Prospettive assistenziali, n. 57, gennaio - marzo 1982
INTERVENTI PER MINORE HANDICAPPATI GRAVI (*)
FRANCESCO NARDOCCI
Vi è sicuramente una notevole difficoltà
nell'approntare una relazione sul problema dei bambini handicappati gravi, sia
per la non omogeneità con cui nei vari territori sembra essere stato
affrontato questo problema, sia per le articolazioni
estremamente complesse che ogni esperienza attuata evidenzia. Si pensi del
resto alla profonda differenza degli interventi per bambini gravi di 8-10 anni
o per adolescenti di 16-18 anni, per situazioni in cui il dato fondamentale è
la grave compromissione neuromotoria
o quella invece in cui viene coinvolta la sfera
relazionale e intellettuale. E si valutino inoltre le ampie
modificazioni organizzative che distinguono una comunità residenziale
aperta 24 ore su 24 tutti i giorni dell'anno da un centro semiresidenziale
aperto qualche ora al giorno non per tutti i giorni della settimana.
D'altra parte non è possibile rimandare ulteriormente
una analisi della situazione attuale, analisi che, se
non comprensiva di tutto, se non esaustiva di ogni singolo problema, possa quanto
meno rappresentare un primo limitato momento di verifica e confronto. Non è
più possibile affermare, come nel Convegno regionale svoltosi a Ferrara nel
dicembre del 1977, che «l'analisi presentata al Convegno di Forlì (del 1973)
sul problema dei gravi a tutt'oggi non è suscettibile di ulteriore approfondimento
teorico». In quell'occasione
si disse inoltre: «È da rilevare che pochissime sono state le esperienze effettuate sino ad oggi
per questi interventi, anche se la crescita politico-amministrativa dei
consorzi socio-sanitari rende sempre più evidente la necessità di risposte per
questi particolari problemi. L'urgenza di un.
approfondito vaglio delle esperienze condotte, la loro comparazione
e verifica secondo parametri che tengano conto della caratteristica
dell'utenza, dei modelli organizzativi e gestionali, della rispondenza di
questi a criteri di beneficio sociale, è indilazionabile» (1).
Dal Convegno di Ferrara ad oggi molte situazioni si sono modificate, molti nuovi elementi
istituzionali, politici e operativi hanno apportato profondi mutamenti. Si è
ricercata una nuova sistematizzazione dei servizi che
in prima istanza avevano come obiettivo la lotta
all'emarginazione del bambino con handicap, e che successivamente si sono
trasformati in servizi di prevenzione, dagnosi
precoce e riabilitazione all'interno del complessivo intervento per la tutela
della maternità e dell'età evolutiva.
Da questa sistematizzazione
però emergono livelli di difficoltà diversi, piani di stabilizzazione
degli interventi profondamente disomogenei. Nella politica dell'integrazione il raggiungimento da parte del bambino
handicappato dell'adolescenza e dell'età adulta, il rapporto handicap-produttività,
la relazione handicap e alfabetizzazione sembrano
essere i settori d'intervento oggi più problematici (2).
Ma, d'altra parte, tutti questi elementi (l'impossibilità
di ipotizzare una conquista del sapere in termini di alfabetizzazione, l'intensificarsi della problematicità con
il crescere dell'età, le non realizzabili ipotesi di soluzioni lavorative)
caratterizzano ed esasperano la questione dei bambini gravi, di quelli che,
come si osserva in un saggio di Bilancia e Polletta,
corrono il rischio di essere negati ed estraniati dalla nostra coscienza, come
si trattasse di un oggetto, di una « cosa ».
Dobbiamo confortarci perciò con questo processo di
«reificazione» del grave, di riduzione del grave a «cosa», con questa immagine di un corpo che non parla ma di cui si
parla, con questa immagine quindi sostanzialmente di una non-esistenza,
richiamando l'esigenza di affermare concretamente e di difendere la
soggettività del bambino grave, di dimostrare il suo determinarsi storicamente,
di valutare attentamente l'atteggiamento che altre persone (in primo luogo i
familiari, ma anche molti educatori e tecnici della riabilitazione) hanno nei
confronti di quel particolare soggetto da noi ritenuto «grave» (3).
La difficoltà a fare emergere un progetto globale di intervento non nasce soltanto da contrastanti vissuti
soggettivi e individuali, bensì soprattutto dal fatto che per í bambini gravi
si tende a mantenere istituzioni chiuse, che nei territori si incontrano
serie difficoltà ad allestire strutture aperte ed integrate in realtà
esistenziali « normali », che permane una diffusa mentalità istituzionalizzatrice.
Inoltre sembra essersi verificata una caduta di credibilità
dell'intervento territoriale per quanto riguarda l'integrazione sociale
dell'handicap, che se sicuramente si può ricollegare a contraddizioni, ritardi
reali dei servizi, non poggia tuttavia certamente su un processo approfondito
di verifica e di dibattito.
