Prospettive assistenziali, n. 57, gennaio - marzo 1982

 

 

ESPERIENZA DI ADOZIONE DI MINORI HANDICAPPATI

BRUNO E SUSANNA ARRI

 

 

Abbiamo 33 e 36 anni, 12 anni di matrimonio e una grossa famiglia: tre figli biologici e normali di 11, 10 e 4 anni; un ragazzo mentalmente di­sturbato che abbiamo avuto in affidamento per cinque anni; cinque figli adottivi, di cui quattro variamente handicappati (una è morta due an­ni fa).

Poiché ci è stato chiesto di raccontare la no­stra esperienza, parleremo soprattutto di questi ultimi.

Il primo figlio arrivato nella nostra famiglia era già in chiesa il giorno in cui ci siamo sposati e può definirsi un handicappato psichico lieve: aveva 6 anni, un Q.I. di 60, frequentava la 1ª ele­mentare in una classe differenziale e alla fine dell'anno fu respinto con il consiglio d'iscriverlo in una scuola speciale.

Benché allora non si parlasse ancora d'inseri­mento nelle scuole normali, noi intuivamo che un bambino limitato in una scuola speciale non avrebbe trovato nessuno stimolo a superare i suoi limiti; perciò lo iscrivemmo nella normale scuola elementare di quartiere (allora abitavamo a Torino) e, sostenendo e consigliando la mae­stra, insegnante capace ma molto legata ai pro­grammi ministeriali, riuscimmo ad ottenere che alla fine dell'anno venisse promosso in seconda. Quando lo seppe, nostro figlio esclamò: «Ma al­lora non sono scemo!».

I problemi più gravi, naturalmente, li incontrò alle medie, dove difatti, all'esame di licenza, fu nuovamente respinto e costretto a ripetere l'an­no, anche se era facilmente prevedibile che ciò non avrebbe aumentato le sue capacità di ragio­namento.

Anche inserirlo nel mondo del lavoro non è stato facile: dopo aver cambiato diversi posti, in cui la permanenza più lunga fu di 15 giorni, dato che il rapporto di lavoro veniva interrotto alla prima «sciocchezza» da lui combinata, ab­biamo finalmente trovato un anziano fornaio, coa­diuvato dal figlio maggiore, che reggono la sua presenza ormai da un anno e mezzo, sia pure con qualche momento di crisi e di scoraggiamento.

La situazione non è tuttavia risolta definitiva­mente: infatti il vecchio padrone sembra ormai arrivato al limite della resistenza e noi lo abbia­mo pregato di tener duro fino alla chiamata alle armi del nostro ragazzo (che nonostante il lieve ritardo mentale è stato arruolato, probabilmente grazie al fisico eccezionalmente robusto), dopo di che riprenderemo la ricerca. C'è da dire che essa sarà forse resa più facile dal fatto che risediamo ora in un piccolo paese di campagna. Nel 1972 adottammo la seconda figlia handicap­pata, questa in modo grave: aveva 10 mesi ed era focomelica (questa fu l'unica informazione dataci dall'istituto provinciale che ce l'affidò); quando andammo a prenderla, scoprimmo che pesava 5 kg., a causa d'una malformazione intestinale che ne comprometteva l'assorbimento dei cibi; 15 giorni dopo, la prima lunga crisi convulsiva (40 min.) ci rivelò che era epilettica (è sempre stata in terapia e ciò nonostante, nei periodi mi­gliori, soffrì di circa tre crisi alla settimana); quand'ebbe circa due anni, poiché non accennava nemmeno a star seduta, la portammo in un cen­tro dell'A.I.A.S., dove ne certificarono la spasti­cità, che l'aveva colpita sia nel corpo che nella mente; qualche anno più tardi fu infine accerta­to che, a causa di un nistagmo, un occhio non avrebbe mai messo a fuoco le immagini.

Per questa figlia, dal punto di vista tecnico, siamo riusciti a far poco, per diversi motivi: pri­ma di tutto la concomitanza di tanti handicaps, che induceva i diversi enti locali e centri di rie­ducazione a palleggiarsene le competenze; in secondo luogo la carenza di strutture riabilitative, in cui perciò le sedute terapeutiche sono estre­mamente ridotte in tempo e frequenza; in terzo luogo la mancanza, da parte di organismi sia pub­blici che privati, di qualunque programma per la preparazione dei genitori; infine, più tardi, la man­canza (allora) di disposizioni chiare e vincolanti per l'inserimento di bambini handicappati nella scuola materna e in quella elementare.

Ciò nonostante, facendo appello quasi esclusi­vamente al nostro amore e al nostro buonsenso, ne facemmo almeno una bambina felice: sem­pre allegra, pronta a ridere e a «cantare» (anche se riuscì a imparare solo tre o quattro parole), senza paura in qualunque ambiente e situazione, estroversa ed espansiva, capace di comunicare con noi servendosi dei pochissimi mezzi a sua disposizione, piena di curiosità e di iniziative no­nostante i gravi limiti fisici e mentali. «Riempiva la vita», ha detto qualche giorno fa il nostro figlio più grande, sposato e padre, l'unico normale fra quelli adottivi.

