Prospettive assistenziali, n. 57 bis, gennaio - marzo 1982

 

 

DIBATTITO

 

 

CAVINA - Famiglia adottiva

 

Chiedo scusa a tutti se sarò in difficoltà ad esprimere questa nostra vicenda. Qui accanto a me ho mia moglie ed è molto doloroso per noi raccontare: cercherò di essere il più conciso pos­sibile e vi prego di ascoltarci.

È la storia del piccolo Nicola, che ora ha poco più di tre anni e ci venne affidato in data 14 luglio 1979 quando aveva appena 14 mesi, in seguito al decreto definitivo di adottabilità emesso dal Tri­bunale per i minorenni di Bologna in data 14.5.79.

Pur con molte preoccupazioni, fummo rassicu­rati dai Servizi Sociali in luogo, che il piccolo era un esposto, e quindi sarebbe stato il caso più tranquillo e sicuro. Premetto che il decreto fu emesso sulla base dello stato di abbandono: figlio di una ragazza non ancora quindicenne, di un pa­dre sconosciuto, e così via.

Il piccolo ci giunse naturalmente in condizioni precarie di salute, comunque giorno per giorno nella nostra famiglia cresceva normalmente, mi­gliorando in modo stupefacente.

Poi, quasi allo scadere del periodo dell'affido preadottivo, cioè dell'anno previsto alla conclu­sione dell'affido, nel maggio 1980 fummo infor­mati, dapprima in modo molto informale, che la madre dopo il decreto di affido preadottivo, nell'agosto 1979 aveva provveduto a riconoscere il bambino assieme all'uomo con cui nel frattempo conviveva e si era opposta all'affidamento. Il 7 luglio 1980 ci fu la prima sentenza del Tribunale per i minorenni di Bologna che confermò lo stato di abbandono del piccolo Nicola, che continuò quindi a vivere con noi. Ma la madre, congiunta­mente all'uomo che aveva nel frattempo sposato, fece ricorso in appello. Appello che secondo noi, come coniugi affidatari, e secondo i legali, poteva essere proposto solo dal Pubblico Ministero in base all'art. 314/18, 4° comma c.c., in quanto i genitori naturali - quando sia già diventato defi­nitivo il decreto di adottabilità - non sono legitti­mati a proporre.

Quindi, non si sa perché, comunque la Corte di Appello di Bologna accettò questo ricorso che di­scusse molto superficialmente: scusatemi se dico molto superficialmente - il giudizio è mio - però penso che la vita di un bambino, il futuro di un bambino, non si possano discutere o verificare o modificare in venti minuti come purtroppo av­venne.

La sentenza del 31 marzo 1981 della Corte di Appello revocò il decreto di adottabilità, che era stato invece ribadito e riconfermato dal Tribunale per i minorenni pochi mesi prima.

Quindi potete benissimo capire la nostra preoc­cupazione, la mazzata tremenda che arrivò nella nostra famiglia.

Comunque noi procedemmo subito per ottene­re l'inibitoria, cosa che ci fu negata.

Quindi la permanenza di Nicola nella nostra fa­miglia era in grave pericolo, e d'accordo con gli avvocati decidemmo di cominciare le visite del­la famiglia d'origine, vista la prospettiva che Nicola dovesse andare dai genitori naturali.

I genitori si dimostrarono inizialmente abba­stanza disponibili al rapporto. Invece fu solo uno stratagemma per poi sottrarci il bambino nel mo­do peggiore, nel senso che, dopo poche visite, i genitori chiesero di portare per pochi giorni il bambino in montagna - cosa che non fu vera - e invece ce l'hanno sottratto, e non l'abbiamo visto più. Ci recammo successivamente - come eravamo d'accordo alla partenza del bambino - a riprendere il piccolo Nicola, ma ci fu negato e fummo cacciati fuori di casa seguiti dalle urla di invocazione e di aiuto che potete benissimo im­maginare, da parte di un bambino di quell'età che era cresciuto e conosceva solo il nostro nucleo familiare avendovi trascorso i due anni preceden­ti e formativi per il suo carattere.

C'è rimasto solo il dolore. Ora siamo in attesa della Cassazione presso cui abbiamo proposto ap­pello, cosa che d'altronde ha fatto anche il Pubbli­co Ministero ritenendo illegittimo il ricorso pro­posto in Corte d'Appello dai genitori naturali. Vi lascio immaginare il nostro stato d'animo, e la nostra preoccupazione non solo per il caso nostro specifico, ma per il domani di altre coppie che saranno in queste stesse condizioni, e soprattutto per il futuro di questi bambini che rischiano di essere sballottati a tempo indeterminato da una famiglia all'altra. Grazie per avermi ascoltato.

 

 

GIGLIA TEDESCO (*)

 

Siamo tutti scossi perché vorremmo poter fare qualcosa per il caso specifico, ma temo che pur­troppo, in questo caso, possa solo decidere la Cassazione, auguriamocelo.

Per quanto riguarda il futuro, nel testo nostro abbiamo proprio contemplato questa situazione: ossia che tutte le possibili opposizioni possano essere solo antecedenti all'affidamento; una vol­ta subentrato l'affidamento preadottivo la situa­zione non dovrà essere più reversibile.

