre
specie viventi ed adattandosi a tutte le condizioni ambientali (dai tropici ai
poli), questo è dovuto in buona parte a questa «propensione». Che poi questa
propensione si possa realizzare o in forma «autarchica» da parte della coppia
tramite l'adozione o in entrambi i modi, la cosa è di scarso rilievo se si è
convinti di quanto si è già detto, che cioè si diventa
madri o padri solo quando si è disposti a prendere per mano un ragazzino,
qualunque esso sia, ed accompagnarlo nella vita fino a quando ne ha bisogno.
Un bambino quando viene al mondo non corre pericolo
nel fatto di dover essere adottato o meno, ma nel
fatto di trovare dei genitori, naturali o meno non conta, possessivi e/o
insufficientemente disponibili. È in questo secondo caso, infatti, che il
bambino viene considerato strumento e oggetto degli
adulti, variabile dipendente di un sistema di cui la variabile indipendente è l’adulto.
L'adottare non è di per se
stesso buono a cattivo, come non è buono o cattivo il procreare; quella che
conta è quello che viene dopo, cioè la qualità del rapporto bambino-genitori.
Quindi se è necessario evitare nel modo più assoluto
interventi più o meno drastici quando sussistono
positivi rapporti tra il minore ed i suoi, questi interventi sono invece
indispensabili quando i legami sono soltanto formali e nascondono il
disinteresse affettivo per il minore. Se si sta dalla parte del bambino, al
verificarsi di questi casi, si deve avere il coraggio di intervenire e
demistificare una situazione di cui a pagare le spese è il bambino, quasi sempre in modo gravissimo, a volte anche
irreversibile.
Per un genitore, una famiglia o un «clan» farsi
portare via il ragazzino, perché «in abbandono morale e materiale», senza
reagire significa anche «non fare una bella figura», ed è per questo che nella
gran parte dei casi in cui vi è una dichiarazione di stato di
adottabilità, il genitore, la famiglia, il clan fanno opposizione: si
rivendica il possesso del bambino, come proprietà inalienabile dei genitori.
Più raramente di quanto non creda la Marinucci,
dietro tale reazione vi è un reale interesse per il bambino. Per lo stesso motivo
è molto infrequente, a parte i neonati, che una famiglia consapevole dei suoi
limiti rinunci al ragazzino spontaneamente mentre
invece è del tutto normale che lo ricoveri in istituto.
Ed allora in questi casi come la mettiamo? Si ha il
dovere di interferire o no? La Marinucci propende
per il nome della libertà dei cittadini e contro un intervento statalista, e la
cosa mi sembra veramente assurda, per usare un eufemismo, in quanto se non
altro si dimentica che anche i bambini hanno diritto a crescere liberi.
L'affermazione però non mi stupisce ricordando le
fiere battaglie che taluni hanno sostenuto in difesa della libertà di vendere i
propri figli come capretti pasquali.
Per spiegare questa affermazione
è necessaria una breve digressione.
In Italia è possibile adottare oltre che con l'adozione
speciale, a cui mi sono riferito fino a questo punto, anche con l'adozione
ordinaria. Tale adozione consente a tutti, coppie o singole
persone, purché siano senza figli propri, di adottare; per tale adozione non è
richiesto alcun requisito educativo, è sufficiente avere l'assenso dei familiari
del minore. Il bambino non acquisisce lo status di figlio nella pienezza dei
suoi diritti, come avviene invece con l'adozione
speciale, ma rimane figlio della famiglia d'origine «adottato da»; grazie al
permanere nel nostro ordinamento di tale adozione è possibile che chi vuole un
figlio se ne appropri, comperando l'assenso dei suoi familiari e sfuggendo
legalmente ad ogni controllo pubblico.
Con questo sistema la famiglia d'origine è libera di
disfarsi del bambino dandolo a chi vuole con buona
pace di chi si preoccupa di salvaguardare preminentemente l'interesse del
minore e pretende che chi adotta abbia i requisiti necessari. Aggiungo che,
anche grazie al permanere di tale tipo di adozione, è
possibile realizzare l'importazione di tanti bambini stranieri senza assicurare
loro quelle garanzie che, al contrario, sono date ai bambini italiani quando
sono adottati in base alla legge 431.