Una mattina l'abbiamo trovata morta nel suo letto e ci è sembrato che ci fosse sottratta la nostra ragione di vita. Attraverso la sua breve esistenza e forse ancor più attraverso la sua morte abbiamo capito il valore di ogni vita, per quanto limitata e disprezzata, e abbiamo toccato con mano quanto una famiglia possa ricevere da un figlio anche gravemente handicappato.

Mentre tornavamo verso casa dal cimitero, i nostri figli, che per due giorni non avevano quasi smesso di piangere, ci chiesero di accogliere il più presto possibile degli altri fratelli «come Teresa», per donare loro le cure che non pote­vamo più dare a lei

Così, quindici giorni dopo la sua morte, arri­vò Franca, 12 anni, microcefala, Q.I. 35; un neuro­psichiatra che la vide subito dopo l'affidamento la definì «completamente non strutturata» e pre­vide che saremmo stati fortunati se, da adulta, dopo infinite cure e infinita pazienza, fosse riu­scita a scrivere il suo nome.

Oggi, a 14 anni, nostra figlia frequenta la 2ª elementare con un'insegnante d'appoggio, scrive nome, cognome e qualunque altra parola le si detti abbastanza lentamente, riconosce tutte le lettere e legge le sillabe, conta facilmente fino a 5 e con qualche difficoltà fino a 10, disegna con grande ricchezza cromatica ed espressiva, pro­nuncia spontaneamente brevi frasi di 4 o 5 pa­role, ma non è questa la cosa più importante: l'importante, secondo noi, è che sia pienamen­te inserita nella vita quotidiana della famiglia, che partecipi come tutti ai turni per i letti, i piat­ti, i pavimenti e lo spolvero, che sia stata piena­mente accettata fra i coetanei del paese, non solo attraverso la scuola, in cui è molto popolare, ma anche attraverso le attività ricreative comuni, come l'oratorio, le recite natalizie, i trattenimenti carnevaleschi, le colonie diurne estive, le «me­rendine» pasquali, ecc. È una bambina serena e realizzata secondo le sue possibilità, molto dolce e affettuosa, avida di approvazione e fiducia.

Nel maggio del '79 andammo a Genova a pren­dere Daniela, 5 anni e mezzo, cieca e sordomuta per rosolia materna in gravidanza, avviata all'au­tismo per il completo isolamento sensoriale e affettivo in cui era rimasta dalla nascita. Era mol­to magra (d'altra parte mangiava solo caffè-latte), non stava in piedi, non controllava gli sfinteri, teneva la testa girata all'indietro per non dover intravedere nemmeno l'ombra di un'altra perso­na, rifiutava a calci e pugni qualunque tentativo di abbracciarla o baciarla, si esprimeva solo at­traverso crisi di disperazione isterica, braccia e gambe vibravano e scattavano in continuazione; lasciata da sola si ripiegava su se stessa, la testa fra le gambe, le braccia sulla testa.

Non sapevamo da che parte incominciare, ma l'abbiamo infinitamente amata fin dal primo istan­te, curata e coccolata come un bimbo di pochi mesi, vinto le sue resistenze e i suoi terrori con la nostra tenerezza; poi è stata operata agli oc­chi, munita di protesi acustica e, affidandoci alla guida del personale di una fondazione per il re­cupero dei ciechi pluriminorati, ci siamo impe­gnati tutti, genitori e fratelli, 24 ore su 24, nella sua rieducazione.

Oggi nostra figlia cammina - e qualche volta scappa di casa - controlla gli sfinteri, si versa da bere e incomincia a portare il cucchiaio alla bocca (anche se solo per certi cibi), lava i piatti e impasta torte, quando va al gabinetto è capace di svestirsi, lavarsi, asciugarsi e rivestirsi, fa funzionare il mangiadischi, si arrampica sulla spalliera svedese, sale le scale e le scende col sedere, gioca a palla e a birilli con i fratelli, si fa portare da loro in bicicletta, va a scuola; è inserita in una pluriclasse con un'insegnante d'appoggio, ha imparato a leggere, a contare fino a 10, a comporre parole con lettere mobili, a ser­virsi del concetto d'insieme, a distinguere i co­lori, le grandezze e gli spessori, a suonare diver­si strumenti ed è molto amata dai compagni, con i quali partecipa a tutte le attività di svago.

Il fatto che le diagnosi e le prognosi fatte da illustri specialisti sui nostri figli («debolezza mentale» per Attilio, « sopravvivenza puramente vegetativa » per Teresa, «identità non struttura­ta» per Franca, «rudere» per Daniela) siano state clamorosamente smentite, lasciando incre­duli sia loro che molte delle persone a cui l'ab­biamo raccontato, non significa però che fossero sbagliate, ma solo che i limiti dei nostri figli ri­chiedevano, per essere superati, una dose d'amo­re, di cure, d'insegnamenti, d'interventi tecnici, di pazienza, tenacia ed ottimismo che non esi­steva nell'esperienza di quei luminari e che noi rivendichiamo invece con cognizione di causa d'aver loro fornito.