Abbiamo considerato questa ipotesi non solo per le legittime aspettative degli adottanti, ma soprattutto per il bambino. Certo, purtroppo que­sta norma non potrà essere retroattiva, quindi non coprirà questa specifica situazione, ma alme­no, per il futuro, se la norma verrà approvata così come l'abbiamo elaborata, questa situazione non dovrebbe potersi più verificare.

E io voglio sottolineare che questo non è per togliere i figli a qualcuno, ma perché se una deci­sione di riconoscimento e di assunzione di re­sponsabilità deve esserci, deve essere tempestiva. Io credo che stabilire questo termine - sta­bilire, cioè, che una volta avvenuto l'affidamento preadottivo, cessa la possibilità di fare opposi­zione alla dichiarazione dello stato di abbando­no - significhi anche sollecitare questo senso di responsabilità.

 

(*) Testo non rivisto dall'autore.

 

 

CAVALLARO PIETRO - Coordinamento nazionale per gli interventi alternativi alla istituzionalizzazione dei minori in Italia

 

Io faccio parte di un Coordinamento Nazionale per gli interventi alternativi alla istituzionalizza­zione dei minori in Italia. Ne fanno parte una tren­tina di associazioni, gruppi o enti, e questo Coor­dinamento è nato in seguito a un convegno che si è svolto a Rimini nel settembre 1980 - i cui atti sono qui fuori a disposizione - ed è nato proprio su questo problema specifico.

Io vorrei soltanto leggere una cosa brevissima.

Questo Coordinamento ha espresso alcune pro­poste di modifica alla legge sull'adozione specia­le, ed una copia del testo è stata inviata ai Mini­steri interessati e a tutti i componenti della Com­missione Giustizia del Senato nei giorni scorsi, quindi non l'avete ancora ricevuta. Dice così:

«Si premette che devono essere effettuati in­terventi di sostegno diretti ad eliminare le cause che impediscono l'armonioso sviluppo del bambi­no nella sua famiglia. Pertanto gli Enti locali, nell'ambito dei servizi previsti dal D.P.R. 616 del 1977 e dalla emananda legge di riforma sull'assi­stenza, dovrebbero predisporre servizi ed inizia­tive al fine di assicurare ai nuclei familiari in difficoltà: a) la fruizione dei servizi fondamentali, casa, asili-nido, scuola materna e dell'obbligo, la­voro, ecc.; b) prestazioni di consulenza, compre­sa quella legale, ai nuclei familiari, e servizi di as­sistenza economica, domiciliare e infermieristica. Dovrebbero inoltre essere previsti servizi sostitu­tivi dei nuclei familiari in difficoltà, come ad esempio case-famiglia, comunità-alloggio, gruppi-appartamento, famiglie aperte, ecc.

La modifica della legge 5 giugno 1967, n. 431, dovrebbe essere fondata sui seguenti punti: a) innalzamento dell'età dei minori adottabili a 18 an­ni; b) semplificazione delle procedure per giun­gere alla dichiarazione dello stato di adottabilità - esempio: eliminando l'opposizione davanti allo stesso Tribunale che ha dichiarato lo stato di adottabilità; c) condizione per la dichiarazione di adottabilità: fermo restando una situazione irre­versibile di abbandono materiale e morale del mi­nore, lo stato di abbandono deve essere valutato in base ai bisogni e alle esigenze del minore stes­so. Non può essere dichiarata l'adottabilità quan­do la mancanza della famiglia e quindi l'abbando­no è dovuto a cause di forza maggiore a caratte­re transitorio; d) soppressione della adozione or­dinaria dei minori, consentendo eventualmente la adozione ordinaria di maggiorenni a condizione che nella minore età ci sia stato tra il minore e gli adottanti un rapporto affettivamente valido e im­portante agli effetti educativi; e) abrogazione del­le norme dell'affiliazione; f) adozione internazio­nale: deve avvenire con le medesime garanzie previste dal nostro ordinamento, e deve, per quanto applicabili, essere regolata dalle norme della legge n. 431 del 1967; g) sanzioni per chi opera affidamenti a scopo adottivo senza autoriz­zazione del Tribunale per i minorenni e per chi svolge opere di mediazione; h) controllo e vigi­lanza degli istituti di ricovero dei minori da parte della Regione e delle USL, e sanzioni per coloro che non ottemperano alla trasmissione degli elen­chi trimestrali di tutti i minori ricoverati; i) attri­buzione di tutte le competenze ai Tribunali per i minorenni, comprese quelle attualmente affidate ai Giudici Tutelari; l) conferma delle norme attua­li per quanto riguarda la possibilità di adottare con l'adozione speciale esclusivamente ai coniu­gi, riduzione della differenza minima di età da 20 a 18 anni e di quella massima da 45 a 40 anni».

Ce ne sono molte di cose che avete già recepi­to, e questo veramente mi fa molto piacere. Avete fatto un bel lavoro.

«Permettere ai minori, anche se hanno meno di 16 anni, di riconoscere i propri figli, preveden­do gli opportuni interventi di sostegno.