Va inoltre sottolineato che
la carenza di momenti di confronto e di valutazione del rapporto costo-benefici
dei servizi non facilita il recupero di quella caduta di impegno e di tensione
ideale di cui tanto si discute.
Questa caduta di tensione e di impegno
contrasta d'altra parte, con l'alto livello di partecipazione con cui vengono
seguiti i momenti di dibattito pubblico, con la ricchezza di esperienze che
questi confronti fanno emergere.
Sicuramente la complessità culturale e tecnica delle
iniziative territoriali non ha trovato una adeguata
rielaborazione scientifica, per cui alle volte ci trinceriamo dietro una poco
dialettica propaganda e difesa del «buon servizio». Insieme a ciò, lo scarso
dibattito, la carente riflessione, i pochi momenti di reale elaborazione
collettiva hanno contribuito sicuramente a determinare la situazione di
difficoltà in cui attualmente si affronta una
valutazione dell'intervento in favore dei bambini gravi.
Questa condizione di ritardo nel l'elaborazione e
nell'analisi non ha facilitato certo la progettazione teorica e l'attuazione
pratica di servizi specifici, e credo sia opportuno ricordare che anche
l'indicazione, certo teoricamente corretta, di allestire,
per i gravi, servizi residenziali o semiresidenziali alternativi all'istituto
solo dopo che tutti gli interventi preventivi e riabilitativi fossero stati
attuati, ha avuto delle sconcertanti interpretazioni.
In alcuni territori l'assunto teorico secondo cui
l'allestimento di comunità per gravi doveva essere l'ultima delle prospettive
d'intervento, è stato infatti talmente alla lettera
che il rischio per un bambino grave di trovare una collocazione in una comunità
costituiva sicuramente l'ultima delle possibilità che egli avesse: gli era
molto più facile finire in istituto.
Attualmente sembrano però esservi dei buoni indizi di ripresa
non solo dell'interesse, ma anche dell'impegno operativo; solo nel nostro ambito
provinciale oltre ad esperienze già consolidate, quali quelle della comunità
di via del Pozzo di Modena, del Centro diurno d'appoggio di Formigine,
vanno segnalate: la recente apertura di un centro semiresidenziale a Mirandola,
di un altro a Carpi, nonché i progetti di apertura di due nuovi centri, uno a
Modena e uno a Sassuolo. Stessi segnali di ripresa dell'impegno sembrano provenire
da altre province e da altre regioni, per cui si fa
sempre più pressante l'esigenza di attivare meccanismi di diffusione delle
informazioni, di verifica degli obiettivi, di confronto delle metodologie
operative.
Ciò è essenziale in quanto esiste il pericolo reale
di confinare semplicisticamente l'intervento anti-istituzionale
per i gravi entro particolari servizi, quali le comunità residenziali o semiresidenziali,
i servizi di assistenza domiciliare. Queste
esperienze sono peraltro poco numerose, scollegate fra loro, con nette caratteristiche
di esemplarità che le riconducono alla presenza di
fattori occasionali, quali particolari sensibilità politiche, particolari
disponibilità umane di gruppi di operatori.
Ciò nonostante è possibile intravedere in questi
servizi il potenziale anti-istituzionale che essi
sono in grado di rappresentare, così come è opportuno
riflettere sulla dimensione riabilitativa e socializzante che la loro
operatività può esprimere, ponendo tuttavia in chiaro il rischio di isolamento
e deterioramento cui queste comunità possono essere soggette.
È quindi necessario ribadire
che le comunità non possono essere considerate semplicisticamente l'obiettivo
finale del nostro lavoro nel territorio in favore dei bambini gravi. Esse
vanno realizzate in quanto strumenti operativi con cui articolare l'impegno anti-istituzionale, in quanto momenti particolari di ben
più ampio intervento politico e sociale che, riprendendo i temi della lotta
contro l'emarginazione e la segregazione istituzionale, si confronti con gli
attuali livelli ideologici e culturali dell'organizzazione assistenziale e
sanitaria e si colleghi, con sempre maggiore
produttività, con le famiglie e le comunità educativo-scolastiche.
Solo in tale ampio contesto politico, e non negli ambiti ristretti di una
comunità isolata, è possibile rispettare la realtà soggettiva del bambino grave
e definire una progettualità che, partendo dai
bisogni reali, non svilisca gli obiettivi anti-istituzionali in razionalizzazioni tecnico-custodialistiche.
Si consideri peraltro che sia l'analisi delle
esperienze provinciali che l'esame della letteratura relativa
ai gravi forniscono di fatto del termine «grave» una definizione
generica e generale, che assume significati profondamente differenti, ma
sempre comunque ricchi di implicazioni. Dal punto di vista della
neuropsichiatria infantile o della psicologia clinica la diagnosi di «gravità»
corrisponde ad un «giudizio di quantità
formulato sulla base della sintesi di elementi non
direttamente quantificabili»; altre volte - così si afferma - la diagnosi «si riferisce a dati qualitativi resi
quantitativi attraverso il rilevamento del Q.I.;
molto spesso è un giudizio che vale per il futuro nonostante si esprima sulla
base di osservazioni raccolte in periodi di tempo molto brevi, per esempio nel
corso di una sola visita» (4).