Da tempo l'ANFAA chiede che venga
abolito questo tipo di adozione (questo sì veramente pericoloso) trovando però
l'opposizione di quelli che vogliono salvaguardare il concetto di figlio-oggetto
e che sventolano la logora bandiera del «la mamma ha sempre ragione».
È curioso - mi si consenta l'osservazione come su
tale concetto si venga ad intessere una ambigua rete
di fili rossi e di fili neri che ha come unico scopo quello di negare al
ragazzino il proprio diritto ad avere una famiglia che sia la migliore
possibile.
Per fortuna, nonostante tutto, sembra che la
ragionevolezza stia per avere il sopravvento: le proposte di legge del PSI presentate al Senato da Cipellini
ed alla Camera dalla Magnani Noya prevedono infatti
l'abolizione dell'adozione ordinaria e, per quanto ne so, il Comitato
ristretto incaricato è propenso, se non ad abolire, come sarebbe giusto, almeno
contenere drasticamente il campo di applicazione di questo tipo di adozione.
Ritornando al discorso di fondo,
non posso concludere senza esprimere il mio profondo sconforto nel vedere
così maltrattata sull'organo ufficiale del PSI, la verità ed anche la logica.
Delle affermazioni ed interpretazioni false contenute
nell'articolo a cui mi riferisco, ne ho infatti elencate parecchie; per quanto
riguarda la logica preciso che non mi riesce di
capire come si possa giudicare utile una legge quando viene applicata ai
bambini abbandonati alla nascita, e mostruosa quando viene applicata ai bambini,
sempre abbandonati, ma che dispongono di genitori legali (per inciso gli
abbandonati alla nascita, checché ne pensi la Marinucci,
sono ancora numerosi). Allo stesso modo non mi riesce di
capire come si possa confondere il diritto sacrosanto dell'adulto a disporre
di sé con quello, sempre dell'adulto, a disporre del proprio nato senza alcun
limite e contro l'interesse del piccolo stesso.
In sostanza, l'unico punto su cui sono
d'accordo e ne dò atto volentieri, è quello relativo
all'esigenza di creare servizi di sostegno per chi è in difficoltà: su questo
la Marinucci sfonda una porta aperta e l'A.NFAA e quanti altri condividono queste posizioni hanno
sempre sostenuto questa esigenza: a convalidare tale affermazione sta
l'attività concreta svolta in quasi vent'anni da
questa Associazione di cui è buona testimone una ricca documentazione a
disposizione di tutti.
Ritorna il «padre padrone»?
di ALFREDO CARLO MORO
Due articoli apparsi sulle colonne dell'«Avanti» - a firma di un autorevole componente del Comitato centrale del Psi
- meritano di essere segnalati per alcune singolari tesi sostenute.
Non solo infatti si chiede
l'abolizione di uno strumento giuridico come l'adozione speciale che finalmente
ha riconosciuto anche al ragazzo un autonomo diritto a sviluppare la sua
personalità in un adeguato ambiente familiare. Ma - e ciò è ancora stupefacente
- si àncora questa richiesta
ad un concetto di assoluta libertà individualistica che profondamente ribalta
la tradizionale filosofia politica socialista.
Non sappiamo se gli organi ufficiali del Psi concordano con le tesi
accolte dal quotidiano del partito e se conseguentemente vi è stato un radicale
mutamento nei confronti di progetti di legge presentati anche da autorevoli
parlamentari socialisti e che sono di segno opposto alle conclusioni e alle
motivazioni contenute negli articoli. Ci auguriamo vivamente di no, innanzitutto perché un simile mutamento renderebbe problematica
l'approvazione di quella opportuna nuova legge sull'adozione e l'affidamento
familiare che la commissione Giustizia della Camera, con il rilevante
contributo anche socialista, sta predisponendo.
Ma anche, anzi principalmente, perché se fossero
pienamente condivise le motivazioni di fondo prospettate dall'articolista,
assisteremmo ad una trasformazione del partito socialista in un partito fortemente liberista, del tutto indifferente alle situazioni
di privilegio che comunque si sono realizzate, in cui la carica sociale
verrebbe ad essere attenuata se non del tutto accantonata: e ciò sconvolgerebbe
ulteriormente la confusa vita politica italiana e renderebbe sempre più
difficile la costruzione di una società più giusta per tutti.