In materia di affidamento: a) confermare la competenza di disporre gli affidamenti agli Enti Locali, sia in considerazione del D.P.R. n. 616 del 1977 che ha trasferito ai Comuni le competenze assistenziali dello Stato, sia perché l'Ente Locale è più vicino al minore o alla famiglia, conosce meglio le situazioni, ed è quindi in grado di inter­venire più efficacemente e più rapidamente dell'organo giudiziario con aiuti, consigli, assistenza, appoggio e reperimento di nuclei sostitutivi della famiglia d'origine; b) il ricorso all'affido educa­tivo va fatto solo quando la famiglia non è in gra­do di assolvere al suo ruolo educativo, e non sono possibili o attuabili nell'interesse del minore gli interventi di cui al punto 1, e non sussistono le condizioni per la dichiarazione dello stato di adottabilità; c) definizione dei doveri e dei diritti degli affidatari, loro preparazione e selezione, in­terventi di sostegno dopo l'inserimento del mi­nore; d) sanzioni che chi opera a scopo di lucro; e) approvazione di una norma che renda possibile l'adozione speciale di minori affidati a scopo edu­cativo quando si verificano situazioni irreversibi­li di abbandono, previa dichiarazione dello stato di adottabilità; f) attribuzione al Tribunale per i minorenni del compito di vigilare sugli affidamen­ti e di dirimere eventuali controversie che pos­sono sorgere fra le parti».

Molte cose sono state da voi accettate e ve ne ringrazio: spero che vengano effettivamente accettate nella prassi.

 

 

GIULIANA FUÀ - Segretaria del Centro per la riforma del diritto di famiglia

 

Intanto devo esprimere il mio rammarico per­ché in una giornata densa di lavoro professionale non sono riuscita a seguire continuativamente questo interessantissimo convegno: il che mi ha privato di sentire relazioni molto importanti; e d'altra parte mi fa correre il rischio di ripetere forse alcune cose già dette prima di me.

Vi parlerò di un tema, che ha già costituito oggetto di un mio intervento ad un recente con­vegno di psicologia ad Urbino: l'idoneità ad esse­re genitori adottivi.

Nell'adozione ordinaria la sussistenza di detta idoneità non viene accertata, non essendo preso in considerazione se non marginalmente l'inte­resse dell'adottando e limitandosi le norme che la regolano a stabilire un duplice requisito d'età: che gli adottanti abbiano compiuto 35 anni (ridu­cibili per eccezionali circostanze a 30 anni) e che la loro età superi di almeno 18 anni l'età degli adottandi.

Nell'adozione speciale invece, il legislatore, oltre a stabilire l'intervallo di età fra adottanti e adottandi - non inferiore a 20 e non superiore a 45 -, elenca quei requisiti degli adottanti che ritiene indispensabili per la tutela dell'interesse degli adottandi, e cioè: che gli adottanti siano coniugati da almeno 5 anni; che essi non siano separati neppure di fatto; che essi siano fisica­mente e moralmente idonei ad educare ed istrui­re gli adottandi nonché in grado di mantenerli.

Se l'accertamento dello stato coniugale degli aspiranti genitori adottivi è di carattere obiettivo, e così pure l'accertamento delle condizioni econo­miche degli stessi, nonché, entro certi limiti, quello delle loro condizioni di salute, non può cer­to dirsi altrettanto sull'accertamento dell'idoneità morale dell'educazione dei minori. Nulla precisa la legge sulle modalità di tale accertamento (in­dubbiamente molto difficile, delicato e comples­so) né se si concluda con un provvedimento, né se gli aspiranti genitori adottivi debbano essere messi a conoscenza delle valutazioni date nei loro confronti.

Qui apro una parentesi, per segnalare con quan­ta cautela si dovrebbero affidare (da parte dei Tribunali minorili) siffatte indagini ad assistenti sociali e psicologi, valutandone la maturità, la serenità di giudizio e il buon senso, oltre le qua­lità d'intelligenza e di preparazione.

Mi è capitato recentemente di trovarmi di fron­te ad un giudizio di inidoneità di una coppia, che mi ha veramente sbalordito per la motivazione.

Su due considerazioni si basava sostanzial­mente tale giudizio negativo. La prima era che i coniugi avevano entrambi dichiarato di essere perfettamente affiatati e sereni, precisando che, anche se non avessero avuto la fortuna di otte­nere un bambino in adozione, la loro armonia co­niugale non ne avrebbe sofferto (il che avrebbe dovuto essere invece un elemento di giudizio po­sitivo, tanto più in contrapposizione con il fatto che molti coniugi cercano nel figlio adottivo so­prattutto chi possa colmare una loro insoddisfa­zione, una loro carenza affettiva).

La seconda considerazione era che la moglie, dopo aver detto di svolgere da molti anni una pro­pria attività, pur senza un bisogno economico im­pellente, aveva aggiunto che, ove avesse avuto un figlio - da essa stessa procreato o adotti­vo -, avrebbe ridotto nel primo periodo dell'in­fanzia del bambino il proprio lavoro, ma non lo avrebbe abbandonato completamente, non solo per un'esigenza della sua personalità, ma soprat­tutto per non incorrere in quel mammismo che spesso può nuocere nell'educazione.

Chiusa la parentesi, ritorno al punto che do­vrebbe essere risolto legislativamente: come si deb­ba concludere l'accertamento dell'idoneità ed es­sere genitori adottivi.