È evidente come criteri soggettivi, frettolosità o non conoscenza possono
incidere sulla formulazione di un tale giudizio.
A questo proposito mi pare significativo
l'episodio, citato da Ossicini, di un medico che accertando il mongolismo di
un bambino di due mesi, dopo aver affermato che questi non avrebbe mai
parlato, sorriso, mangiato autonomamente, riteneva unicamente di dover
consigliare ai genitori di rinchiuderlo in istituto. E
allo stesso meccanismo di quantificazione soggettiva del deficit può essere
riferita un'altra diagnosi, se pure di segno opposto questa volta di
«mongolismo di grado lieve».
Probabilmente il carattere estemporaneo della
«lievità» di quella sindrome di Down non si riferiva
ad una poco ipotizzabile «leggerezza» della presenza di tre cromosomi 21 nel
patrimonio genetico del bambino, ma molto più verosimilmente al buon livello
di comunicatività e socialità che il bambino era riuscito ad esprimere durante
la visita nonostante, per quel medico, la trisomia.
È evidente come questa dimensione quantitativa
insita nella diagnosi di «grave» si presta di fatto a
coprire un giudizio prognostico infausto, quel giudizio cioè di «irrecuperabilità» di cui già negli anni '70 segnalavamo da
un lato l'ambiguità, poiché esso assumeva come punto di riferimento un assetto
economico-produttivo fortemente emarginante e interventi riabilitativi mai
attuati, e dall'altro la pericolosità, poiché distruggeva ogni aspettativa
nelle famiglie, innestava ampi rifiuti sociali, creava alibi e coperture scientifiche
all'istituzionalizzazione.
Il passaggio, però, dalle analisi teoriche degli anni
'70 al lavoro concreto svolto con i bambini gravi ci permette oggi di articolare meglio il rapporto teoria-prassi; ci è
possibile cioè definire con maggiore precisione le implicazioni operative
dell'assunto secondo cui il dato clinico rappresenta uno solo degli elementi
che caratterizzano l'esistenza del bambino grave, essendo ben più complessa e
articolata la realtà del suo vissuto, la dimensione dei suoi bisogni.
Per esplicitare tale concetto è sufficiente soffermarsi
brevemente su alcune esperienze condotte in questi anni nell'ambito
provinciale:
- comunità di
via del Pozzo a Modena; raccoglie minori provenienti dal «De Sanctis», reparto infantile
dell'ospedale psichiatrico di Reggio Emilia.
Sono adolescenti con forti limitazioni intellettive
e accentuate distorsioni relazionali da deprivazione istituzionale. Per tre
ospiti è stato possibile preparare e attuare un rientro in famiglia ma in
considerazione del fatto che il lungo tempo di ricovero ha scisso i legami
parentali degli altri ragazzi seguiti, la comunità deve garantire necessariamente
una gestione 24 ore su 24 per tutti i giorni della settimana;
- centro diurno
di appoggio di Formigine;
accoglie minori in età scolare ma mai scolarizzati
precedentemente, nessuno ha mai avuto esperienze di istituzionalizzazione. Le
forti limitazioni neuromotorie e intellettive
comportano un livello marcato di non autonomia che
grava pesantemente sull'organizzazione familiare.
Il centro si pone come supporto alla
famiglia e permette, in collaborazione con la scuola dove si è
costituito un nucleo che rende possibile ai bambini la frequenza scolastica,
un notevole alleggerimento del carico assistenziale dei familiari.
Il centro è quindi semi
residenziale, operante per alcune ore giornaliere, per cinque giorni alla
settimana;
- centro
semiresidenziale di Carpi (ma si considerino
anche le ipotesi dei due nuovi centri a Modena e Sassuolo); si apre in funzione
di adolescenti che dopo aver percorso l'iter scolastico normale non riescono a
trovare spazi di inserimento nell'ambito del mondo del lavoro. Rischiano così
di ricadere a totale carico della famiglia, o sono già di
fatto isolati in famiglia.
L'immagine del «grave» che gli stessi servizi possono
configurare è quindi estremamente variabile:
- può essere un adolescente a cui il periodo di vita
istituzionale ha determinato gravi danni psichici e fisici, cui si aggiunge il
dissolvimento del nucleo familiare;
- può essere un bambino in cui l'assenza di un
qualsiasi intervento riabilitativo ha ampliato a dismisura gli esiti del
deficit iniziale, con un conseguente esorbitante carico assistenziale
sulla famiglia;
- può essere un adolescente che pur avendo fruito di
servizi riabilitativi, pur avendo vissuto l'inserimento nella scuola di tutti, riesplode come «grave» al termine dell'obbligo scolastico,
non per un suo peggioramento clinico, ma per il rifiuto che subisce da parte
del mondo produttivo;
- può essere però anche quel bambino o adolescente
la cui famiglia, che da sempre lo ha protetto e accudito, improvvisamente o per
il troppo e protratto carico assistenziale o anche
solo per l'insorgere di una malattia, non è più in grado di garantirgli un
livello assistenziale adeguato.
