Prospettive assistenziali, n. 57 bis, gennaio - marzo 1982

 

 

RELAZIONI

 

 

ALFREDO CARLO MORO - Consigliere di Cassazione

 

I parlamentari vi esporranno con più compiu­tezza quali sono le linee portanti del loro nuovo provvedimento di riforma della legge sull'adozio­ne speciale, sull'affidamento e sull'adozione in­ternazionale. A me sembra invece tocchi il com­pito di individuare quelle che sono le esigenze di fondo che hanno portato alla necessità di una re­visione dell'attuale legislazione in questo deli­cato settore.

Già Pallavicini vi ha detto come, a quindici anni dall'entrata in vigore della legge sull'adozio­ne speciale, si sentiva il bisogno di una adegua­zione della legge vigente. lo aggiungerei che la necessità di una revisione organica della disci­plina dell'adozione speciale deriva anche, anzi principalmente, dal fatto che la legge sull'adozio­ne speciale non è entrata nel nostro ordinamento senza notevoli difficoltà, ed è stata la conclusione di un dibattito particolarmente animato tra co­loro che volevano privilegiare i diritti del minore e coloro che invece erano fortemente preoccupa­ti di mantenere i diritti del sangue: era perciò inevitabile un certo compromesso tra posizioni radicalmente contrastanti e ciò ha comportato di necessità soluzioni non sempre nitide e felici ai vari problemi che si dovevano affrontare.

Bisogna anche riconoscere che l'esigenza di una revisione si impone oggi perché, proprio in virtù della legge sull'adozione speciale, si è mes­so in moto nel nostro paese un processo che ha portato ad una migliore comprensione delle esi­genze e dei bisogni dei minori e a un riconosci­mento del tutto nuovo del minore come persona umana portatrice di diritti che l'ordinamento giu­ridico deve non solo riconoscere astrattamente, ma anche concretamente garantire. Non possiamo dimenticare che l'ordinamento, prima della legge sull'adozione speciale, si rivolgeva essenzialmen­te agli adulti perché essi cercassero spontanea­mente di venire incontro a quelle che erano le esigenze della personalità in evoluzione; il mi­nore non era riconosciuto pienamente come sog­getto di diritti se non nell'ambito di quelle che erano le sue prerogative di carattere economico.

La legge sull'adozione speciale, questa legge che qualcuno ha definito una rivoluzione coperni­cana, ha in effetti posto in evidenza questo nuovo soggetto della nostra comunità, questo soggetto i cui diritti per la sua debolezza non devono es­sere affievoliti, ma semmai potenziati. Ne è deri­vata una specifica, spesso acuta, elaborazione dottrinale sul tema dei diritti del minore, anche se purtroppo dobbiamo lamentare che non sem­pre all'elaborazione dottrinale è seguita una ma­turazione del costume generale e quindi una pras­si di vita in cui il minore sia veramente accet­tato come soggetto di diritti e non come mera cosa di proprietà di qualcuno. E conseguentemen­te nasce da ciò l'esigenza di rimeditare tutti gli istituti a tutela dell'infanzia: non è senza signifi­cato che il progetto di legge che oggi è all'esame della Commissione Giustizia non si limita a guar­dare soltanto al problema dell'adozione speciale, ma cerca di inglobare questo discorso in un di­scorso di carattere più ampio in ordine agli stru­menti giuridici per una tutela adeguata dei diritti del minore.

Appare perciò opportuno individuare - sia pu­re solo per accenni - le esigenze di fondo che sono alla base di una necessaria, compiuta riela­borazione degli istituti giuridici che dovrebbero garantire il diritto del minore a veder superate le sue difficoltà familiari o comunque assicurato un valido ambiente familiare in cui la sua perso­nalità possa armonicamente crescere e svilup­parsi.

Innanzi tutto l'esperienza di questi quindici anni ci ha dimostrato che la legge sull'adozione speciale, forse proprio in conseguenza di questo compromesso politico che si è venuto a realizza­re tra fautori di esigenze diverse, è una legge che presenta notevoli farraginosità di procedura che possono portare ad una tale dilatazione dei tempi da praticamente impedire che il minore veda attuato il suo diritto a crescere in un ade­guato ambiente familiare. È inutile fare delle pun­tuali indicazioni: basta pensare alla presenza di ben quattro gradi di giurisdizione che possono diventare cinque qualora la Cassazione cassi con rinvio la sentenza della Corte d'appello; basta pensare all'assurdità della necessità di una ri­cerca di parenti lontani che si sono completamen­te disinteressati del minore o che alcune volte ignorano del tutto l'esistenza del ragazzo; basta pensare che se il genitore è consenziente alla adozione si devono ugualmente continuare tutta una serie di procedure di notifica o di ricerca di altri soggetti che allungano notevolmente i tem­pi della procedura; basta pensare al prolungamen­to del tutto ingiustificato del periodo di affidamento preadottivo nei confronti di adottanti che abbiano figli legittimi, quando questa situazione richiede certo molta attenzione prima dell'inseri­mento, ma esige anche, dopo l'inserimento, che sia realizzata al più presto la parità anche giuri­dica tra l'adottato e i suoi fratelli.

Una seconda esigenza mi sembra che debba essere presa in considerazione in sede di rifor­ma: l'adozione speciale è entrata nell'ordinamen­to mentre coesistevano una serie di altri istituti giuridici che rispondevano a esigenze del tutto diverse e con cui molte volte è venuta in conflit­to. Pensiamo alla adozione ordinaria, pensiamo all'affiliazione cioè ad istituti nati in un periodo di tempo in cui gli obiettivi che si volevano per­seguire erano obiettivi molto diversi da quelli che si sono voluti perseguire con la legge sull'adozio­ne speciale. La coesistenza di questa pluralità di istituti, che avevano origine da esigenze diverse ma che poi finivano col creare una strana com­mistione di situazioni e che si presentavano con­correnziali l'uno nei confronti dell'altro, ha crea­to una situazione di disagio ed ha dato vita a quello che Pallavicini indicava come il triste fe­nomeno del mercato dei bambini. È necessario anche in questo campo armonizzare la situazione e cercare di eliminare Istituti ormai obsoleti e ri­dare all'istituto dell'adozione speciale quella si­tuazione di ottimale soluzione dei diritti del mi­nore privo di famiglia che l'ordinamento è venuto a riconoscergli.

D'altra parte non si può certo dire - come qualcuno ha detto - che l'adozione speciale è divenuto un istituto ormai superato perché la dinamica sociale ha permesso la riduzione, la contrazione o addirittura la eliminazione delle situazioni di abbandono.

Se è infatti vero che c'è una contrazione delle situazioni di abbandono dei ragazzi appena nati, è anche vero che la dinamica sociale porta sem­pre di più ad un incremento dei cosiddetti «ab­bandoni di ritorno» e cioè a situazioni di abban­dono che si verificano dopo che vi è stata una certa vita familiare e che questa si è dissolta: sono queste situazioni particolarmente difficili e assai traumatizzanti per il minore che esigono da una parte una fattiva opera di recupero della fa­miglia di origine e, se questa fallisce, l'inseri­mento in una nuova famiglia particolarmente ido­nea ad affrontare il complesso problema del tra­pianto da una famiglia in un'altra e del supera­mento degli effetti devastanti propri di una lunga istituzionalizzazione.

La terza esigenza che nasce non è solo però quella di riconoscere nel modo più limpido il di­ritto del minore abbandonato ad avere una fami­glia stabile, una famiglia giovane, una famiglia idonea, una famiglia non minacciata da ritorni dei genitori d'origine estremamente disturbanti spe­cialmente per il minore: vi è contemporaneamen­te l'esigenza di riconoscere anche una valvola di sicurezza per alcuni casi residui in cui il minore, anche se in via ottimale sul piano del diritto sa­rebbe meglio tutelato dall'adozione speciale, in via invece esistenziale finirebbe con l'essere tra­volto da una troppo rigida e meccanica applica­zione della legge sull'adozione speciale. Con tut­te le cautele del caso per evitare che rientri dalla finestra ciò che esce dalla porta, è pur tuttavia necessario riconoscere che alcune situazioni esi­stenziali, alcuni legami affettivi profondi che si son venuti a realizzare, non possono essere tron­cati solo per riaffermare il principio astratto che una certa soluzione giuridica è astrattamente quella ottimale. Se la legge è fatta per l'uomo e non l'uomo per la legge è necessario che il legi­slatore tenga conto di quelle che possono essere le realtà esistenziali del singolo non compiendo in nome di un'astratta attuazione del diritto delle sostanziali violenze alla personalità del minore ed alle sue vitali esigenze.

Una quarta esigenza deve trovare una adegua­ta risposta sul piano giuridico: se il minore o la sua famiglia si trovano in una situazione di mo­mentanea difficoltà è estremamente opportuno realizzare un istituto giuridico che consenta di dare al minore un ambiente familiare che lo aiuti a crescere senza con questo deresponsabilizzare la famiglia di origine e senza con questo portare necessariamente alla ghettizzazione del minore in un istituto. Perciò viene a prendere un particolare rilievo nell'ambito di una riforma di questo ge­nere il discorso sull'affidamento familiare, un istituto che merita una maggiore attenzione da parte del legislatore. È infatti indispensabile assi­curare maggiori diritti all'affidatario perché esso possa svolgere in maniera adeguata la sua fun­zione di recupero senza essere soggetto ai cam­biamenti di umore dei genitori naturali; è neces­sario dare all'atto amministrativo con cui il ser­vizio sociale affida il minore alla famiglia affida­taria una sua rilevanza sul piano giuridico perché da esso scaturiscono chiaramente diritti e ob­blighi per tutti i soggetti coinvolti in questo diffi­cile, ma meritorio compito di recupero del minore e della sua famiglia.