In alcuni Tribunali, compiuta l'indagine, viene emesso, in base alle risultanze della stessa, un provvedimento in camera di consiglio - positivo o negativo - sull'idoneità degli aspiranti genito­ri adottivi, ai quali esso viene notificato. In altri Tribunali invece ci si limita ad archiviare i casi di inidoneità ed a rubricare d'altra parte i casi d'idoneità, facendo possibilmente delle classifica­zioni di maggiore o minore idoneità non solo se­condo l'età dei bambini da adottare, ma anche se­condo le condizioni degli stessi (sani, malati, nor­mali, subnormali ecc.); il che aiuta la non facile decisione del Tribunale circa la coppia a cui dare in affidamento un minore quando ne sia diventato definitivo lo stato di adottabilità.

Personalmente propendo per la seconda di det­te soluzioni, considerando - conformemente all'opinione del Moro (L'adozione speciale, Giuffrè 1976) - «scissa la fase di accertamento preven­tivo dell'idoneità ad adottare dalla fase di volon­taria giurisdizione, che si apre a seguito della di­chiarazione di adottabilità di un minore».

La soluzione testé prospettata mi sembra pre­feribile anche sul piano umano. Infatti, da un lato, la conoscenza di una valutazione d'idoneità può creare prima euforiche illusioni e successiva­mente amarissime disillusioni qualora ad una coppia ritenuta idonea venga preferita, nell'affida­mento preadottivo, altra coppia risultata nel giu­dizio di comparazione più idonea all'adozione di un determinato minore; dall'altro lato, la cono­scenza di una valutazione di inidoneità può far scaturire reazioni di dolore e di esasperazione nella coppia «bocciata», che si sentirebbe mac­chiata d'indegnità.

Si auspica comunque che dai lavori parlamenta­ri in corso per la riforma dell'adozione scaturisca una norma chiara che elimini l'attuale divergenza tra i vari Tribunali minorili.

 

 

GUIDO GATTABENI - Psicologo

 

Vorrei fare brevemente un intervento sulla que­stione dell'affido familiare e della sua regolamen­tazione.

Concordo pienamente col Presidente del Tribu­nale per i minorenni di Torino dott. Vercellone sul­la necessità di evitare assolutamente una rego­lamentazione che preveda un intervento a priori della magistratura, nell'attuazione dell'affido.

Parlo come operatore: sono 15 anni che lavoro nel campo dei minori e mi sono occupato e mi oc­cupo anche di affidi, abbastanza drammaticamen­te qualche volta; perché non è che sia una realtà facile da affrontare, e so per esperienza che, se introduciamo una regolamentazione di tipo giuri­dico a priori in questo tipo di rapporto, salta la possibilità di portare avanti correttamente un'ope­razione molto complessa dal punto di vista psi­codinamico dal momento che coinvolge famiglia d'origine, famiglia affidataria, operatori, ecc.

Concordo anche col dott. Battistacci che dice­va che forse non serve regolamentare l'affido, che si potrebbe già procedere come abbiamo procedu­to in questi anni con le norme esistenti, essendo già abbastanza tutelati dal punto di vista giuri­dico.

Però mi sembra che ci sia un punto che vale la pena di sottolineare in base all'esperienza che abbiamo fatto. La cosa non riguarda ovviamente gli affidi che partono da un provvedimento del Tri­bunale minorile che affida il minore al Comune, il quale deve provvedere e, a sua volta, farà un affido: questi ovviamente sono affidi che partono già con un coinvolgimento del Tribunale corretto, perché ci sono state delle premesse di un certo tipo. Parlo invece degli affidi che partono dal bi­sogno che una famiglia o chi per lei, viene a se­gnalare agli operatori sociali del territorio. Noi riteniamo che si debba sempre e comunque parti­re tentando di stabilire un rapporto di collabora­zione fondato sulla fiducia: in fondo l'affido è una risposta alla richiesta di una collaborazione a por­tare avanti concretamente per un periodo di diffi­coltà temporanee - prevedibilmente tempora­nee, perché altrimenti ricadiamo nella problema­tica dello stato di abbandono - una funzione edu­cativa: in altri termini, la richiesta di intervento si configura, in fondo, come una richiesta di par­tecipazione all'esercizio della patria potestà, con tutto quello che è annesso e connesso, determi­nando con ciò stesso un allargamento, una esten­sione di fatto della patria potestà, dal momento che chi l'esercita chiede l'intervento di altri per attuare i compiti che la sostanziano.

Mi pare che si debba partire sempre da questa attitudine: offrire un rapporto di collaborazione e di aiuto e non un rapporto che comporti un giu­dizio morale: abbiamo parlato a iosa nei conve­gni degli anni passati del fatto che la famiglia d'origine non deve essere etichettata come catti­va, come famiglia incapace, e così via, perché questo rompe la possibilità di un rapporto che fa­vorisca una ricostruzione. Ecco, mi sembra che questa proposta della Commissione che prescri­ve a priori l'intervento del giudice tutelare rischi proprio di introdurre questo aspetto psicologica­mente negativo.