Il concetto di gravità è quindi un concetto non assoluto ma estremamente variabile; viene influenzato
dall'età del ragazzo, dalle sedi dove questo giudizio viene espresso, dal
contesto circostante, dalla realtà familiare, dalla politica sanitaria e
sociale espressa nei vari territori. Ma se il concetto
di gravità può essere variabile e influenzabile, l'operare concretamente con il
bambino grave comporta sempre il confronto con tre elementi costanti:
1) l'influenza negativa che il giudizio di irrecuperabilità determina
sulle prospettive e metodologie di intervento, e cioè il condizionamento che
si determina sulle ipotesi operative della ancor troppo diffusa convinzione secondo
cui l'handicap lieve è da riabilitare mentre l'handicap grave è solo da
custodire;
2) la famiglia;
3) la politica istituzionalizzante dell'organizzazione
assistenziale.
L'operatività
Per quanto riguarda il «che fare» è già stata
segnalata l'importanza dell'intervento precoce per impedire il sorgere di quei
profondi quadri patologici neuro-intellettivi che si consolidano in anni di abbandono sanitario-riabilitativo, di isolamento delle
famiglie e che oggi rendono problematici molti interventi.
Pur facendo presente che gli interventi preventivi
per i bambini gravi non si discostano da quelli già
individuati per la prevenzione dell'handicap in generale, va comunque rimarcata
l'esigenza di un diffuso e efficiente piano di intervento precoce. Va sottolineato infatti che non in tutto il territorio
provinciale e regionale il meccanismo diagnosi precoce - segnalazione ai
servizi riabilitativi - presa in carico sembra perfettamente funzionante.
Alcuni servizi riabilitativi denunciano infatti
ritardi nell'invio di bambini con handicap neuromotorio e segnalano difficoltà
ad attuare interventi globali e articolati per alcuni casi che, se pure nella
fascia di età della primissima infanzia, evidenziano quadri patologici
profondi. L'intervento precoce può poi dimostrarsi fondamentale per prevenire
patologie relazionali e distorsioni psico-affettive
che frequentemente si innestano nelle situazioni di
handicap grave e che tendono, se non trattate, a peggiorare con il crescere
dell'età. A riprova di ciò segnaliamo come alcuni autori
hanno dimostrato che «i soggetti con
deficit motorio e deficit cognitivo contemporanei, hanno una frequenza di
disturbi relazionali gravi sei volte maggiore rispetto alla popolazione generale;
questo dato richiama l'attenzione sul fatto che, in assoluto, questo tipo di
problemi psicopatologici è molto più frequente in forme secondarie e non in
forme primarie» (5).
Per quanto poi riguarda la proposta operativa
complessiva, è possibile affermare che se il problema non è tanto quello di
quantificare le risposte intellettive del bambino, accertandole secondo prove
standard avulse dalla sua realtà di vita quotidiana, diventa essenziale prendere
come parametro le capacità, le potenzialità comunicative e le espressioni del
livello di integrazione manifestate nel suo ambiente
relazionale.
Ai fini di soddisfare le necessità del bambino e di
individuare gli interventi da effettuare non interessa
tanto conoscere il quoziente intellettivo ma:
- che cosa il bambino sa o non sa
fare. Quali livelli di autonomia dimostra, quali strumenti di comunicazione
utilizza, quale percezione dell'ambiente esprime;
- il perché del suo non saper fare. Se il suo non
saper fare dipende totalmente da un deficit neurologico o se dipende dall'invio
da parte dell'adulto di messaggi poco comprensibili, dalla proposta di obiettivi non adeguati e sollecitazioni non adatte;
- quali sono le condizioni in cui
si presume di poter raggiungere un livello comportamentale, relazionale e
comunicativo migliore di quello che il bambino ha espresso. Bisogna chiedersi quali possono essere gli
strumenti per costruire o ricostruire, se è possibile, un
nucleo familiare reale intorno al bambino, oppure quali interventi sono
necessari affinché la famiglia arrivi ad esprimere momenti educativi più
sereni e sempre più efficaci (6).
Credo che in questa necessità di riuscire a calarsi
dentro la realtà del bambino grave vadano valutate le profonde analogie delle
nostre considerazioni con quanto osservava Bruno Bettelheim
a proposito del bambino psicotico; egli infatti dopo aver osservato che per un
corretto intervento «l'amore non basta» scriveva che «il paziente mentale vive in una sorte di caverna profonda e oscura
priva di uscita, nella quale è tenuto prigioniero sia
dalle sue angosce sia dall'insensibilità degli altri... Noi dobbiamo inventare
e costruire una via d'uscita da tale caverna... dobbiamo costruire questa via
d'uscita attingendo al nostro stesso passato, alle nostre conoscenze, alla
nostra personalità e alla nostra comprensione del paziente, ma soprattutto
ricorrendo a una forma di empatia la quale ci dice quale scala unica... sarà
adatta per quel particolare paziente» (7).