Vi è ancora l'esigenza di indicare in maniera più limpida che nel passato la necessità di ten­tare seriamente il recupero della famiglia di ori­gine prima di arrivare alla constatazione della ir­reversibilità dell'abbandono. Uno dei motivi di fondo per cui si privilegia l'adozione speciale nei confronti dell'adozione ordinaria credo che sia proprio in questa sottolineatura, contenuta esclusivamente nella legge sull'adozione speciale, del­la necessità di tentare un recupero della famiglia. Perché con l'adozione ordinaria, con questa forma di accordo bilaterale tra adulti, praticamente si salta ogni tentativo di recupero della famiglia di origine, perché né i servizi sociali né il giudice sono autorizzati a svolgere una attività in propo­sito, ma possono solo accertare e dichiarare se l'adozione ordinaria è conveniente per il minore, e non può nascondersi che molto spesso i geni­tori naturali sono invogliati con ogni mezzo a ri­nunciare al figlio o sottoposti a pesanti violenze quanto meno psicologiche per dare il loro con­senso. E spesso sono anche oggetto di inganni perché si assicura loro che potranno continuare ad avere rapporti col proprio figlio mentre una volta pronunciata l'adozione e passata la potestà sul figlio adottato agli adottanti i rapporti sono bruscamente e drasticamente interrotti. Bisogna riconoscere che la scorciatoia dell'adozione ordi­naria, apparentemente meno traumatica dell'ado­zione speciale, si risolve in una grave derespon­sabilizzazione dei genitori naturali, progressiva­mente allontanati e alienati dall'affetto verso il figlio e che conseguentemente con questo istitu­to si ha una palese violazione del primario diritto del minore a vedere ricuperata la propria famiglia d'origine. È necessario anche che l'ordinamento disciplini in maniera più seria e consapevole que­sta attività di recupero. Il fatto che la legge vi­gente sull'adozione speciale preveda la possibi­lità di prescrizioni nei confronti dei genitori, ma non prevede che correlative prescrizioni siano imposte ai servizi, rischia di far diventare del tut­to declamatoria questa fase di recupero della fa­miglia d'origine. Alla famiglia per esempio a cui è stato tolto o istituzionalizzato un bambino per­ché la casa e l'ambiente erano tali da compromet­terne la salute, diventa del tutto mistificante che il giudice prescriva di riprendere il bambino in casa se non sono state eliminate le condizioni che hanno portato all'istituzionalizzazione del bambino. È perciò necessario che i servizi siano anche da un punto di vista giuridico coinvolti in questo lavoro di recupero del bambino. Il che può avvenire o attraverso una previsione di possibili­tà di prescrizioni anche nei confronti dei servizi, una volta valutata quella che è l'esigenza del mi­nore, o (io preferirei questa formula) un nuovo concetto di abbandono derivante dal fatto che il genitore non attui il programma predisposto dai servizi per consentire una diretta assistenza ma­teriale e morale al fanciullo quando il rifiuto di attuare questo programma da parte del genitore sia ritenuto ingiustificato dal giudice. Una formu­la di abbandono di questo genere servirebbe a re­sponsabilizzare i servizi, a sanzionare quanto me­no politicamente le mancanze dei servizi nei con­fronti di una reale assistenza tendente a superare le difficoltà della famiglia; a eliminare possibili­tà di nascondere dietro asserite difficoltà mate­riali un effettivo disinteresse per il figlio ed una reale volontà abbandonica. Nel contempo però è necessario, proprio perché questo recupero sia reale e non sia mistificante, che non si faccia ricorso all'affidamento familiare con troppa faci­lità per coprire la pigrizia o la mancanza di corag­gio del giudice o dei servizi. Cioè non vorrei che il ricorso all'affidamento familiare anche in situa­zioni che appaiono chiaramente di definitivo ab­bandono sia lo strumento usato per non sentire la responsabilità di un atto difficile, traumatico, psicologicamente distruggente anche la persona­lità del giudice e dei servizi come è quello della dichiarazione di adottabilità e che si ricorra all'affidamento familiare come forma di parcheggio temporaneo del minore in modo da non dover af­frontare il problema.

Un'ultima esigenza deve trovare una compiuta risposta nella riforma della disciplina degli isti­tuti relativi alla tutela del minore: quello di un corretto uso dell'istituto dell'adozione internazio­nale. Dobbiamo riconoscere che forse con troppa facilità bambini stranieri vengono strappati alle proprie famiglie e alla propria terra per appagare i desideri della società opulenta. C'è il pericolo, ancora una volta di compiere una grave violenza nei confronti dei minori anche se copriamo que­sta reale violenza con nobili parole e con fieri proclami umanitari. Come dobbiamo riconoscere che troppo spesso c'è un'appropriazione selvag­gia dei bambini da parte di persone inidonee o di persone che ricorrono a questo strumento per snobbismo, per bisogno di avere un'assistenza che altrimenti si potrebbe avere solo pagando troppo dei coadiutori familiari, per la volontà di essere come gli altri che hanno figli propri. E nella misura in cui l'adozione speciale diventa un fenomeno non massiccio, com'è giusto che sia, nell'ambito dell'ordinamento interno tanto più c'è il pericolo che forti correnti di traffico si muovano nei confronti dell'adozione internazionale per ap­pagare quel desiderio che non si riesce ad appa­gare nell'ambito dell'adozione interna. Mentre bi­sogna essere coscienti dell'estrema importanza ma anche dell'estrema delicatezza dell'operazio­ne di trapianto di un bambino straniero nella no­stra comunità e quindi della necessità di una as­soluta cautela nello svolgimento di questo compi­to. Perché ci troviamo di fronte (la nostra è una società monorazziale) ad una cultura diversa e i problemi del bambino che viene adottato posso­no diventare gravi specie nel momento dello svi­luppo e della crisi adolescenziale. Ciò significa solo che le famiglie che fanno l'adozione interna­zionale devono essere non famiglie di serie B, ma famiglie adeguatamente preparate, seleziona­te, con chiara motivazione, che abbiano una par­ticolare idoneità ad affrontare questi problemi e che ci sia una capacità particolare di sostegno dei servizi nella fase di inserimento del minore straniero in Italia. Tutto questo molte volte non avviene quando non sia regolamentata in maniera adeguata l'adozione internazionale. È perciò es­senziale una disciplina giuridica di questo impor­tante fenomeno per evitare una massiccia impor­tazione dei minori stranieri senza garanzie né per i genitori naturali né per i minori trapiantati in un ambiente familiare tanto diverso da quello di ori­gine.

Sono queste alcune esigenze di fondo che han­no portato alla necessità di rivedere tutta questa materia e di ripensarla in una nuova ottica. Certo il tema della riforma dell'adozione speciale, dell'adozione internazionale e dell'affidamento non è esaustivo di tutti i problemi nei confronti dell'infanzia in difficoltà. Qualcuno ha detto che era inutile e non opportuno disciplinare l'adozione speciale senza prima avere disciplinato con leg­ge quadro tutto il settore dell'assistenza. Ma il fatto che la riforma dell'assistenza sia fondamen­tale non implica di necessità che bisogna trascu­rare interventi in altri settori finché quella rifor­ma non sia stata attuata. Del resto non è soltanto il tema della riforma dell'assistenza che è oggi necessario per garantire adeguatamente i diritti dei minori. È certo indispensabile riconoscere che le leggi non risolvono le situazioni se non ci sono le strutture adeguate a rendere concreta la finalità perseguita dal legislatore con la norma giuridica. In materia di recupero della famiglia di origine come in materia di aiuto nel campo dell'affidamento familiare, come nella materia dell'inserimento del minore con adozione interna­zionale, è evidente che se le strutture non ri­spondono, vi è il concreto rischio di fare delle leggi meramente declamatorie e che i diritti dei minori adeguatamente tutelati sul piano legislati­vo vengano poi nella prassi quotidiana della vita fortemente compromessi. Ma è fondamentale an­che che gli organi giudiziari siano resi capaci di svolgere adeguatamente il loro compito attra­verso una adeguata specializzazione. Abbiamo tutti assistito sulle pagine dei giornali al dibattito conseguente al caso di Nardò in cui proprio emer­geva questa necessità di una struttura giudiziaria specializzata e capace di affrontare adeguatamen­te i problemi dei minori.

Non meno grave, anche se passata sotto silen­zio, è una recente ordinanza della Cassazione che ha sollevato la questione di costituzionalità dell'articolo 314/14 della legge sulla adozione speciale, ritenendo ingiustificato che il ricorso per Cassazione dovesse essere fatto nei 30 giorni anziché nei 60 giorni che sono normalmente pre­visti per le impugnazioni in materia civile, per­ché secondo la Corte non c'è una particolare ur­genza per il minore di trovare una definizione del suo caso giuridico e perché i diritti degli adulti devono essere particolarmente tutelati. Il che co­stituisce un significativo esempio della incapaci­tà degli organi giudiziari di togliersi dalla vecchia logica della tutela puntuale dei diritti degli adulti anche a scapito di quelli che possono essere i di­ritti dei minori. E non si riuscirà a risolvere ade­guatamente i problemi dei minori se si creerà una contrapposizione - come sempre più va avvenen­do - tra giudice da una parte e servizi sociali dall'altra, ognuno pronto a difendere la propria onni­potenza negando quel collegamento che costi­tuisce premessa indispensabile per risolvere i problemi del minore. Indispensabile appare pure una migliore disciplina dell'istituto della tutela, un istituto che lascia molte volte il minore com­pletamente in balia di se stesso o in balia di colui che eroga l'assistenza poiché il rapporto non è personalizzato ma solo burocratico e perché si unisce nella stessa persona funzioni di erogazio­ne di servizi e funzioni di tutela. Ed è anche opportuno sottolineare la necessità che il minore nelle procedure che lo riguardano abbia la possi­bilità di far sentire la sua voce attraverso un sog­getto autonomo (curatore) che possa difendere i suoi diritti in controversie che spesso vedono privilegiate solo le esigenze degli adulti.

Se questi sono altri problemi che devono es­sere affrontati ciò non significa che non sia im­portante quello che si sta facendo per riformare questi istituti anche se non bisogna pensare che con questa nuova disciplina siano risolti tutti i problemi. Comunque mi sembra estremamente importante, e da sottolineare, il metodo con cui è stato elaborato questo progetto di riforma dell'adozione speciale, dell'adozione internazionale e dell'affidamento con un'apertura del Parlamen­to a sentire la voce degli operatori, degli esperti, di coloro che hanno una particolare conoscenza di questi fenomeni. Un simile collegamento ha por­tato a mio avviso ad un notevolissimo salto di qualità dai primi progetti presentati agli ultimi che sono stati elaborati dal comitato ristretto: dobbiamo dare atto alle forze parlamentari per la sensibilità dimostrata in questo delicato settore e bisogna dir loro grazie per avere lavorato con tanta alacrità e con tanta intelligenza per cercare di risolvere questi complessissimi problemi.