È d'altra parte anche un dato d'esperienza que­st'altro aspetto: diverse situazioni di affido, che abbiamo impostato in questa maniera, improvvi­samente si sono in seguito deteriorate; non sto a dilungarmi in spiegazioni perché oramai un po' tutti lo sanno. Improvvisamente, ad esempio, in­sorgono dinamiche affettive tra affidatari e affida­to che determinano reazioni affettive contropro­ducenti nella famiglia d'origine. Si possono così verificare delle crisi impreviste nel progetto con­cordato.

Io penso che questa sia stata un po' la preoc­cupazione di chi ha fatto la proposta dell'interven­to del giudice tutelare, quella cioè di evitare che ci siano improvvisamente delle rotture unilaterali del progetto educativo da parte di chi esercita la patria potestà, rotture che non possono che tor­nare dannose al minore che è in affido.

A me sembra che si dovrebbe tentare di trovare una formula che possa salvare tutte e due le esi­genze, quella cioè di poter impostare il dialogo tra operatori e famiglia in difficoltà sulla base di una attitudine di collaborazione e quella di evita­re che in seguito chi esercita la patria potestà possa decidere unilateralmente e all'improvviso di interrompere un affido con danno del minore affidato.

Questo guaio a me è capitato diverse volte. Mi è venuto a trovare proprio ieri sera un ragazzo di 20 anni, latitante e ricercato, e che è in queste condizioni proprio a causa di un colpo di testa improvviso della madre che ha strappato agli affi­datari il figlio una domenica di sette anni fa, aven­do «sentito» imprevistamente di non concordare più con chi le aveva offerto questa collaborazione per l'educazione del figlio.

Ora io dicevo prima che l'affido in fondo potreb­be configurarsi come un'estensione dell'esercizio della patria potestà. Allora propongo che, anziché introdurre in ogni caso e a priori una norma che prescriva l'intervento della magistratura, si intro­duca una formula giuridica che, nello spirito dell'estensione della patria potestà, vieti ogni deci­sione unilaterale, non concordata cioè con le altre parti in causa (famiglia affidataria e operatori dell'Ente assistenziale) e che, in caso di conflitto, rimandi il giudizio al Tribunale per i minorenni, tecnicamente più competente dei giudici tutelari.

Ciò consentirebbe senz'altro di evitare il ri­schio che chi esercita la patria potestà, possa fare quello che vuole e interrompere l'affido per conto suo. Tra l'altro, poiché gli incontri tra fami­glia di origine e affidatari avvengono spesso di sabato o di domenica e non si può andare in gior­nata al Tribunale per i minorenni a dirimere la questione né si possono reperire gli operatori dei servizi sociali interessati per coinvolgerli in una decisione, succede spesso che, in mancanza di norme chiare che limitino i poteri dell'esercente la patria potestà, gli affidatari si trovano soli e impotenti di fronte ad un problema che non sono in grado di risolvere a vantaggio dell'affidato.

Allora, se riuscissimo a prevenire questi incon­venienti senza pregiudicare la possibilità di effet­tuare anche quegli affidi che un intervento pregiu­diziale della magistratura inquinerebbe, avrem­mo trovato una formula ottimale, uno strumento adattabile alla diversità delle situazioni.

Succederebbe un po' quello che succede quan­do due genitori, che esercitano entrambi la pa­tria potestà, non vanno d'accordo: non è che uno possa decidere per conto suo, devono trovare un arbitro. Allo stesso modo gli operatori socio-assi­stenziali, gli affidatari e la famiglia d'origine, es­sendo corresponsabili nella tutela dei diritti edu­cativi del minore, dovrebbero procedere di comu­ne accordo, salvo ricorso alla Magistratura in ca­so di disaccordo.

È possibile introdurre una regolamentazione dell'affido di questo genere, modificando la pro­posta formulata dalla Commissione che prevede invece l'intervento del Giudice Tutelare per dare efficacia a qualsiasi affido?

 

 

LUCIANA GAZZANIGA - Assistente sociale IPPAI

 