In questa dimensione di analisi
e di ricerca, di piani di osservazione e di sperimentazione operativa si è
cercato di far nascere un programma riabilitativo sulla base di un rapporto
comunicativo e relazionale nella convinzione dell'inscindibilità fra sfera
affettiva e processi intellettivi. Un progetto riabilitativo che poggia la sua
definizione teorica non sulla rigida ricerca di funzioni assenti o limitate ma
sull'osservazione dell'area potenziale di sviluppo e
introduce quindi il concetto, già di Vygotskj e poi
di Cancrini, della necessità di ricercare il livello
potenziale del bambino, di valutare cosa egli può fare con l'aiuto dell'adulto
poiché questa è la premessa necessaria di ciò che potrà saper fare da solo in
futuro (8).
In tale ottica gli operatori segnalano che, nella
consuetudine del vivere comunitario, molte situazioni
si sono dimostrate produttive permettendo il collegamento tra l'osservazione e
l'operatività; momenti fondamentali per attuare il nesso tra osservazione e
operatività sono il pranzo, il gioco, l'attività lavorativa, l'igiene personale
o le pulizie nella comunità ma anche l'attività svolta in piscina, le uscite
programmate, i periodi di vacanze trascorsi dai ragazzi e dai propri educatori
in modo comunitario. Poiché non può essere trascurato il contesto
generale è necessario individuare quali possono essere le strutture che siano
in grado di offrire momenti d'integrazione effettiva al bambino grave con
l'obiettivo di creare un ambiente in cui il diverso fruisca del momento
integrante e rasserenante della socialità, contribuendo a determinare nella
collettività stessa una diversa coscienza di sé, un atteggiamento più
tollerante e quindi meglio rispondente alle necessità di tutti. In tale contesto va segnalato il ruolo estremamente importante che
può assumere la scuola, in quanto un piano di intervento riabilitativo ed
educativo non può prescindere da tale struttura.
La necessità di approfondire i temi inerenti alla
scolarizzazione dei bambini gravi nasce dall'evidenza del ruolo fondamentale
che l'istituzione scolastica può svolgere in un piano globale
anti-istituzionale e dalla convinzione che
l'attuazione di un intervento educativo, anche nelle situazioni che vengono
considerate più gravi, non può prescindere dai punti di aggregazione naturale
rappresentati dalla collettività infantile e dalla scuola.
L'esperienza attuata sia a Sassuolo che a Modena dei nuclei per gravi inseriti nella scuola
elementare nasce dall'esigenza di elaborare ed affermare scientificamente una
ipotesi educativa e dalla consapevolezza del fallimento di ogni eventuale ipotesi
che si attuasse al di fuori delle strutture socialmente deputate
all'educazione, e quindi al di fuori della famiglia e della scuola o che si
realizzasse ignorando l'incidenza delle necessità relazionali e affettive per
l'apprendimento. L'istituzione di nuclei scolastici per bambini gravi,
favorendo l'ingresso del tutto nuovo nella collettività scolastica di bambini
con forti limitazioni della autonomia neuro-motoria e
intellettiva, dovrebbe quindi determinare non solo l'accettazione di queste
«nuove» realtà psichiche e fisiche, obiettivo non certo trascurabile, ma
l'elaborazione collettiva di una risposta sul piano educativo. Credo che vada
affermato in modo realistico che il problema non è
tanto di discutere se inserire il grave in una classe normale o no, ma di
trovare uno strumento affinché si accetti che questi bambini vivano con i
«normali» e stimolare la ricerca di metodologie operative che dimostrino che
educare può anche significare indurre l'acquisizione della deambulazione, favorire
una percezione migliore e comportamenti maggiormente autonomi.
L'attuazione di questa ipotesi
è comunque oltremodo problematica, non solo per le difficoltà espresse dai
bambini, per la condizione di oggettivo isolamento in cui rischiano di operare
gli insegnanti da una parte e gli operatori dei servizi territoriali
dall'altra, ma anche per la complessità che comporta il necessario rapporto di
collaborazione tra intervento scolastico e intervento extrascolastico. E
quindi anche per il problema dell'inserimento
scolastico dei bambini gravi va posto l'accento sui programmi di lavoro, sui
metodi operativi, sulla formazione degli operatori impegnati, e quindi su
progetti realistici che siano realizzabili anche se a tempi lunghi (9).
La famiglia
In questi ultimi tempi le analisi che hanno per
oggetto le famiglie dei bambini handicappati, e la madre in particolare, si
sono arricchite di nuovi contributi e di nuove prospettive.
In esse si mette in evidenza
il profondo e manifesto contenuto di angoscia che le famiglie vivono e
esprimono e non a caso la Mannoni scriveva che «i genitori vogliono essere aiutati, la loro
miseria è talvolta più grande di quella del figlio» (10).