 

 

GIGLIA TEDESCO - Relatrice del Comitato Ristretto sull'Adozione della Commissione Giustizia del Senato

 

Informerò, d'accordo con gli altri colleghi del comitato ristretto, sull'approdo del nostro lavoro. Premetto che, quando si è lavorato a lungo at­torno a un testo, capita che si abbia nei confron­ti di esso un atteggiamento di eccessiva benevo­lenza. Lo sforzo nostro è stato di mantenere co­stantemente aperta la verifica: in tutto il corso del lavoro, prima attraverso l'indagine conosciti­va, poi attraverso numerosi contatti con associa­zioni, con giuristi, con operatori abbiamo ricevu­to un contributo molto importante. Credo si possa dire che questa legge quando riusciremo, ci augu­riamo presto, a vararla non sarà solo frutto di chi ha lavorato in Parlamento ma di tutti coloro che vi hanno contribuito nel paese.

È anche interessante rilevare che, come già a suo tempo fu per il diritto di famiglia, la ricerca compiuta in Parlamento è stata una ricerca co­mune; le difficoltà che avevamo erano comuni difficoltà a ritrovare la soluzione più adatta, non erano tanto contrapposizione di diverse visioni del problema. Credo che anche questo sia di buon auspicio per la riforma.

Quale è stata l'esigenza di fondo che ci ha mosso? Il salto culturale fatto con la riforma del '67 è stato quello di superare nel costume il con­cetto del mero legame di sangue nell'essere ge­nitori; oggi abbiamo teso a portare in primo pia­no il diritto prioritario del minore a vivere con la propria famiglia. In questo mi sembra sia il filo conduttore dello schema di riforma a cui abbiamo lavorato. Ora è vero che dire questo non significa parlare solo di codici, ma dell'assieme della no­stra legislazione. Basti pensare alla necessaria riforma dell'assistenza e alla non differibile rifor­ma delle strutture giudiziarie attinenti ai minori, e non solo parlare di leggi, ma di come l'assieme della nostra società si atteggia e lavora nei con­fronti di questo diritto del minore a vivere nella propria famiglia.

Però, credo giustamente, non ci siamo fatti pa­ralizzare da questo collegamento con più ampie istanze, piuttosto abbiamo avuto occhio a che quanto nel codice andavamo a modificare si muo­vesse su una linea che accentuasse e non na­scondesse queste esigenze più generali di inter­vento della società. La riforma delle norme sugli istituti giuridici direttamente riguardanti i minori va necessariamente collocata sul più vasto con­testo culturale relativo alle questioni della mater­nità e della paternità responsabili. Non possiamo leggere solo in negativo la spinta all'adozione: dobbiamo leggervi anche una disponibilità dei singoli e delle coppie nei confronti dei minori; ma - e qui è decisivo il ruolo degli operatori - va fatta maturare la consapevolezza che tale dispo­nibilità non necessariamente deve tradursi nell'istituire un rapporto esclusivo con quel singo­lo minore, ma che il senso della paternità e della maternità possono esprimersi in tante forme di intervento. La necessità di un grande potenzia­mento, non solo normativo ma effettivo, dell'af­fidamento familiare va collocato in questo più ampio contesto.

Ora cercherò di dire su che linea ci siamo mos­si nella redazione del nuovo testo. Non esporrò i vari punti nell'ordine in cui appaiono in base al codice (ci siamo mossi all'interno dello schema del codice, per cui l'ordine e la numerazione degli argomenti rispecchiano nel testo quelli attuali del codice). M'interessa piuttosto di far emerge­re le scelte principali. Affermato, come dicevo, il diritto prioritario del minore a vivere, a cresce­re e a essere educato nella propria famiglia (per la prima volta nel codice civile è introdotta una norma di questo tipo) abbiamo anche, ovviamente per la parte di competenza di questa riforma, in­trodotto, sempre nel codice alcune direttrici, ne­cessariamente generalissime, relative alle misu­re di sostegno, indicando come prioritario l'affi­damento familiare e in subordine altre forme qua­li le comunità-alloggio, e stabilendo che il rico­vero in istituto deve essere un rimedio estremo.

Quanto all'affidamento familiare, abbiamo rite­nuto giusto mantenere a questo istituto il suo carattere di intervento sociale e assistenziale: sapete che all'inizio si era partiti, in alcuni dise­gni di legge, da altre ipotesi. Abbiamo conside­rato, e questo mi sembra ovvio, che quando vi è dissenso da parte della famiglia di origine vi debba essere un provvedimento del Tribunale mi­norile. In secondo luogo abbiamo previsto che in ogni altro caso, la decisione di affidamento com­pete all'ente locale e sia resa efficace con de­creto del giudice tutelare. Abbiamo fatto questa scelta in considerazione dei possibili sviluppi che questo istituto può avere, e in relazione al fatto che nella legge stessa abbiamo previsto determinati diritti e doveri che non contrappon­gono la famiglia affidataria, ma la impegnano a favorire al massimo i rapporti con la famiglia d'origine; ora, rendendoci conto che può aprirsi in ogni momento una conflittualità, un intervento, sia pure solo a livello di efficacia, dell'autorità giudiziaria ci è sembrata una soluzione valida. In questo ambito, abbiamo considerato superata, e quindi da abrogare, la affiliazione: essa non ha più ragion d'essere, perché, per quanto riguarda

le situazioni di effettivo abbandono, gli istituti sono altri, per quanto riguarda le situazioni di difficoltà transitoria esse possono essere valida­mente coperte appunto dal potenziamento dell'affidamento.

In secondo luogo ci siamo riproposti il proble­ma che fu alla base della legge del '67, di come garantire una famiglia al minore che ne sia privo. Mentre l'affidamento dovrebbe coprire la neces­sità di sostenere la famiglia nelle sue difficoltà quando un nucleo familiare esiste ed è reale, l'adozione - finora detta speciale, ma che abbia­mo deciso di chiamare semplicemente adozio­ne - dovrebbe sempre di più configurarsi come l'istituto teso a garantire al ragazzo una famiglia quando questa manchi effettivamente. Qui abbia­mo esigenze di adeguamento alla Convenzione Europea, anche se vi è una particolarità dell'ordi­namento italiano in queste materie, quindi la Con­venzione Europea è stato solo uno dei punti di riferimento; altro punto di riferimento è stata l'esperienza della legge del '67, i limiti e le diffi­coltà incontrate nella sua applicazione. Le fonda­mentali modifiche che introduciamo che si muo­vono all'interno della legge del '67 e ne costitui­scono un perfezionamento, riguardano in primo luogo l'elevamento fino a 18 anni dell'età degli adottanti; la riduzione della differenza di età tra aspiranti adottanti e l'adottando (minimo 18, mas­simo 40), la riduzione del numero di anni di ma­trimonio richiesti ai coniugi che intendono adot­tare (da 5 a 3) e (questo mi sembra molto impor­tante) il fatto che un minore al di sopra dei 14 anni non possa essere adottato senza il suo espli­cito consenso. Riteniamo che, se è giusto dare una famiglia a chi ne è privo, non si può dare una famiglia per forza a un ragazzo già adolescente. Sempre in questo ambito, cioè di valorizzazione della personalità del minore, abbiamo stabilito che il minore al di sopra dei 12 anni debba essere obbligatoriamente sentito e possa esserlo anche al di sotto dei 12 anni, a meno che non vi siano ragioni che lo rendano inopportuno nell'interesse del minore stesso.

Per quanto riguarda le procedure siamo stati mossi dalla preoccupazione di accelerarle al mas­simo. Ci si poneva il problema di come procedere quando non vi è riconoscimento: abbiamo qui vo­luto sancire che senza ulteriori formalità, se si è al cospetto di minore non riconosciuto può esse­re immediatamente dichiarato lo stato di adotta­bilità e quindi deciso l'affidamento preadottivo; nello stesso tempo abbiamo considerato fonda­mentale che le procedure non possono non te­nere conto che parliamo di bambini, e quindi i tempi sono vitali se vogliamo, appunto, procedu­re funzionali alla difesa del bambino e quindi alla definizione nei termini più rapidi possibili o di una sua posizione rafforzata nella famiglia d'ori­gine, ovvero, ove questo non sia possibile, dell'inserimento in un nuovo nucleo familiare.

Relativamente ai gradi di giudizio, ci è appar­so chiaro che l'opposizione presso lo stesso Tri­bunale dei minori andava soppressa; la questione più complessa che ci si è posti è se è giusto man­tenere l'appello alla Corte d'Appello o avere delle possibili alternative: l'unica che abbiamo studiato, ma che ha già trovato molte obiezioni, è quella dell'appello presso un altro Tribunale dei minori: è una cosa che possiamo discutere.

Abbiamo - anche qui dopo lungo esame - ri­tenuto che fosse giusto mantenere, anzi garantire la presenza del difensore; così abbiamo introdot­to, e questo mi sembra importante, il patrocinio per i non abbienti sullo schema delle condizioni ottimali finora realizzate, che sono quelle del processo dei lavoro.

Più complesse questioni ci si sono poste per quanto riguarda la valutazione oggettiva della si­tuazione di abbandono. Attualmente la legge par­la di abbandono morale e materiale. È sufficiente questa espressione? Abbiamo ritenuto intanto che fosse indispensabile specificare la deroga attualmente prevista, e parlare di forza maggio­re di carattere transitorio. Dobbiamo fare di tut­to perché vengano allo scoperto le difficoltà og­gettive della famiglia e quindi le necessità di mi­sure di sostegno; però non possiamo neppure nasconderci che in molti casi l'abbandono è un fatto reale; quello che conta è una sua verifica effettiva, e qui mi sembra decisivo - l'abbiamo sanzionato esplicitamente in ogni norma - il rapporto con i servizi sia per l'indagine che gli interventi. Ci è sembrato anche giusto formulare il testo in modo tale che risultasse che la mera assistenza materiale non è da considerarsi pre­clusiva della dichiarazione di stato di abbandono. Abbiamo poi teso a considerare nel modo più aderente alla realtà la valutazione della situazio­ne di abbandono stabilendo, non solo per snel­lire le procedure, ma proprio ai fini di una cor­retta lettura del problema, che, la obbligatorietà di convocazione debba riguardare quei parenti che con il minore hanno avuto rapporti signifi­cativi.