Io vorrei rivolgere queste mie brevissime con­siderazioni ai parlamentari qui presenti, se non altro per indurli una volta ancora ad esaminare, a verificare la compatibilità di questa legislazio­ne di riforma di questi istituti giuridici (dell'ado­zione, dell'adozione internazionale, degli affidi fa­miliari) con le altre leggi a sfondo sociale che, così come sono configurate, possono agevolare o bloccare, o rendere molto più difficile nella prati­ca l'attuazione anche di queste leggi innovative. lo faccio riferimento molto brevemente alla leg­ge 833, riforma sanitaria, che prevede un certo tipo di assetto dei servizi socio-sanitari di base nelle zone, al D.P.R. 616 e alla qui menzionata legge-quadro di riforma dell'assistenza, che mi sembra proprio non vada nella linea dell'integra­zione dei servizi. Rischiamo di creare una sepa­razione tra i servizi socio-assistenziali e le strut­ture della riforma sanitaria, nella fattispecie - per quello che riguarda la materia minorile - consultori familiari ed altri servizi a favore dei minori. Quindi occorre quanto meno che queste leggi vengano integrate, in modo tale da facili­tare l'integrazione, che, se non è sancita dalla legge, riposerà esclusivamente sulla disponibilità degli operatori o dell'équipe, e quando c'è, il la­voro va avanti molto più speditamente, quando non c'è, evidentemente ci si trova ancora di fronte ad una frantumazione di interventi che non è utile né agli utenti né agli operatori, e neppure ai magistrati che non sanno più a quale servizio, a quali operatori fare riferimento. Concordo con quanto è stato detto precedentemente dal Dott. Vercellone e dal Dott. Cattabeni relativamente agli affidi familiari: esiste in un vasto numero di operatori sociali (la totalità di quelli di Torino, credo la massima parte di quelli di Milano, ed è diffusa anche sul resto del territorio nazionale) l'esigenza che l'affido familiare, concepito come strumento d'intervento da collegare con i servizi socio-sanitari di zona, abbia sì un certo tipo di re­golamentazione, ma che non sia ingabbiato in una legge che mortifica poi la sua attuazione pratica. Suggerirei di contemplare se mai un rinvio ad una regolamentazione da parte delle Regioni nell'ambito della legislazione regionale inerente l'or­ganizzazione dei servizi socio-sanitari, perché mi sembra che una legge nazionale che rinvia poi al Tribunale per i minorenni, eccetera, veramente va contro la praticità. Vorrei solo richiamare an­cora brevemente una questione che è molto diffu­sa nelle varie aree del territorio nazionale e che ha a che fare con il rapporto fra Giudici Minorili e servizi sociali. Consentitemi di parlare ancora per un minuto: sono uno dei pochissimi operatori sociali rimasti presenti, penso quindi che sia ab­bastanza legittimo che venga espressa anche que­sta opinione. Vorrei solo dire che esiste una si­tuazione di disagio e che la posizione degli opera­tori sociali richiede a sua volta di essere « tute­lata ». lo vorrei chiedere se non sia possibile in­serire in queste disposizioni di legge un articolo nel quale si dica che gli interventi richiesti dai Giudici Minorili nei confronti degli operatori dei servizi socio-assistenziali o socio-sanitari avven­gano nel rispetto delle loro competenze, della loro professionalità e dei loro metodi professio­nali, perché altrimenti c'è un grosso rischio, cioè che essi vengano trasformati in organi di polizia giudiziaria.

 

 

EZIO ADAMI - Avvocato e socio ANFAA

 

Anzitutto sono d'accordo con la proposta della Commissione Giustizia del Senato di mantenere il grado d'appello nelle cause di opposizione allo stato di adottabilità.

Sarebbe un grave errore eliminare il grado d'ap­pello perché il diritto di difesa dei genitori d'ori­gine del minore è fortemente limitato davanti al Tribunale per i minorenni (non c'è diritto al con­traddittorio nella formazione delle prove e il Tri­bunale istruisce la pratica, promuove l'azione, giudica sui risultati della propria istruttoria dopo aver spesso affidato il minore a una coppia aspi­rante all'adozione ed aver quindi assunto con tale atto di carattere amministrativo la veste so­stanziale di «parte», naturalmente propensa a difendere la sua scelta).

Di fronte ad errori od abusi del Tribunale per i minorenni i genitori d'origine non possono che confidare in un riesame più sereno da parte dei giudici dell'appello.

Sono anche d'accordo sull'attribuzione della competenza a giudicare l'appello sull'opposizione all'adottabilità ad un Tribunale per i minorenni territorialmente vicino al Tribunale competente per il primo grado di giudizio. Tale sistema può comportare dei disagi alle parti più lontane dal luogo in cui si svolge il processo, ma per il mag­gior grado di professionalità dei giudici che gior­nalmente vengono a contatto con fatti e situazio­ni dei minori i Tribunali per i minorenni in linea generale appaiono più idonei a giudicare nello specifico settore rispetto ai giudici delle Sezioni Minori delle Corti d'Appello che si occupano degli affari civili e penali più disparati.

Altro argomento. Durante il processo di oppo­sizione allo stato di adottabilità (che oggi può durare anni ma che, anche con opportune modifi­che delle attuali norme, richiederà sempre una certa durata) è spesso opportuno un affidamento familiare per non mantenere il bambino in istituto o nell'ambiente della sua famiglia ritenuta inido­nea. Peraltro, poiché l'accoglimento eventuale dell'opposizione allo stato di adottabilità compor­ta la restituzione del minore ai genitori, appare opportuno che costoro mantengano i rapporti col figlio. A tale scopo la soluzione più opportuna è l'affidamento del minore a una coppia aspirante all'adozione che accetti di mantenere i rapporti del minore con la famiglia di origine, per evitare che dopo l'eventuale accoglimento dell'opposizio­ne il bambino debba essere restituito a persone diventate per lui «sconosciute».

Per finire, voglio esprimere il mio dissenso sul­la proposta di mantenere in vigore l'adozione or­dinaria.

Se un ordinamento giuridico deve informarsi a criteri di razionalità, bisogna evitare od eliminare le norme e gli istituti in stridente contraddizione con altre norme o altri istituti.

Con l'adozione speciale si ritiene funzione esclusiva dell'organo pubblico quella di trovare al minore una famiglia idonea a mezzo di dispo­sizioni che impediscono a chicchessia (genitori o terzi) di disporre del minore.