I problemi che abbiamo dovuto affrontare non sono stati né minori né diversi da quelli che quotidianamente si presentano a tanti altri ge­nitori di handicappati e se possiamo parlarne con serenità, come di difficoltà non superiori alle nostre forze, dobbiamo ringraziare l'amore che ci unisce come coppia, la fede religiosa che ci guida, la fede laica nella giustizia sociale, l'in­nato ottimismo e buonsenso di cui siamo provvi­sti, la convinzione che non bisogna mai fasciarsi la testa prima d'essersela rotta, oltre, natural­mente, ad usare tutte le proprie forze per evitare di rompersela.

Abbiamo impegnato a tempo pieno le nostre energie, noi e i figli normali, senza mai sentirci vittime del fato - anche quando le difficoltà si rivelavano più gravi del previsto - ma sicuri di compiere il nostro dovere di cittadini e di cristia­ni verso i membri più deboli e meno difesi della comunità a cui apparteniamo.

A questo proposito, ci viene spesso rivolta un'obiezione ed è che non sarebbe giusto im­porre agli altri figli degli impegni gravosi e senza fine, che dovrebbero costituire materia d'una scelta personale. Noi rispondiamo di ritenere che la libertà personale non vada confusa con l'egoi­smo e che nessuno abbia il diritto di pensare solo al proprio benessere, ragion per cui, finché questa società tollererà l'esistenza di un solo emarginato (vecchio, handicappato, malato di mente, ecc.), nessuno, né grande né piccolo, ha diritto alla libertà di dire: non mi riguarda.

Per lo stesso motivo, noi abbiamo cresciuto e cresciamo i figli normali in funzione del dovere morale di prendersi a carico, quando noi non ci saremo più, i fratelli «diversi», e ci ha fatto mol­to piacere, qualche tempo fa, sorprendere il se­guente dialogo fra due di essi (11 e 10 anni):

«Papà e mamma, quando faranno testamento, scriveranno: lasciamo Franca a Cecilia e Daniela a Ruben».

«E per Caleb (il fratellino di 4 anni).

«Non ti preoccupare, vedrai che prima di mo­rire avranno il tempo di procurare anche a lui un'eredità».

Un'altra cosa vorremmo aggiungere ed è che noi conduciamo una vita pienamente soddisfacen­te, non avendo mai rinunciato a nessuna delle co­se a cui teniamo a causa dei nostri figli «diver­si»: con loro siamo sempre andati dappertutto, al cinema, al teatro e ai concerti, abbiamo viag­giato in pullman, in treno, in aereo e sull'acqua, in Italia e all'estero, visitato città d'interesse ar­tistico, mostre e musei, siamo andati al mare in stabilimenti più o meno affollati e saliti fino a 2600 m. d'altezza portando sulle spalle quelli che non potevano camminare, siamo stati in alberghi e ristoranti; non ci siamo mai sentiti in imbaraz­zo, i loro comportamenti particolari non ci hanno mai fatto sentire a disagio e forse per questo non abbiamo mai incontrato rifiuti, solo, a volte, della scortesia, subito vivacemente contestata da noi o dagli altri figli.

Infine, volendo provare a trarre qualche con­clusione dalla nostra esperienza personale e da quella di tante famiglie con figli handicappati fre­quentate in questi 13 anni di attività, diremo che la prima condizione che ci sembra di poter indi­care perché un ragazzo handicappato abbia la possibilità di vivere un'esistenza piena e felice, sviluppando al massimo le sue potenzialità, è che i genitori si trovino bene con lui, non lo sen­tano come un peso o una costrizione, come una ineluttabile condanna, ma siano capaci di sce­glierlo ogni giorno come un'opportunità da far fruttare per conquistare soddisfazioni sconosciu­te a chi ha solo figli normali.

Siamo convinti che il recupero imprevedibile dei nostri figli sia dovuto, più che agli interventi tecnici di cui hanno goduto in maggiore o minor misura, al fatto che noi stiamo bene con loro, che ci piace coccolarli e giocarci insieme (indipen­dentemente dall'età cronologica), che la loro pre­senza ci rallegra e i loro successi, per quanto minimi, ci riempiono di gioia, che l'idea di averli sempre con noi (diversamente dai fratelli che co­struiranno altrove la loro vita) non ci spaventa ma ci rassicura, che siamo orgogliosi dei loro tentativi e delle loro conquiste, che ci identifi­chiamo in loro e nei loro sforzi, che non ci pesa spendere per loro il nostro tempo e le nostre energie, ma ne siamo grati come di un dono par­ticolare, che ci dà la possibilità di assistere gior­no per giorno al miracolo della resurrezione.

 

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