In questo ambito ci si è posti un problema di particolare delicatezza, che fra l'altro, è esploso in un recente caso giudiziario di cui la stampa ha molto parlato; esso riguarda í figli di genitori inferiori ai 16 anni che attualmente non possono riconoscere i minori, con il rischio che questi bambini siano considerati abbandonati e quindi posti immediatamente in stato di adottabilità. Ora se è vero che la materia riguarda tangenzialmente l'adozione non potevamo non affrontarla. Le soluzioni potevano essere varie: noi abbiamo scelto quella secondo cui su istanza del genitore, e anche d'ufficio, fino al compimento del 16° anno di età del genitore stesso, la procedura sia sospesa, purché il bambino sia effettivamente assistito, cioè purché una famiglia di fatto esista per questo bambino. Abbiamo scelto questa linea, anche se altre possono esserne ipotizzate, in quanto ci è sembrato giusto garantire che il mi­nore non venga sottratto ai genitori per il solo fatto che essi non hanno ancora l'età per ricono­scerlo, ma anche garantire a questi genitori una possibilità di presa di coscienza che porti ad un riconoscimento non forzato da condizioni di mera generazione. Ma, ripeto, questa è una questione che non riguarda l'adozione, noi l'abbiamo trattata solo incidentalmente per cercare di configurare in modo complessivo lo stato di abbandono. Per quanto riguarda l'adozione oggi comunemente detta « ordinaria » che noi chiameremmo adozio­ne senza effetti legittimanti, abbiamo ritenuto che questo istituto andasse riconsiderato alla luce delle ispirazioni di fondo cui finora ho fatto cenno.

Secondo noi non ha ragion d'essere, nello spi­rito complessivo, non solo delle norme sull'ado­zione, ma del nuovo codice di famiglia un istitu­to di adozione, possibile come è attualmente an­che fra adulti, teso sostanzialmente a trasmet­tere un cognome ed un patrimonio e non a stabi­lire dei rapporti familiari reali. La nostra ipotesi è un'adozione senza effetti legittimanti, prevista solo per i minori e solo in alcuni casi tassativa­mente indicati che appunto perché tali, non si prestino a fraudolente sottrazioni di minori o a fraudolente elusioni delle norme sull'adozione piena. È una ipotesi che tiene conto dei casi in cui tra gli adottanti con adozione non legittiman­te e il minore preesiste un rapporto (ad esempio, persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado, da parte del coniuge nei con­fronti del figlio dell'altro coniuge); oppure quando lo stato di adottabilità sia stato dichiarato ces­sato per constatata impossibilità di affidamento preadottivo: (questi ultimi sono casi limite, ma possono verificarsi soprattutto portando a 18 an­ni l'età degli adottandi, relativamente a ragazzi particolarmente difficili); o, infine, da parte di persona legata al minore da rapporto stabile e duraturo (qui abbiamo pensato soprattutto ai casi, e ne abbiamo avuto in occasione di calamità na­turali, di minori che perdano entrambi i genitori. e quindi alla possibilità di ricostituire un vincolo familiare con persone con cui già avevano un rapporto significativo).

In ogni caso spetta al magistrato di valutare qual è la soluzione più adatta per il minore. In­fatti, oltre alla limitazione casistica, abbiamo in­trodotto un'altra cautela che in un certo senso è ancor più rilevante: quella riguardante le garanzie processuali e le indagini da parte del giudice e dei servizi oltreché sull'interesse del minore, sull'idoneità degli adottanti e dell'adottante e sulle motivazioni che li spingono all'adozione. Questo dovrebbe contribuire a eliminare la preoccupazio­ne che questo istituto venga usato al di là delle finalità precise che cerchiamo di delineare, per eludere le norme sull'adozione legittimante.

Infine riteniamo che la regolamentazione dell'adozione di minori stranieri, problema che è esploso in dimensioni cospicue negli ultimi anni, non possa non essere inclusa in questa riforma che risulterebbe estremamente monca e insuffi­ciente se si proponesse di meglio garantire i diritti del minore di nazionalità italiana e che non si preoccupasse di tutelare, per la parte che ci compete, i diritti dei minori di nazionalità straniera. Riteniamo che la materia debba esse­re inserita nella riforma non solo per esigenze di completezza, ma anche perché riteniamo es­senziale unificare al massimo possibile i presup­posti e le garanzie per i bambini di nazionalità straniera rispetto a quelli italiani. Non vi è ra­gione perché vi sia un trattamento diverso né può essere in qualche modo giustificativo il fatto che con l'adozione si tolgono bambini di altri pae­si da condizioni disagiate, perché questo non può essere il presupposto: il presupposto deve esse­re, quale che sia la nazionalità del bambino, che per la parte nostra, ali sia garantito l'ingresso in una famiglia la più idonea possibile. Vi saran­no altre colleghe che ne parleranno; sottolineo quelli che a noi sembrano i due punti fondamen­tali: che vi sia in ogni caso la previa dichiara­zione di idoneità dei genitori adottivi da parte del Tribunale dei minori: che vi sia un controllo rigo­roso per l'ingresso del minore. Su questi presupposti stiamo lavorando. e questa è la parte della riforma che ancora dobbiamo mettere a punto.

A queste norme si aggiunge una parte finale, penale e transitoria che ci sembra anch'essa mol­to rilevante: in essa è contenuto un completa­mento, un aggiornamento e per molti casi una istituzione di sanzioni penali e civili rigorose per tutte le violazioni relative a questi istituti; per il mercato dei bambini (ivi compresa la imputabilità dei genitori); per l’omissione di segnalazione degli elenchi dei ragazzi ricoverati in istituto, omissione che oggi impedisce un intervento tem­pestivo per verificare l'abbandono; per garantire la segretezza dell'adozione; per rendere cogente (in questo caso con sanzioni civili) la segnalazio­ne al Tribunale dei minori di ospitalità di minori oltre un certo periodo di tempo, quando non vi sia un grado di parentela entro il quarto grado. Come vedete, si tratta di sanzioni che coprono un arco di ipotesi abbastanza ampie, con cui certo non crediamo di venir garantiti a priori che le leggi non saranno eluse. Tuttavia costituisce un messaggio culturale importante che lo Stato sanzioni come violazioni di particolare gravità, fino a penalizzarle, quelle riguardanti queste ma­terie.

In parallelo con quanto si fece nella legge del 1967, abbiamo poi previsto con norma transito­ria, la possibilità di trasformare in adozione pie­na situazioni di adozione ordinaria o di affiliazio­ne attualmente esistenti. Il fatto ha una rilevan­za notevole, dato che si eleva a 18 anni l'età degli adottandi. Completano il testo altre norme tran­sitorie e finali, relative alla piena parificazione delle madri adottanti per quanto riguarda la tu­tela della maternità; ai diritti previdenziali per le famiglie affidatarie; ai falsi riconoscimenti che costituiscono uno dei canali attuali di mercato di bambini (istituzionalizzando le misure di control­lo già in atto nella pratica da parte di alcuni Tri­bunali dei minorenni, nel caso di riconoscimento da parte di persona coniugata, senza figli, di un minore non riconosciuto dall'altro genitore).

Nell'assieme del testo facciamo costante rife­rimento al collegamento con i servizi locali e a tutti i provvedimenti ex art. 330 e seguenti del codice civile; e questo non perché ci fosse biso­gno di tale menzione per rafforzare questi pote­ri, ma per sottolineare che le procedure relative all'adozione non sono solo occasioni per verifica­re se esista o non l'abbandono, ma possono es­sere occasioni in cui si rafforza la tutela giurisdi­zionale dei diritti del minore.

 

 

GIUSEPPE FRANCHI - Ordinario di Istituzioni di Diritto Privato all'Università di Venezia

 

Siamo noi, studiosi e operatori pratici, a rin­graziare i Parlamentari per averci dato prova di un'esperienza così approfondita sui motivi della legge che si apprestano a redigere e sulle solu­zioni tecniche prospettabili.

Permettete in tema di adozione in generale un cenno a proposito dell'art. 291 del Vostro schema. Niente di più gradito che sentir parlare di adozio­ne tout court a proposito dell'adozione legitti­mante. La ragione dell'effetto legittimante consi­ste, come ha detto la Senatrice Tedesco, nel fat­to che, non avendo il bambino più una famiglia, bisogna dargliene una. Quindi l'effetto legittiman­te presuppone l'assenza della famiglia e, proprio perché è grave scegliere una famiglia che di so­lito è data dalla natura, questa adozione è neces­sariamente sperimentale. Si prevede un modo di saggiare nel tempo la idoneità degli aspiranti genitori adottivi e dell'abbinamento, proprio per­ché il minore è collocato in un mondo nuovo. Giu­stamente nel progetto che qui si esamina non sono previste solo le adozioni che abbiamo indi­cato ma anche quelle di parenti e del coniuge del genitore biologico. Qui però non si tratta di col­mare la lacuna radicale di una famiglia, perché non c'è o perché è totalmente inidonea, ma di integrarla, o per porre la coppia degli adulti sullo stesso piano rispetto al minore, oppure per con­sentire una cura della sua persona più efficiente. In questi casi non vi è bisogno di esperimenti prolungati perché il nuovo o i nuovi genitori adot­tivi sono conosciuti; non vi è bisogno dell'effetto legittimante, perché il vincolo familiare preceden­te è addirittura valorizzato per l'adozione. Perciò dalla stessa nozione di adozione tipica si ricava­no le due eccezioni della adozione del congiunto, che non può essere né sperimentale né legitti­mante. Le altre due ipotesi previste nello schema del Comitato ristretto rompono invece l'equilibrio della costruzione e, a mio avviso, si prestano ad abusi per la indeterminatezza delle formule. Va aggiunto che l'adozione dei parenti non può es­sere estesa fino al 6° grado, che è rilevante solo agli effetti successori e ricalca un profilo patri­moniale dell'istituto, che non merita certo atten­zione. Sarebbe meglio limitarsi al 3° grado. L'a­mico Moro, che di tale ridotta conservazione dell'adozione ordinaria è fautore convinto e convin­cente, mi dice che una delle sue denominazioni possibili potrebbe essere quella di filiazione adot­tiva. Trasmetto ben volentieri questo messaggio.

Quanto all'adozione internazionale mi rimetto a quel che ho scritto (1), sottolineando alcuni aspetti. Innanzi tutto bisogna accettare il fenome­no, dal momento che esiste, e controllarlo. Resta da vedere se ci si deve limitare a un controllo esterno o in qualche modo entrare in medias res. Ora non solo è permesso desiderare di avere con sé in modo stabile bambini stranieri, ma l'aspira­zione non è semplicemente un atto libero, ma che lascia indifferente l'ordinamento. Come tutti gli atti di aggregazione sociale esso è un fattore di coesione della Comunità e va, a certe condizioni, favorito. Questo non vuol dire che vadano trovate negli adulti le motivazioni che conducono all'ado­zione, come non vanno trovate quelle che condu­cono al matrimonio: si devono solo avvertire le controindicazioni nel caso concreto che derivino da una motivazione che non abbia nulla a che fare con la simpatia umana e la relativa disponibilità. Non dobbiamo insomma andare in cerca del per­ché della domanda di adozione. Suggestione cul­turale, esperienza di un parente, letture, tutto può servire a far scattare l'affetto per un minore non ancora individuato o invece conosciuto: l'im­portante è che sia affetto, vero e capace di frut­ti. Direi poi che la tesi «bambini e buoi dei paesi tuoi» è veramente da condannare, perché priva di un qualsiasi fondamento, come il proverbio dalla quale deriva.