Con l'adozione ordinaria si vanifica la preindi­cata funzione di carattere pubblicistico, attri­buendo legittimità ad un rapporto di carattere privatistico (cessione o compravendita del mi­nore).

Trattasi, com'è evidente, di un contrasto insa­nabile che deve essere superato mediante la soppressione dell'istituto dell'adozione ordinaria, il quale favorisce e legalizza il mercato dei bam­bini e comunque non dà al minore la garanzia di trovare una famiglia idonea.

 

 

LANFRANCO SALSI - Movimento operativo per la lotta contro l'emarginazione sociale (*)

 

Provengo da Reggio Emilia: sono un portatore di handicap, aderisco al Movimento operativo per la lotta contro l'emarginazione sociale (MOLCES) e ho aderito all'ANFAA perché purtroppo ho sco­perto nelle istituzioni oggi esistenti nel nostro Paese decine di migliaia di portatori di handicaps.

Sono ricoverati nei Cottolenghi e nelle Case di carità. Nessuno ne ha parlato: però sono abban­donati a loro stessi, languono in questi ricoveri. Provengono soprattutto da famiglie di lavoratori, da famiglie di povera gente, costretta con la mor­te nel cuore ad abbandonarli in queste strutture, perché l'Ente pubblico paga agli istituti rette sa­latissime, mentre alle famiglie praticamente non paga niente.

Quello che è peggio è che spesso e volentieri mancano tutte quelle strutture d'appoggio che aiutino le famiglie ad allevare i figli portatori di handicaps nel migliore dei modi, che permettano ai portatori di handicaps un loro inserimento nel mondo di tutti, nella scuola, nel lavoro e che ren­dano effettivo il loro diritto a una vita degna di essere vissuta.

Ciò è quanto, purtroppo, esiste nel nostro pae­se. Allora ci si può chiedere: ma che differenza c'è tra l'epoca del nazismo, tanto per intenderci, l'epoca hitleriana, quando l'handicappato, che si riteneva irrecuperabile, veniva eliminato fisica­mente, e l'epoca di oggi, quando viene poi elimi­nato non dico fisicamente, ma moralmente e so­cialmente? Viene nascosto, gli viene tolto quello che è più grande per l'uomo: l'amore della fa­miglia, l'amore dei propri genitori, rendendolo così un infelice, non tanto perché portatore di handicap, ma soprattutto perché in base a que­sto viene allontanato dalla famiglia e dalla socie­tà. Questa é una cosa che io vorrei dire e gradirei che il Parlamento ci pensasse un pochino sopra: tra i progetti che si vanno ad approvare, si approvi anche qualcosa in questo senso, perché è passa­to invano l'anno del fanciullo e sta passando in­vano anche l'anno dei cosiddetti portatori di han­dicaps. Perché si fanno le feste, e di fumo se ne vede parecchio, ma di arrosto nulla.

 

(*) Testo non rivisto dall'autore.

 

 

OLGA AGUZZOLI - Avvocato

 

Vorrei richiamare l'attenzione, in particolare dei parlamentari, su un problema assai delicato e sul quale a mio avviso si rende necessario un intervento del legislatore; problema che è affio­rato in precedenti interventi e che coinvolge la sorte dei minori figli di genitori che non abbiano compiuto i 16 anni di età e per i quali viga il di­vieto di cui all'ultimo comma dell'art. 250 c.c.

Qualche mese fa la stampa ha dato ampio ri­lievo alla dichiarazione (da parte di un Tribunale minorile) dello stato di adottabilità di un minore che si trovava nell'ipotesi indicata e non v'è dubbio che l'opinione pubblica abbia in gran par­te reagito dimostrando di avvertire come iniquo per il genitore minorenne, e contrastante, almeno in linea di principio, con l'interesse del bambino, l'aver posto sullo stesso piano l'atteggiamento del genitore che, pur potendolo, rifiuta di ricono­scere il figlio e quello del genitore che, pur vo­lendolo riconoscere, è impossibilitato a farlo.

Quali tristi conseguenze ne possono derivare non è difficile immaginare; e ne è conferma dolo­rosa il caso personale testé esposto nell'interven­to di un signore, di cui mi scuso di non ricordare il nome.

Per ovviare a tali tristi conseguenze, qualcuno (e la Sen. Tedesco personalmente ci ha dato il conforto del suo pensiero e del suo operato) ha prospettato una soluzione: quella di vietare il ri­conoscimento del figlio nei confronti del quale sia stato dichiarato lo stato di adottabilità con de­creto divenuto definitivo.

Qualche altro (anche qui mi scuso di non ricor­dare il nome) ha auspicato la possibilità di rico­noscimento del figlio naturale anche da parte del genitore che non abbia compiuto il 16° anno di età.

La prima soluzione che indubbiamente pone il bambino al riparo dal rischio di controversie nella gran parte dei casi distruttive della sua persona­lità e comunque estremamente dolorose, ha il torto di ignorare i diritti naturali del genitore, che, pur sensibile alle proprie responsabilità morali e pronto a farvi fronte, vede inesorabil­mente sacrificato il proprio diritto, vorrei dire na­turale, ad essere a tutti gli effetti genitore del proprio figlio. Aspetto tanto più grave in quanto è pur esso un minorenne, e anche come tale, parti­colarmente meritevole di tutela.