E tuttavia, poiché la politica dell'organizzazione dell'assistenza a livello nazionale non favorisce,
quando non ostacola, l'affermarsi di una efficace rete di servizi anti-istituzionali, molte famiglie si ritrovano isolate
nel gestire la scelta di non istituzionalizzare il figlio handicappato e ad
affrontare difficoltà e responsabilità che risultano ancora più esasperate nel
caso in cui il bambino è un «grave». Ciò é confermato dal fatto che i pochi
casi di istituzionalizzazione di bambini gravi
segnalati dai vari territori in questi anni, erano tutti motivati dal
dissolvimento improvviso, per i più disparati motivi, del potenziale
assistenziale del nucleo familiare.
Questa condizione di «solitudine sociale» della
famiglia nei confronti della politica istituzionale non è stato
però altrettanto analizzato quanto ad esempio il rapporto tra il
bambino handicappato e la madre. Da una prima fase in cui si poneva l'accento
esclusivamente sul senso di colpa che deriverebbe alla madre da un vissuto di insuccesso biologico nella procreazione, si è passati ad
una fase successiva in cui si è affrontata in modo più articolato l'analisi
del rapporto conscio ed inconscio della madre con il figlio, analisi tanto più
necessaria se si ha la consapevolezza che qualsiasi intervento riabilitativo
terapeutico dei servizi dovrà prima o dopo confrontarsi con questo rapporto
(11).
Numerosi autori hanno sottolineato
come la madre tende nel rapporto con il figlio handicappato, fin dai primi
mesi a rafforzare lo stato di dipendenza che il bambino, per i suoi bisogni ma
anche per i suoi limiti e deficit, è indotto a ricercare.
Si verrebbe quindi a delineare
una situazione di simbiosi, tanto da strutturare nella madre un vissuto di «continua e mai conclusa gestazione»
(12).
E a sua volta questo atteggiamento,
come di gestazione permanente, tenderebbe a rendere sempre più profondo lo
stato di dipendenza del figlio handicappato, favorendo in lui il sorgere e lo
strutturarsi di atteggiamenti di disistima o di vissuti di incapacità.
Sicuramente queste analisi permettono la comprensione
di alcuni fenomeni: ad esempio di certi
atteggiamenti, nei bambini, di rifiuto o di timore di fronte alle prestazioni,
o di perplessità in relazione a richieste di atteggiamenti maggiormente
autonomi, o anche, nelle madri, di comportamenti iperprotettivi
o sostitutivi. Si può citare, a titolo esemplificativo, il caso di una madre
che ha seguito la figlia handicappata anche quando questa, con i suoi
educatori, si è recata ad un soggiorno estivo di vacanza, trascorrendo dunque
15 giorni a controllare la figlia, ed evidentemente gli operatori, con
l'ausilio di un cannocchiale.
Eppure queste analisi non riescono comunque
a spiegare appieno la profondità dell'angoscia che esprimono le famiglie, la
certezza, radicata nelle madri, dell'impossibilità che le si comprenda nella
loro sofferenza, che si trovino soluzioni, che si modifichi la realtà di un
atteggiamento sociale percepito come ostile o indifferente. E d'altra parte non ci si può limitare all'analisi della sola
dinamica madre-figlio, poiché tutto il nucleo familiare nel suo complesso paga
un costo sociale molto elevato. Anche il padre e i fratelli non possono non
essere coinvolti in un processo che vede la famiglia costretta a strutturarsi come barriera protettiva intorno ad uno solo
dei componenti. Il costo che il nucleo familiare paga consiste quindi da un
lato nella rinuncia della donnamadre ad una vita sociale, col sacrificio di ogni possibilità di relazione extrafamiliare, in funzione
dell'assistenza al figlio, e, dall'altro, nella chiusura di tutto il nucleo rispetto
al contesto esterno. Probabilmente è anche per questa logica della solitudine e
del «sacrificio senza tregua» in cui sono coinvolti tutti i membri della
famiglia e a cui è riferito ogni atto comunicativo e di vita relazionale, che
si sviluppano, all'interno della famiglia stessa, quegli elementi di malessere
psicologico, di disagio esistenziale non riconducibili esclusivamente alle
interpretazioni delle dinamiche madre-bambino.
In una realtà sociale in cui la famiglia, come
osserva nei suoi studi Chiara Saraceno, è diventata la struttura fondamentale
per il soddisfacimento del bisogno individualizzato e
privatizzato, il ruolo della donna madre diventa il perno centrale su cui
poggia la funzione della famiglia in quanto erogatrice di servizio sociale
privatizzato (13). Ma questa ideologia di
privatizzazione del bisogno all'interno del nucleo familiare, ove si realizzi,
non può non determinare a maggior ragione profonde ripercussioni nelle famiglie
in cui è presente un bambino handicappato grave. Mi pare quindi necessario che
le nostre analisi utilizzino più ampie modalità e metodologie di ricerca riattingendole anche
dall'analisi sociologica.