Due parole per l'adozione nei suoi termini tec­nici. Essa è un'adozione tra lontani. Da questo punto di vista si differenzia dall'adozione interna perché il distacco delle famiglie è nella natura ed è macroscopico. Si potrebbe dire che rispetto all'adozione normale di supplenza di una fami­glia all'interno dello Stato, l'adozione del congiun­to e l'adozione di un minore all'estero si contrap­pongono. È per questo che l'ultima deve essere a fortiori sperimentale e legittimante.

In secondo luogo va notato che la costruzione che è stata fatta in alcune leggi europee e nella convenzione dell'Aia del 1965 dell'adozione inter­nazionale privilegiava il giudice e la legge dell'adottante non per prepotenza degli adulti verso i minori, ma perché sono questi ultimi che entra­no nella comunità sociale dell'adulto o degli adulti. Ma occorre evitare l'abuso che derivereb­be, adottando esclusivamente questa prospettiva, dal disconoscimento della comunità organizzata donde proviene il minore, che pure ha qualche diritto su di lui. Meglio dunque chiarire che la provenienza del minore deve essere lecita e un simile giudizio deve provenire dalle autorità del­lo Stato di origine, eventualmente identificate dalle nostre rappresentanze diplomatiche o con­solari. Realizzata così la collaborazione tra gli esponenti delle due comunità interessate, non so­lo ogni suscettibilità propria di uno dei fronti do­vrebbe cadere, ma non dovrebbe esserci difficoltà ad applicare al minore immigrato la legge che corrisponde al nuovo ambiente di vita. Stabilito il principio del concorso dei consensi delle autorità dell'uno e dell'altro Stato nulla vieta che sia l'au­torità italiana a consentire l'adozione all'estero.

In terzo luogo va chiarito che se l'adozione in­ternazionale è un procedimento che coinvolge au­torità di due Stati, non ha senso applicare un isti­tuto, come quello della delibazione, che presup­pone l'attività esclusiva dello Stato straniero, il cui risultato viene recepito con un provvedimento interno, che normalmente non può modificare quanto già è stato fatto.

Non è vero che esista una estesa tradizione per la delibazione dei provvedimenti di adozione. È vero invece che essa é stata applicata alle ado­zioni con un'ampiezza che non corrisponde alla portata dell'art. 801 c.p.c., e ciò solo di recente.

Da ultimo i problemi classici e quelli empirici dell'adozione internazionale devono essere risolti contestualmente, se si vogliono evitare contrad­dizioni ed equivoci.

Il nostro desiderio è che sia fatta una legge che possa servire di modello ai tanti Stati che non l'hanno o non ne hanno una efficiente e che si rac­comandi per lo spirito non discriminante ma vi­gile. Anche per questo occorre che essa regoli anche le adozioni internazionali passive, in quan­to la disciplina che sarà scelta per l'adozione all'estero dei bambini italiani sarà la riprova del buon fondamento della disciplina scelta per l'ado­zione da parte di italiani di bambini stranieri.

 

(1) V. allegato n. 7.

 

 

DOMENICO LOMBARDI - Sottosegretario di Stato Ministero di Grazia e Giustizia

 

Signor Presidente, desidero dire che sono in­tervenuto a questo Convegno, nello spirito che prima era stato ricordato dalla Senatrice Tede­sco, alla quale, con tutto il Comitato ristretto, in­tendo rivolgere il mio più vivo ringraziamento per la comune collaborazione al complesso «iter» legislativo, soprattutto per ascoltare e per dare conto delle posizioni del Ministero, che è presen­te nel dibattito con un proprio disegno di legge presentato all'inizio del 1981 e che si è, così, in­serito nelle iniziative di riforma degli istituti a tutela dei minori promosse fin dalla settima le­gislatura.

Detto disegno di legge si caratterizza, come è noto, per una scelta peculiare d'impostazione, e cioè il mantenimento di tutti gli istituti che at­tualmente disciplinano variamente l'allontana­mento del minore dalla propria famiglia d'origi­ne, nella convinzione che la coesistenza di diver­si strumenti giuridici appaia giustificata dalla necessità di regolamentare una notevole diversi­tà di fattispecie emergenti nella realtà di tutti i giorni, difficilmente riconducibili in una normativa unitaria. In particolare, l'orientamento è quello di modellare gli istituti attuali dell'adozione specia­le, dell'adozione ordinaria e dell'affiliazione in modo di perseguire più direttamente ed in ogni caso l'effettiva tutela ed interesse del minore, la cui famiglia d'origine non sia in grado di fornire l'indispensabile assistenza morale e materiale. Tra l'altro, prendendo spunto dall'articolo 6 della legge 5 giugno 1967 n. 431, proprio al fine di con­seguire il massimo coordinamento tra i vari istitu­ti suindicati, è stata prevista la possibilità, nella sussistenza di tassativi requisiti e dopo il trascor­rere di un certo periodo di tempo (cinque anni), della estensione degli effetti dell'adozione spe­ciale, la più favorevole come è noto per il mino­re, all'adozione ordinaria ed all'affiliazione.

Questa scelta di fondo appare conforme a quan­to statuito nella Convenzione di Strasburgo sull'adozione dei minori del 24.4.1957 che prevede espressamente la coesistenza di più forme di adozione. D'altro canto, la drastica abrogazione della adozione ordinaria (e cioè dell'istituto tra­dizionale, già regolamentato completamente nel Diritto Romano, che in principio tende a soddi­sfare esclusivamente i bisogni dell'adottante, il quale, privo di discendenti, sente il desiderio di proiettare la propria persona al di là della morte) non appare né necessaria né utile. Invero, da un verso il citato istituto può essere opportunamen­te coordinato con quello della c.d. adozione spe­ciale e finalizzato alla tutela dell'interesse e del­la convenienza del minore, potendo essere utiliz­zato per la regolamentazione di ipotesi in cui non ricorrano i precisi requisiti richiesti dall'adozio­ne speciale (soprattutto, lo stato di abbandono del minore, la limitata differenza di età tra adot­tanti e adottando), ma risulti parimenti di gran vantaggio per il minore l'acquisizione dello stato di figlio adottivo anche di persona non coniuga­ta, o in età abbastanza avanzata, la quale tuttavia, per le peculiari qualità personali o per i partico­lari rapporti affettivi intercorrenti, fornisca ogni garanzia ai fini della costituzione di un adeguato focolare familiare atto ad educare, istruire e man­tenere il minore. Né siffatta funzione dell'ado­zione c.d. ordinaria, in rapporto di complementa­rietà con quella speciale, può essere parimenti perseguita, come per esempio prospettato nell'art. 29 del disegno di legge n. 170/S presentato dal Sen. De Carolis ed altri, limitando l'istituto dell'adozione ordinaria, in riferimento ai minori d'età, a sole alcune tassative fattispecie. Invece, l'utilità dell'indicato istituto dovrebbe essere pro­prio quella di consentire al magistrato di avva­lersi di esso, depurato dalle finalità esclusiva­mente patrimoniali che ne contraddistinguono la struttura originaria, per una gamma di ipotesi, varie nelle caratteristiche ma di numero relativa­mente limitato, per le quali non sia richiamabile la normativa dell'adozione speciale e, peraltro, sia di sicuro vantaggio morale ed economico per il minore l'instaurazione del rapporto adottivo.

Pure ingiustificata sembrerebbe l'eliminazione dell'adozione ordinaria nei riguardi dei maggiori d'età. Difatti, in tal caso l'istituto esprime sostan­zialmente ed esclusivamente esigenze tradiziona­li costituite dallo scopo di trasmettere il nome ed il patrimonio dopo la propria morte da parte di chi, coniugato o non coniugato, è privo di discen­denti: peraltro, siffatta finalità non appare disdi­cevole e pur dovendosi nettamente differenziare l'adozione ordinaria relativa ai maggiori d'età da quella riguardante i minorenni (tutta incentrata quest'ultima a tutelare l'interesse del minore a vivere in una famiglia adeguata), l'eliminazione della prima determinerebbe un'ingiustificata la­cuna nel sistema e pregiudicherebbe senza moti­vo un'esigenza pur sempre avvertita in svariati strati sociali, in specie da parte di persone sole. D'altro canto, uno degli argomenti più diffusi per auspicare l'abolizione dell'adozione di persone maggiorenni, e cioè l'evasione fiscale che in tal modo talora si realizzerebbe in tema di imposta di successione, non si appalesa decisivo, giacché detto fenomeno deve ritenersi di dimensioni li­mitate: invero, la struttura complessa dell'istituto dell'adozione ordinaria, il determinarsi appunto di vincoli successori tra adottante e adottato pre­suppongono la sussistenza di vincoli affettivi im­prescindibili tra le parti interessate al provvedi­mento, che solo possono giustificare la volontà di instaurare un rapporto adottivo.

In altre parole, vuol dirsi che la caratteristica propria dell'adozione ordinaria di consentire una discendenza alle persone prive di figli legittimi comporta, naturalmente, notevoli implicazioni pa­trimoniali e profili di rilevanza giuridica ben di­versi da quelli dell'adozione speciale, ed altresì, proprio di per sé, giustifica il peculiare trattamen­to fiscale in sede di successione tra adottante e adottato; peraltro, ciò non impedisce di ritenere che detto istituto abbia una sua validità nel tute­lare l'intendimento di chi, non avendo figli, voglia parimenti consentire la continuazione del suo pa­trimonio affettivo, culturale ed economico al di là della morte, e solo di rado detto sentimento sottintende esclusivamente un intento di evasio­ne fiscale. Comunque, allo scopo di depurare l'i­stituto da ogni possibilità di perpetrare finalità fraudolente, potrebbe più semplicemente diversi­ficarsi le aliquote relative all'imposta sulle suc­cessioni e donazioni concernenti i rapporti tra genitori e figli legittimi, legittimati o naturali da quelle riguardanti invece i rapporti tra adottanti e adottato (nel caso in cui costui sia già maggio­renne al momento dei provvedimento di adozio­ne), ed aumentare opportunamente queste ulti­me, senza con ciò svuotare le linee rilevanti dell'istituto.