La seconda proposta contrasta con le difficoltà nascenti dalla «incapacità giuridica del minore» e, quindi, dalla sua incapacità a compiere un atto negoziale, quale indubbiamente è (e di notevole portata) l'atto di riconoscimento del figlio.

Senonché tale difficoltà, apparentemente insu­perabile alla luce di indiscussi principi generali di diritto, il legislatore ha già ritenuto di supera­re, consentendo il riconoscimento del figlio al mi­norenne che abbia superato il 16° anno di età.

In tale situazione mi sembra di poter suggerire e caldeggiare l'abrogazione del divieto di cui all'ultimo comma dell'art. 250 c.c. quanto meno per la madre; potendosi per il padre prospettare ragioni di opportunità diverse.

Ciò che comunque, anche in presenza del ri­chiamato divieto, deve essere evitato è ciò che, invece, come abbiamo visto, è purtroppo accadu­to ed accade, che, cioè, si possa ravvisare lo sta­to di abbandono nel mancato riconoscimento da parte della madre (pur certa) quando tale ricono­scimento è vietato; e, s'intende, per tutto il tem­po che sussiste la situazione ostativa.

A questo punto mi sia consentito di richiamare l'attenzione su un problema che sta ancora più a monte: quello cioè di una corretta interpretazione del concetto di stato di abbandono; concetto a mio avviso troppe volte valutato in maniera trop­po superficiale e distratta; o, peggio, preconcetta e ispirata a tesi o, addirittura, a slogans, come ormai purtroppo frequentemente accade.

Da ultimo vorrei solo accennare (purtroppo il tempo non consente altro) ad una considerazione che mi appare preoccupante: alla totale mancan­za nell'intera normativa dell'adozione, quale oggi è regolata, di ogni strumento idoneo ad ovviare agli inconvenienti di una adozione che si riveli « sbagliata » o dannosa; Ipotesi questa che, al di là e malgrado ogni preventiva cautela ed ogni accurato accertamento, non v'è dubbio che possa rovinosamente verificarsi.

 

 

GIORGIO PALLAVICINI

 

Gli ultimi interventi hanno ben concluso questa giornata di intenso e proficuo lavoro i cui risultati possono essere senz'altro valutati come positivi. Un sostanziale contributo al buon esito di que­sto convegno è stato dato dalla relazione intro­duttiva della Senatrice Tedesco che, a nome dei colleghi componenti il Comitato ristretto della Commissione Giustizia del Senato a cui è stato affidato il compito di formulare un progetto di legge unificato relativo alle modifiche da appor­tare alla legge 431/67 ed alla regolamentazione dell'affidamento educativo, ha illustrato le prime conclusioni a cui è pervenuto il Comitato stesso.

Come si è potuto constatare, si tratta di con­clusioni sulle quali, salvo qualche particolare ancora discutibile, non si può non esprimere un giudizio favorevole in quanto tengono conto, per l'adozione speciale, delle esperienze fatte in or­mai quattordici anni di vita della legge e, per l'af­fidamento, di quanto è stato maturato dalla appli­cazione concreta di questo tipo di intervento.

In aperta dissonanza, a mio modo di vedere, rispetto ai concetti espressi in questa premessa, ripresi e sottolineati dalla Senatrice Iervolino Russo e da tanti altri autorevoli interventi, si è collocata invece l'infelice proposta di iniziativa ministeriale; circa quest'ultima ritengo però di poter affermare che la risposta data dal Convegno di oggi, sia stata inequivocabile: non si è levata infatti alcuna voce a sostegno della tesi ministe­riale, e ciò è motivo di conforto e conferma il giudizio positivo che ho espresso sulla validità del dibattito odierno.

In altre parole, la via proposta dal Ministero è una via vecchia che nessuno intende più seguire.

Noi ringraziamo quindi chi ha contribuito in modo così pregnante alla buona riuscita di questa giornata, dando un apporto utilissimo alla formu­lazione di una legge adeguata alle esigenze dei minori. Purtroppo è risultato che vi è ancora mol­to da fare: manca ancora una stesura precisa e completa della proposta di legge e si è colto che taluni nodi non sono ancora del tutto sciolti.

Noi ci auguriamo, e speriamo vivamente, che il Comitato ristretto, nel completare il suo man­dato, traduca fedelmente le linee oggi enuncia­te, linee sulle quali concordiamo e, nel congratu­larci per il lavoro svolto, ci uniamo al Professor Vercellone nell'auspicare che, senza ulteriori in­tralci, il Comitato possa condurre in porto questa ormai lunga operazione in tempi brevi.

Ringrazio tutti, in specie quanti hanno dato il loro apporto di esperienza a questa giornata che è stata di grande interesse e che, ripeto, ha dato un concreto contributo all'approfondimento di questa delicata materia. Il mio, il nostro partico­lare ringraziamento ai componenti il Comitato che, accettando il nostro invito, hanno voluto sobbarcarsi le fatiche di un viaggio a Milano per incontrarsi con noi ed infine l'augurio a tutti di un buon lavoro per i migliori risultati possibili.

 

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