Due ricerche sull'attività lavorativa extradomestica
delle madri dei bambini handicappati forniscono del resto dati esplicativi che
evidenziano il risultato dei meccanismi di spinta alla
privatizzazione del bisogno e la loro pesante incidenza sulla vita delle
famiglie in cui è presente un bambino con handicap. Le due indagini [effettuate
l'una a Sassuolo su 126 famiglie (14) e l'altra nella provincia di Genova su
160 famiglie (15)] segnalano infatti una percentuale
irrisoria di madri impegnate in un lavoro extradomestico, e cioè dal 5 al 7%.
Di fatto è dunque la madre «casalinga» a rappresentare il perno obbligato della
prestazione assistenziale non istituzionalizzata.
L'esigenza di dedicare maggiore attenzione all'analisi della famiglia non è
solo funzionale ad una migliore comprensione dei
meccanismi distorti che incidono sulle dinamiche familiari, ma anche alla
ricerca di un nuovo e più integrato rapporto tra servizi, amministrazioni
locali e genitori. Nella situazione di difficoltà generale avvertita in questi
ultimi tempi potrebbe dimostrarsi essenziale non solo
il favorire l'aggregazione dei genitori che fanno riferimento ai vari servizi
riabilitativi territoriali, ma anche il promuovere la loro partecipazione, e
quella delle associazioni, alla gestione sociale dei servizi e dell'U.S.L.
Il problema degli istituti
La questione dei bambini gravi ci costringe a
riparlare di istituti, di politica assistenziale; se,
come si è già rivelato, il concetto di gravità può coprire quello di irrecuperabilità, il nostro progetto politico-sociale
contro l'emarginazione è costretto a confrontarsi con la politica istituzionale
proprio sul tema dei gravi. Questo vale per i bambini, ma vale anche per gli
anziani non autosufficienti e per quegli adulti fortemente deteriorati da
anni di internamento negli ospedali psichiatrici.
Nell'ambito provinciale in questi anni si è determinato
un ampio processo di deistituzionalizzazione: la
chiusura dell'istituto Villa Giardini, la chiusura dell'istituto
La Torricella di Pavullo, le dimissioni dei
bambini modenesi internati al De Sanctis, le
dimissioni dall'istituto Charitas con una diminuzione
di ricoverati da 360 a 52.
Si è ottenuto inoltre il blocco di nuove istituzionalizzazioni
per quei bambini che o per presunti e mai attuati piani riabilitativi, o per
problemi di disadattamento e povertà, sono stati per anni i maggiori clienti
degli istituti.
Questi risultati si sono ottenuti con un ampio e
faticoso impegno di molti operatori, amministratori e insegnanti e questa
relazione ha inteso solo sintetizzare le riflessioni
che da questo lavoro sono emerse.
Ma d'altra parte è già stato segnalato come la rete
dei servizi territoriali allestiti in dieci anni di attività
regge con fatica nuove spinte verso la segregazione dei gravi. Questi elementi
ci devono riportare all'esigenza di aggiornare le
analisi sull'attuale livello di incidenza della politica istituzionale che a
livello complessivo non è certo stata sconfitta: il pascolo d'oro rappresentato
dal mercato di ricoveri è tuttora molto florido.
La diminuzione dei ricoveri nell'ambito dell'infanzia è stata compensata dall'aumento dell'istituzionalizzazione
degli anziani.
Gli istituti per handicappati hanno innestato meccanismi
apparentemente razionalizzatori, trasformandosi, in
moltissimi casi, da istituti di ricovero per più categorie di
assistiti a istituti «specializzati» nel ricovero di una sola categoria
di assistiti; in tal modo la politica aziendalistica
dei ricoveri ripresenta l'alibi della specializzazione riabilitativa e può
prosperare richiedendo rette sempre più vantaggiose ma non modificando certo i
propri servizi
Sempre a livello nazionale si segnala una ripresa
dell'istituzionalizzazione, la riforma dell'assistenza
si è persa nei meandri del potere clientelare e nel labirinto dei patrimoni
IPAB. Ormai appare molto chiaro che non è sufficiente affermare e dimostrare
il ruolo deprivante e violento dell'istituzione per battere gli interessi
politici ed economici che su queste istituzioni si fondano (16). Non è stato
sufficiente che ricercatori americani già nel 1960 avessero dimostrato il ruolo
deprivante dell'istituzione evidenziando come i bambini del brefotrofio di Teheran nel 60% non riuscissero a
mantenere a due anni la posizione eretta e nell'85% non raggiungessero la
deambulazione autonoma a quattro anni (17). Non è stato sufficiente dimostrare
che i bambini del padiglione H dell'istituto Charitas
erano gravissimi motulesi anche perché per anni non erano mai stati sollevati
dal letto nemmeno per essere alimentati; essi hanno dovuto aspettare anni per
poter vedere il mondo che li circondava in posizione seduta, per potersi
alimentare con cibi solidi avendo di fronte un tavolo
ed altri esseri umani. Per queste piccole ma nello stesso tempo enormi
conquiste questi bambini hanno dovuto attendere l'avvio della battaglia anti-istituzionale, un movimento interno ed esterno di dura contestazione all'istituto, una Commissione di
inchiesta regionale, diretta dal Tribunale per i minorenni, l'ingresso
imposto degli Enti locali nella gestione amministrativa dell'ente.