D'altro canto, non può sottacersi che non po­che sono le voci anche in dottrina (v. per esem­pio, Pajardi, su «Oggi» del 4.3.1981 «Modifichia­mo la legge: basta con i bimbi contesi»; Batti­stacci e Dogliotti, in occasione dell'intervento te­nuto al Convegno nazionale sull'adozione di Milano, Febbraio 1980; v. Ebene Cobelli «Le ado­zioni, prospettive di riforma» - Cedam 1981, con ampie motivazioni p. 98 e segg. 131 e segg.), che ritengono opportuno, sia pure con varie distinzio­ni e condizioni, il mantenimento dei due istituti; altresì, è rilevante notare (v. al riguardo, la già citata monografia di Ebene Cobelli, pag. 105 e segg. con un'approfondita disamina in diritto com­parato) che attualmente in buona parte degli Sta­ti Europei viene conservata siffatta coesistenza, in conformità dei resto al dettato della Conven­zione di Strasburgo dei 1967; ancora la Corte Co­stituzionale, nelle recenti sentenze n. 11 e n. 80 dei 1981, ha manifestato parimenti l'avviso della necessità di un coordinamento tra le due forme di adozione vigenti in Italia, essendo utile la sussi­stenza di entrambe ed in specie dell'adozione or­dinaria, la quale può certamente offrire la solu­zione adeguata a fattispecie, relative a minori di età, altrimenti non disciplinabili con l'adozione speciale.

Non è, poi, trascurabile evidenziare, sempre al concreto fine di attuare il più ampio coordina­mento degli istituti nell'interesse del minore, l'importanza dell'art. 8 del testo governativo (che modifica l'attuale art. 311 c.c.), con il quale si propone la modifica della competenza per il pro­cedimento di adozione ordinaria nel senso che, se trattasi di adottando minore di età, è compe­tente il Tribunale per i minorenni dei distretto ove si trova il minore. Con siffatta norma si è, invero, inteso uniformare la competenza per la declaratoria di adozione ordinaria e di quella le­gittimante, allo scopo precipuo che, nell'ipotesi di autorizzazione dell'adozione ordinaria di mino­renne ricorrendone i particolari presupposti di convenienza, la relativa pronuncia promani dal medesimo Tribunale per i minori che sarebbe competente per l'adozione legittimante, il che evi­dentemente favorisce le opportune valutazioni comparative, ovviando così in gran parte agli at­tuali non rari inconvenienti di pronunce contra­stanti di autorità giudiziarie diverse (Tribunale per i minorenni dei luogo ove si trova il minore per l'adozione speciale, ed invece Tribunale per i minorenni nel cui circondario l'adottante ha la residenza per l'adozione ordinaria di minorenni, e ciò ai sensi dell'art. 3 L. 5.6.1967 n. 431). (Sull'im­portanza decisiva di detta innovazione normativa, v. ancora Ebene Cobelli, cit., p. 135).

Di rilievo, nel disegno di legge presentato dal Ministro di Grazia e Giustizia, risulta essere la drastica e coerente abolizione di tutta la comples­sa procedura ora esistente costituita dal giudizio di opposizione avverso il decreto di adottabilità ex artt. 314/7 e segg. c.c.: detto giudizio si con­cretizza attualmente in un vero e proprio proces­so di cognizione in tre gradi. Viene, invece, pro­posto di snellire nettamente il relativo procedi­mento pur assicurando parimenti l'attenta tutela e valutazione delle posizioni degli interessati me­diante l'applicabilità delle disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio. Difatti, non è dubbio che l'adozione appartiene alla volonta­ria giurisdizione e che ad essa si perviene me­diante un procedimento che si svolge in camera di consiglio; ne discende che non vi è valido mo­tivo per non applicare anche per le impugnazioni avverso la declaratoria di adottabilità unicamente le disposizioni concernenti appunto i procedimen­ti in camera di consiglio di cui agli artt. 737 e segg. c.p.c., e quindi, in particolare, prevedere il reclamo con ricorso alla Corte di Appello - Se­zione per i minorenni - che deve pronunciare anche essa in Camera di Consiglio. Conseguente a detta innovazione è, altresì, l'introduzione del­la specifica disciplina, alla luce dei principi gene­rali, dei mezzi di impugnazione ammissibili con­tro i provvedimenti dell'autorità giudiziaria ri­guardanti la declaratoria di adozione ordinaria, di adozione speciale, dello stato di adottabilítà e di affidamento preadottivo, e così, nell'ambito di quanto statuito nell'ultimo comma dell'art. 739 c.p.c., viene disposta espressamente l'impugna­zione anche con ricorso per cassazione per viola­zione di legge dei decreti di adottabilità e di ado­zione speciale (aventi carattere tendenzialmen­te definitivo), e non invece per i provvedimenti di adozione ordinaria e di affidamento preadottivo (non definitivi perché tendenzialmente revoca­bili).

Uno dei punti più delicati tra i temi affrontati dai vari disegni di legge che si occupano della riforma in questione è quello dei mantenimento o meno dell'istituto dell'affiliazione, e dell'introdu­zione, in aggiunta o in sostituzione dell'affiliazio­ne, di una più ampia elaborazione giuridica dei c.d. affidamento familiare specialmente per quan­to concerne la natura ed i limiti dei poteri degli affidatari. All'uopo, come già sopra accennato, il testo governativo è favorevole a conservare so­stanzialmente l'attuale normativa dell'affiliazione, apportando solo pochi aggiornamenti indispensa­bili (come per es. l'attribuzione della competen­za territoriale per il provvedimento di omologa­zione al Tribunale per i minorenni del distretto ove si trova il minore, e ciò al fine di unificare la competenza dei vari istituti di tutela del mino­re che sia costretto ad allontanarsi dalla famiglia d'origine). Invero, si ritiene che l'istituto possa essere ancora di utilità specie nel caso di adole­scenti che rifiutano la costituzione di un vero e proprio vincolo familiare o per i quali è opportuno conservare un certo legame con la famiglia d'o­rigine, ovvero nel caso di minori, con malforma­zioni fisiche o psichiche, per i quali è più diffi­cile un collocamento adottivo. (Tra gli operatori del diritto, per es. il «Centro per la Riforma del Diritto di Famiglia» organizzatore del Convegno Nazionale sull'adozione di Milano, Febbraio 1980, è favorevole alla conservazione dell'istituto; v. così, la relativa relazione predisposta per il Con­vegno).

Parimenti, il disegno del Governo propone di apportare solo parziali modifiche alla presente disciplina sull'affidamento familiare, nel delibe­rato convincimento che questo deve avere in principio natura provvisoria in quanto inteso o a consentire il sollecito rientro in famiglia del mi­nore, una volta venute meno le cause del suo al­lontanamento, ovvero a sfociare in un provvedi­mento di più stabile inserimento del minore in un nuovo nucleo familiare, per cui, non si è rite­nuto di dover regolamentare in modo più com­plesso le modalità di affidamento, appunto per non snaturarne il carattere di precarietà e non costituire un ulteriore istituto dai contorni impre­cisi, capace di determinare delle ingiustificate aspettative negli affidatari, e non utile invece per la tutela del minore.

Siffatto orientamento sembra da ribadire in quanto fa riferimento a situazioni e valutazioni concrete, privilegiando, da un verso, la procedura di affiliazione ormai favorevolmente sperimentata da anni, e d'altro canto, valutando negativamente l'istituzionalizzazione in buona sostanza dell'affi­damento familiare, specie se destinato a sostitui­re l'affiliazione, il che desta obiettive e logiche perplessità.

Attenti operatori del settore hanno messo in luce gli equivoci ed i pericoli di detto istituto, che si presenta come fortemente innovativo della nostra tradizione giuridica e soprattutto nuovo per il nostro costume di vita. Difatti esso do­vrebbe essere strutturato eventualmente non co­me un modo per avere un figlio, ma esclusivamen­te come una sorta di servizio sociale alternativo, con delle caratteristiche molto precise anche di limitatezza nel tempo, per il quale si dovrebbe ri­chiedere una preparazione adeguata ed un mini­mo di professionalità da parte degli affidatari. In altre parole, è opportuno sottolineare la difficoltà di introdurre nella mentalità comune un'accezio­ne come quella di «famiglia di temporaneo so­stegno alla famiglia d'origine», nucleo destinato ad accogliere un minore, la cui famiglia naturale versa in situazione di temporanea difficoltà, solo per un tempo limitato, evitando il formarsi di vincoli affettivi più duraturi con il piccolo, e cer­cando anzi di contribuire alla soluzione delle dif­ficoltà intervenute. È evidente che ciò presuppo­ne l'esistenza di nuclei familiari composti da per­sone mature, equilibrate e di salda formazione culturale. Viceversa, è stato acutamente rilevato che accade sovente che in occasione di dibattiti in tema di affidamento familiare, i convenuti, al termine, si affrettino piuttosto a perorare ai giu­dici presenti l'accoglimento della propria doman­da di adozione proposta!

Orbene, il materiale comunque raccolto sui pro­blemi concernenti l'adozione, l'affidamento fami­liare e l'assistenza minorile è ampio e provenien­te dalle più diverse esperienze ideologiche; mol­to utili sono anche i risultati dell'importante in­dagine conoscitiva (iniziata nella VII legislatura e conclusa nell'attuale ad opera della Commis­sione Giustizia del Senato), nel corso della quale sono stati sentiti componenti dei Tribunali per i minorenni, giudici tutelari, assistenti sociali, ope­ratori dei consultori familiari e rappresentanti de­gli enti ed istituti comunque interessati ai proble­mi connessi con la famiglia; quindi, ora il Parla­mento si trova in grado di trarre le conclusioni degli studi svolti ed attuare i più opportuni e ca­librati interventi legislativi.

Anche la disciplina della c.d. adozione interna­zionale, sta, forse finalmente, per avere la neces­saria veste legislativa.

Diversi convegni in materia degli ultimi anni hanno concluso i lavori con il voto unanime dei presenti operatori del diritto per una organica re­golamentazione dell'introduzione dei minori stra­nieri in Italia a scopo di adozione.

Di recente, sono state presentate alla Camera dei Deputati due proposte di legge, in buona parte analoghe, la n. 2514/C di Molineri ed altri, nonché la n. 2538/C del Deputato Garavaglia concernenti appunto le norme relative all'adozione di minori stranieri.