Gli articoli contro l'adozione speciale partono infatti dalla « idea-forza » che lo Stato deve astenersi
dal prevedere divieti o dall'imporre doveri al singolo individuo perché
altrimenti si intaccherebbe la sacra libertà del cittadino che ha diritto
nell'ambito privato di fare ciò che vuole. Poiché il genitore - afferma
l'articolista - ha il diritto di mantenere e allevare il
proprio figlio come meglio crede, lo Stato non può intervenire a tutela
degli interessi del minore non in grado di difendersi autonomamente, in quanto
il nostro Stato «non è uno Stato guardiano notturno né tanto meno uno Stato totalitario».
Non riusciamo francamente a comprendere quale debba e possa essere la funzione dello Stato per
l'esponente socialista e perché debba essere limitato alla comunità
organizzata di tutelare il più debole nei confronti del più forte; di assicurare
ad ogni cittadino - e quindi anche a quel cittadino che è il minore - i diritti
fondamentali di personalità, primo fra tutti quello di potersi sviluppare come
uomo compiuto; di intervenire quando la esasperata libertà del singolo finisce
con il conculcare la libertà di altri egualmente meritevoli di tutela.
Né si comprende facilmente perché la libertà del
genitore debba essere così assoluta e intangibile anche se distrugge la vita
del proprio figlio - che non è una «cosa» ma un essere umano - vendendolo al
migliore offerente o relegandolo nel ghetto di un istituto e disinteressandosi
di lui o facendone oggetto di gravi maltrattamenti.
È singolare che in nome della libertà e del progresso
si voglia reintrodurre nel nostro ordinamento la figura del «padre-padrone» a
cui solo si vuole aggiungere quella della «madre-padrone». Ed è sconcertante
che si sventoli una sorta di incostituzionalità della
legge sulla adozione speciale attraverso una lettura del tutto parziale della
nostra Carta costituzionale: si afferma così che la Costituzione sancisce «il
diritto del genitore ad allevare il proprio figlio» ma si dimentica che
l'articolo 30 afferma «è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed
educare i figli» e cioè subordina il diritto all'adempimento del dovere e
riconosce che nel caso di incapacità dei genitori lo Stato deve intervenire
per sottrarre i minori alla morte civile e assicurare loro una adeguata
crescita umana.
In realtà il principio di libertà accolto dall'articolista, riporta a quel liberalismo fisiocratico ed agnostico a cui devono addebitarsi tanti
guasti perché la pace sociale si realizzò sempre con il pesante sacrificio del
debole ai privilegi del forte. Ed il principio affermato travalica il campo strettamente
familiare e può dilatarsi in ogni settore della vita sociale minando alla
radice quel principio di solidarietà che è alla base della nostra Costituzione
e dello Stato moderno e che solo può consentire un armonico sviluppo di tutte
le componenti del corpo sociale.
È assai amaro il dover constatare che in questo come
in molti altri casi anche nell'ambito della cosiddetta sinistra emergano
comportamenti e atteggiamenti che si situano molto di più all'interno di una
cultura borghese che di una popolare, privilegiando
tinte individualistiche e radicaleggianti che rompono quella «fraternità»
assai presente nella vecchia cultura della classe operaia.
Un filosofo affermava recentemente che delle tre
idee-forza della rivoluzione francese due, la libertà e l'eguaglianza tra i
cittadini, erano state realizzate nel corso di questi due secoli e che era
venuto il tempo di attuare pienamente la terza - la «fraternità» - senza la
quale le prime due rischiavano di non assumere pieno valore.
Vi è oggi il pericolo concreto che questo tempo non sia ancora maturo e che l'inizio di un periodo in cui
la fraternità tra gli uomini divenga legge della storia sia lontano da venire.
Sta agli uomini di oggi perseguire con tenace volontà
questo obiettivo perché la nostra vita divenga veramente umana e la società
non si riduca ad una giungla: per questo un articolo sinceramente preoccupante
come quello apparso sull'«Avanti!»
non può essere passato sotto silenzio.
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