D'altra parte le attuali spinte
alla riprivatizzazione dell'istituto Charitas, gli intralci e le opposizioni al suo definitivo
passaggio all'Ente locale, non si poggiano sicuramente su progetti riabilitativi
ed educativi alternativi, ma probabilmente e banalmente sull'enorme patrimonio
economico che l'istituto Charitas rappresenta.
La consapevolezza che il confronto con i centri di
potere dell'assistenza non si conduce solo sul piano delle affermazioni etiche
ed ideali fa risaltare quindi l'esigenza di una ripresa dell'impegno politico
anti-istituzionale, di una ricerca di stretta
collaborazione tra servizi, amministratori e genitori, di una
operatività territoriale che si concretizzi in servizi pubblici,
diffusi, facilmente fruibili e garantiti, nella loro dimensione anti-istituzionale, dalla partecipazione sociale e dalle
istanze di democrazia diretta.
Vorrei in conclusione brevemente richiamare una serie
di problematiche che non si è potuto trattare in
questa relazione, ma che comunque devono essere affrontate:
- la definizione del bisogno reale censito secondo
parametri omogenei;
- formazione e qualificazione degli operatori; collocazione delle comunità all'interno della rete dei
servizi territoriali. In merito va definito il ruolo degli operatori che si
occupano dell'inserimento lavorativo;
- valutazione di nuove modalità di intervento
quali ad esempio i servizi domiciliari. In particolare per i bambini in cui le
condizioni di estrema precarietà sanitaria non
permettono interventi socializzanti, o per quei territori, come parte di quelli
montani, in cui l'estensione geografica e la frammentazione della comunità
sociale rendono problematici servizi aggreganti: va altresì studiata l'ipotesi
di un servizio residenziale per quei bambini in condizioni di estrema
precarietà sanitaria e che la famiglia non è più in grado di accudire;
- definizione della collocazione
istituzionale del Charitas.
Nell'eventualità di un suo passaggio all'Ente locale,
individuazione, come primo momento di impegno, dei
meccanismi con cui favorire una larga partecipazione alla gestione di tale
struttura da parte dei servizi, dei genitori o delle loro associazioni, delle
istanze di democrazia diretta.
Infine, alla luce della richiesta espressa da tutti
i partecipanti al gruppo di lavoro che ha reso possibile la stesura di questa
relazione, si chiede alle Unità sanitarie locali e all'Amministrazione
provinciale di favorire la costituzione di una Commissione di studio sul
problema dei gravi, per un proseguimento dell'elaborazione teorico-scientifica
e per l'approntamento di un programma organico di intervento.
Bibliografia
1) Regione Emilia
Romagna, L'inserimento degli handicappati:
proposta di discussione, 2° seminario regionale, Ferrara, 1977.
2) A. Pioli, Il territorio difficile in: AA.VV., Educazione
permanente dell'handicap, F. Angeli Editore,
1980.
3) G. Bilancia, G. Polletto, Il grave reificato, in Educazione permanente dell'handicap, op. cit.
4) Ibid.
5) G. Levi, Disturbi neuropsicologici
e rischio psicopatologico nei primi anni di vita, in «Epidemiologia
e prevenzione», anno 3°, n. 7.
6) Nardocci,
Stella, Ferrari, Gibellini,
Mazzoli, Il bambino grave, Consorzio
socio-sanitario, Sassuolo, 1977.
7) B. Bettelheim,
Psichiatria non oppressiva, Feltrinelli, 1976.
8) L.S. Vygotskij, Lo sviluppo psichico del bambino, Editori
Riuniti, 1977.
9) Il bambino grave, op. cit.
10) M. Mannoni,
Il bambino ritardato e la madre, Boringhieri, 1971.
11) E. Montobbio,
Il bambino subnormale e la sua famiglia, in: AA.VV., Educazione degli handicappati, F. Angeli Editore, 1980.
12) L. Lanati, L. Massone, G. Mazzoleni, Problemi relazionali nell'esperienza a
Voghera, in: Educazione permanente
dell'handicappato, op. cit.
13) C. Saraceno, Anatomia della famiglia, De Donato, 1976.
14) Nardocci,
Stella, Morini, Ferraresi, Il cerchio rotto, Nuova Guaraldi, 1980.
15) E. Montobbio,
op. cit.
16) Il cerchio rotto, op. cit.
17) J. Mc. Vicker Hunt, Il fondamento psicologico dell'arricchimento nella educazione
prescolastica come antidoto contro a deprivazione culturale, in: AA.VV., L'educazione
degli svantaggiati, F. Angeli, 1978.
(*) Relazione tenuta al Convegno
provinciale di Modena del 29 aprile 1981. L'articolo è stato pubblicato su Neuropsichiatria dell'età evolutiva,
vol. I, n. 1, ottobre 1981.
www.fondazionepromozionesociale.it