Peraltro, le citate proposte di legge non appaiono, almeno ad avviso dello scrivente, del tutto soddisfacenti.

Invero, esse deliberatamente intendono allon­tanarsi da quelle che sono le direttive fondamen­tali e consuete in materia di dichiarazione di effi­cacia di provvedimenti assunti da autorità stra­niere (v. artt. 797 e segg. c.p.c.), e di determina­zione della normativa che deve disciplinare rap­porti giuridici presentanti qualche elemento di estraneità (la nazionalità straniera dell'adottan­do) rispetto al nostro ordinamento giuridico. In particolare, i proponenti hanno inteso escludere espressamente il richiamo all'istituto della deli­bazione, volendo piuttosto che anche l'adozione di un minore straniero sia compiutamente ed esclusivamente disciplinata dalla normativa italia­na, almeno per quanto concerne i requisiti di cui debbono essere forniti i coniugi adottanti. In tal guisa, l'ingresso di minori stranieri in Italia a scopo di adozione è subordinato, senza eccezio­ni, al previo accertamento da parte del Tribunale per i minorenni del luogo di residenza degli adot­tanti dell'esistenza in costoro dei requisiti di cui all'art. 314/2 del Codice Civile previsti per l'ado­zione interna (coniugi uniti in matrimonio da al­meno cinque anni, non separati neppure di fatto, fisicamente e moralmente idonei ad allevare il minore, di età superiore di almeno venti anni e di non più di quarantacinque anni a quella dell'adottando). Ed altresì, la sussistenza di un sif­fatto accertamento giudiziario preventivo dell'ido­neità degli adottanti determina l'automatico rico­noscimento del provvedimento straniero di affi­damento del minore eventualmente pronunciato nei confronti dei medesimi quale affidamento pre­adottivo, ai sensi della normativa italiana, ed im­plica la constatazione dell'adottabilità del mino­re (v. artt. 1 e 2 degli articolati).

Orbene, il delineato sistema non può essere condiviso, perché da un verso, per quanto con­cerne i requisiti degli adottanti, regolamenta in­giustificatamente un rapporto presentante ele­menti di estraneità in modo volutamente identico ai rapporti interni, derogando invece senza moti­vo alla normativa sostanziale e processuale con­cernente in principio i rapporti giuridici interes­santi pure non cittadini ed il riconoscimento nello Stato di provvedimenti stranieri (v. artt. 16 e segg. Disp. Prel. c.c. artt. 797 e segg. c.p.c.); e d'altro canto, per quanto concerne la situazione personale dell'adottando, non prevede accerta­menti di alcun genere circa la sussistenza dello stato di abbandono del minore, l'effettivo consen­so all'adozione manifestato dai genitori dell'a­dottando, ovvero quantomeno l'avvenuta rituale convocazione e partecipazione dei genitori al pro­cedimento straniero di declaratoria di adozione.

Invero, manca completamente nelle proposte in esame ogni controllo sulla natura e finalità del provvedimento di adozione straniero, e cioè sul­la compatibilità di esso con i principi fondamen­tali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei minori. In altre parole, nel momento in cui si intende applicare al provvedimento di adozio­ne straniero esclusivamente la normativa dell'a­dozione speciale, di cui agli artt. 314-2 e segg. c.c., con tutti i conseguenti pregnanti effetti, tra cui non ultimo la cessazione dei rapporti dell'a­dottato verso la famiglia d'origine, si trascura del tutto di esaminare la situazione d'origine del mi­nore ed i motivi del distacco dalla famiglia na­turale.

Sul punto, bene evidente è il pericolo che la c.d. adozione internazionale non costituisca solo uno strumento di doverosa solidarietà sovranazio­nale e di inserimento di infanti stranieri in fami­glie italiane, ma altresì, come purtroppo ora non di rado avviene, tramite per reperire bambini da adottare, considerata la penuria al riguardo sussi­stente in Italia, anche se costoro, seppure in stato di indigenza, non versino però in effettivo stato di abbandono. Del resto, non è dubbio che non pochi Stati esteri abbiano convenienza, nella grave situazione di povertà in cui versa la popo­lazione locale, a favorire l'innaturale allontana­mento di minori dalle famiglie d'origine, anche se affettivamente presenti.

Viceversa, sembra maggiormente apprezzabile prevedere una disciplina organica, che si fondi sui principi generali del nostro ordinamento in materia di rapporti di diritto internazionale pri­vato e di dichiarazione di efficacia di sentenze e provvedimenti stranieri. In particolare, deve te­nersi conto che l'art. 17 delle «Disposizioni sul­la legge in generale» statuisce che la costituzio­ne del rapporto di adozione, presentante elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento giu­ridico, sia regolato mediante l'applicazione con­temporanea della legge nazionale dell'adottante e di quella dell'adottato.

Di conseguenza, si prospetta come preferibile la procedura secondo cui spetti in principio all'au­torità straniera la competenza giurisdizionale di emettere provvedimenti di adozioni o di affida­mento preadottivo in favore dei minori propri cittadini colà residenti e nei confronti di adottanti cittadini italiani, residenti nello stato estero ov­vero in Italia: successivamente, poi, per il con­seguimento di efficacia in Italia, i provvedimenti stranieri dovrebbero essere sottoposti al giudi­zio di delibazione dell'autorità giudiziaria italiana per il necessario riscontro di compatibilità con l'ordinamento giuridico interno. In specie, detto atto di delibazione dovrebbe essere attentamen­te regolato per richiedere dall'autorità giudizia­ria italiana, cosa che spesso attualmente non av­viene, un rigido controllo del provvedimento stra­niero nel senso che esso tuteli pienamente l'in­teresse del minore, tenuto conto tra l'altro che può trattarsi di bambino vissuto in un ambiente straniero diverso da quello degli adottanti, e che sia comunque compatibile con la normativa es­senziale italiana in materia di diritto minorile. Al riguardo, per esempio, il giudice della delibazio­ne dovrà in principio accertare l'effettiva sussi­stenza dello stato di abbandono del minore; ed altresì, nei casi invece in cui manchi lo stato di abbandono dell'adottato, ovvero il provvedimento straniero abbia disposto l'adozione nei confronti di un solo adottante non coniugato (e cioè si tratti di fattispecie assimilabile per struttura ed effetti all'istituto dell'adozione ordinaria), la delibazio­ne potrà essere ammessa solo in casi eccezionali di comprovata convenienza per il minore, poiché di regola l'effettiva tutela di quest'ultimo si ha con l'adozione speciale.

Ancora, l'avvenuta delibazione del provvedi­mento straniero di adozione o affidamento pre­adottivo dovrebbe condizionare l'ingresso in Italia del minore straniero; ovvero, nel caso non sia possibile conseguire nel Paese d'origine un sif­fatto provvedimento in materia di adozione, do­vrebbe richiedersi la preventiva emanazione da parte dell'autorità giudiziaria italiana di nulla osta all'ingresso del minore.

Al riguardo, deve ritenersi che, nell'intento di regolamentare con serietà l'istituto dell'adozione internazionale e porre fine ai notevoli inconve­nienti sinora riscontrati tra i quali non ultimi casi di speculazione e di mercato dei bambini prove­nienti dall'estero, sia imprescindibile vietare l'in­troduzione nello Stato di minori per i quali, in linea di massima, non sia stato effettuato pre­ventivamente il giudizio sulla sussistenza dei re­quisiti relativi sia agli adottanti che all'adottato, conformi a quanto previsto nel nostro ordinamen­to giuridico, per l'instaurazione di un rapporto di affidamento con carattere di definitività. Con sif­fatta impostazione non si vuole di certo limitare la possibilità di adozioni di minori stranieri ad opera di cittadini italiani, ma si intende evitare che la sostanziale assenza di precise condizioni all'ingresso in Italia dei minori provenienti dall'e­stero richiesti in adozione consenta il determi­narsi nel nostro Paese di situazioni di fatto affet­tive tra aspiranti adottanti e adottando, poi diffi­cilmente rimovibili senza conseguenze traumati­che nei caso di accertata incompatibilità del prov­vedimento straniero di affidamento con l'ordine pubblico nazionale, ovvero nel caso di inidoneità degli affidatari all'adozione del minore straniero. L'accertamento di compatibilità deve essere, quindi, necessariamente preventivo, ancorato ad un serio controllo circa la presenza nell'atto dell'autorità straniera degli stessi fini perseguiti dal­la legge italiana in materia di diritto di famiglia e dei minori; d'altro canto, è poi evidente che detto giudizio di delibazione dovrà essere con­trassegnato, oltre che da una attenta valutazione delle situazioni, da un suo rapido svolgimento allo scopo di garantire contemporaneamente la serietà del procedimento e l'interesse di chi le­gittimamente vuole ottenere l'inserimento nella propria famiglia di minori stranieri.

Comunque, anche per la c.d. adozione interna­zionale, il contributo dottrinale è ormai notevole, per cui per la disciplina di essa potranno cogliersi le direttive più opportune relative alla scelta del­le soluzioni concrete adeguate al fenomeno da regolamentare.

La posizione del fenomeno in proposito è stata quella di rinuncia ad un disegno di legge autono­mo e si é espressa nella presentazione di un cor­po di emendamenti aggiuntivi al testo del Comi­tato ristretto sulla adozione per così dire «inter­na», in modo da pervenire ad una disciplina com­plessiva unitaria di tutta la materia che riguarda la adozione.

Come ultimo riferimento, poiché è stato intro­dotto in questo dibattito, per quanto riguarda il provvedimento assunto dal Pretore di Nardò lo scorso agosto di quest'anno, e facendomi ammen­da di una serie di considerazioni, ma rinviando alla razionalizzazione delle competenze che è stata sollecitata dalle Senatrici Giglia Tedesco e Rosa Iervolino Russo, rispettivamente sull'Unità e sul Popolo con due prese di posizione molto precise, vorrei dire che la posizione del Governo è, naturalmente, favorevole alla istituzione di un organo fornito di competenza generalizzata sui problemi dei minori e dotato di particolare qualifi­cazione e professionalità, articolato sul territorio, in modo da rispettare la duplice esigenza di una non eccessiva polverizzazione e di una più ade­guata e diretta comprensione dei problemi.

Mi scuso per la lunghezza dell'intervento e vi ringrazio per l'ascolto.

 

 

ROSA RUSSO IERVOLINO - Senatrice Commissione Giustizia del Senato

 

Nell'iniziare il mio intervento voglio fare alcu­ne notazioni a quanto ha detto prima di me il Sot­tosegretario alla Giustizia Sen. Lombardi venen­do sostanzialmente a riconfermare alcune posi­zioni non completamente concordi con quelle espresse dal Comitato Ristretto, al cui lavoro, pe­raltro, il Senatore Lombardi ha dato un contribu­to altamente qualificato e decisamente positivo. Ma sia io che tutti gli altri colleghi sappiamo - e del resto lo ha confermato lo stesso Sen. Lombar­di - che la sua posizione personale e quella del Governo è aperta e disponibile, e quindi siamo sicuri che, in un ulteriore prosieguo dei lavori e delle discussioni, anche questi punti di vista di­versi possano riassorbirsi.

Perché noi (visto anche il tema del nostro Con­vegno che contiene una precisa richiesta «A che punto siamo con queste riforme?») abbiamo la esigenza di dirvi che vorremmo essere a un pun­to il più vicino possibile alla soluzione del pro­blema.

Il nostro è un cammino partito da lontano per­ché (come già è stato ricordato) delle proposte di legge sono state presentate nella settima legi­slatura; erano anzi preannunciate come tappa che si sperava di definire per l'anno internazionale del fanciullo, quindi nel '79. Invece, siamo nell'81, questo problema è ancora in itinere.

Nell'ottava legislatura sono state ripresentate le proposte di legge del Partito Comunista, della DC, e del Partito Socialista, si è poi inserito il disegno di legge del Governo a cui il Senatore Lombardi ha fatto riferimento, si sono infine avu­te le due proposte parlamentari della Garavaglia e della Molineri sulla adozione internazionale.

È stato portato a termine un lunghissimo lavo­ro, estremamente interessante da parte della Commissione Giustizia che ha tenuto anche nu­merose udienze conoscitive.

Il nostro Comitato Ristretto ha lavorato per tutto l'inverno scorso e noi sostanzialmente, sal­vo alcune limature alla parte relativa alla adozio­ne internazionale che è la più complessa anche per i necessari raccordi con le legislazioni di altri Paesi, siamo giunti, alla definizione di un testo preciso. C'è l'impegno della Presidenza della Commissione Giustizia di portare al più presto in discussione in Commissione il testo del Comi­tato Ristretto. Noi, anzi, vorremmo chiedere alla Commissione (ed anche da questo punto di vista, trovare un accordo completo con il Governo è un fatto sostanziale e siamo sicuri che lo trovere­mo) che l'esame del testo da parte della Commis­sione Giustizia non venga in sede referente ma, se non in sede legislativa, quanto meno in sede redigente la quale rinvia poi all'aula il solo voto finale, lasciando alla Commissione la predisposi­zione dell'articolato. E ciò per non allungare ulte­riormente il procedimento con un esame di meri­to dell'articolato da parte dell'Aula.

In questa sede é anche doveroso ringraziare la Senatrice Tedesco, la quale, come relatore, ha fatto un lavoro estremamente serio, responsabile e costruttivo.

Dianzi il Sottosegretario Sen. Lombardi ha fat­to riferimento alle prese di posizione della sena­trice Tedesco e mia relative ai fatti di Nardò e alla sentenza del Pretore di Lecce. Direi che, sen­za dubbio, in queste ultime settimane si sono ve­rificati, anche sul piano giudiziario, una serie di fatti che hanno ulteriormente sottolineato la ne­cessità che noi si concluda rapidamente. Perché non c'è stato soltanto Nardò e Lecce, c'è stata una vicenda similare a Portici, dove, una bambina si è rifiutata di raggiungere il genitore al quale il Tribunale l'aveva affidata, senza nemmeno ascol­tarla. C'è stato il fatto dei due genitori minoren­ni di Belluno. C'è stato anche il fatto gravissimo di Bologna, della donna alla quale sono stati tolti dieci figli, perché era nel l'impossibilità materiale di mantenerli.

La logica che, anche con le nostre proposte, vorremmo contribuire a sviluppare è quella di ar­ticolare sempre più e meglio azioni operative che siano di concreto aiuto alla famiglia e che rele­ghino l'allontanamento dei minori dalla famiglia stessa o dal genitore, soltanto in circostanze del tutto eccezionali e quando si è esperito ogni concreto tentativo di aiuto alla famiglia.

Del resto la stessa sentenza della Corte Costi­tuzionale ha invitato il legislatore ad intervenire.

Il Comitato Ristretto in che ottica si è posto?

Noi ci siamo posti nell'ottica corretta in cui può porsi il legislatore, che è quella di attuazione della Costituzione e di trasposizione nelle singole fattispecie concrete della logica personalistica e comunitaria che sottende tutte le scelte costi­tuzionali. Abbiamo costruito le nostre scelte so­prattutto tenendo presente la filosofia dell'artico­lo 2 della Costituzione laddove parla di diritti in­violabili della persona sia come singolo sia nelle formazioni sociali dove si svolge la propria per­sonalità, e fra queste formazioni sociali, senza dubbio, la famiglia viene ad avere un rilievo pre­minente.

L'altra ottica. che del resto ha già sottolineato la Senatrice Tedesco, che abbiamo cercato di tenere presente costantemente; è quella del pre­minente interesse del bambino, senza tener conto della sua nazionalità, perché evidentemente si tratta di principio che non conosce confini. Que­sta posizione ha poi portato, e lo vedremo rapi­damente più avanti, a uno sforzo di assimilare, per quanto possibile, le norme della adozione in­ternazionale alle norme dell'adozione interna. E ciò non per disconoscere principi generali anche del diritto internazionale privato, ma per soddi­sfare al massimo l'esistenza di tutela del bambi­no di ogni stato e nazionalità.

Abbiamo ritenuto, anche in linea con la maggio­ranza delle proposte di legge presentate, che fos­se opportuna una semplificazione del disegno le­gislativo, perché se è vero che le fattispecie con­crete sono le più svariate, è anche vero che le situazioni sono sostanzialmente riducibili a due casi tipici; la difficoltà temporanea della fami­glia o la sua difficoltà permanente.

Nel primo caso lo scopo è quello di aiutare la famiglia a superare il momento di difficoltà tem­poranea ed in questa logica si inserisce tutto il discorso sulla regolamentazione dell'affidamento familiare che è ormai positivamente entrato nel nostro costume.

A questo punto vorrei porre in luce che se non è ancora maturata appieno la coscienza della di­gnità del bambino il quale viene ancora troppo spesso trattato come una cosa, due grandi passi a livello culturale e di costume sono stati fatti dalla società italiana. Il significato culturale, in­fatti, di considerare «normale» l'adozione spe­ciale è profondissimo. Cioè un istituto che prima si riteneva di carattere eccezionale adesso è ac­cettato dalla normalità delle famiglie adottanti e non adottanti come positivo, e direi naturale in un senso più alto della naturalità fisica che porta alla filiazione diretta. Del pari altro fatto cultu­rale è quello di ritenere l'affidamento familiare come un costume positivo, giungendo di fatto an­che ad un coinvolgimento dei nuclei privati, delle famiglie, in quella logica di servizio alla comunità ed ai minori che credo debba caratterizzare la nostra società.

Ora noi, con le proposte del Comitato Ristret­to, abbiamo cercato di costruire - ovviamente qui siamo in materia opinabile, ove ogni scelta può essere perfettibile ed anche per questo sono opportuni e necessari incontri come quello di og­gi - una logica dell'affido che si presti il meno possibile a mistificazioni o a precostituire situa­zioni che possano poi facilitare adozioni che per la strada normale non avverrebbero. Ora il dire che l'affido è un fatto di carattere temporaneo, il dire, ad esempio, che l'affidatario deve agevolare i rapporti del minore con i genitori o con i parenti, il dire che l'affidatario deve favorire il reinseri­mento del minore nella famiglia d'origine, signi­fica sostanzialmente porre, con molta chiarezza, l'esclusione di un diritto di «priorità» della fa­miglia che ha un bambino in affido sul bambino affidato, e caratterizzare in modo molto forte ed esplicito il senso di servizio che il nuovo istituto ha verso e il minore in affido e la famiglia d'ori­gine. Quindi positivo che questo nuovo istituto venga regolato.

Lo schema logico nel quale ci muoviamo è, quindi, questo: se sussistono casi temporanei di difficoltà per la famiglia d'origine il bambino vie­ne dato in affido, se il bambino non ha una sua famiglia allora viene in essere l'istituto dell'ado­zione.

Anche il Presidente Moro ha dato delle motiva­zioni che condivido in pieno al fine di spiegare la scelta preferenziale che noi abbiamo fatto per l'adozione ex-speciale, che nel nostro testo unifi­cato chiamiamo «adozione» tout-court, in quanto istituto che garantisce appieno il diritto del mi­nore nella famiglia.

Noi riteniamo, che uno dei punti cardine del nostro discorso sia proprio quello dell'abolizio­ne dell'adozione ordinaria per i maggiorenni e della limitazione ad alcune fattispecie ben defi­nite dello stessa tipo di adozione per i minorenni.

Perché? Perché, se è vero che l'ottica deve es­sere quella dell'interesse del minore, se è vero che la finalità dell'istituto deve essere quella di dare una famiglia al minore che ne è privo, in que­sto schema logico e culturale l'adozione ordina­ria del maggiorenne non rientra nel modo più as­soluto. Vi dirò, in più, che a mio parere urta non soltanto con le scelte del diritto di famiglia ma, ritengo, anche con la logica costituzionale e, sen­za dubbio, con il grado di maturazione a cui la coscienza culturale dei nostri giorni è arrivata. Che si possa usare un istituto sostanzialmente parafamigliare quale l'adozione ordinaria per sod­disfare degli interessi di natura economica a me sembra abnorme. Tali interessi, infatti, sono quan­tomeno irrilevanti, a parte il fatto che credo che ormai di patrimoni da far continuare ce ne siano sempre meno. Ritengo inoltre, che il diritto, an­che nelle sue varie fattispecie, offra altri stru­menti giuridici per raggiungere tale obiettivo. Se, ad esempio, io avessi un patrimonio da far con­tinuare penserei a costituire una fondazione, piut­tosto che ad adottare una persona maggiorenne. Comunque urta al mio tipo di sensibilità, e non credo solo al mio, l'uso di un istituto parafamigliare per scopi sostanzialmente di natura eco­nomica.

Quindi adozione soltanto per minori ed adozio­ne ordinaria soltanto per minori in casi che non ripeterò perché li ha già chiaramente specificati la Senatrice Tedesco.

Credo, rispondendo anche al Professor Franchi, che le cautele che noi abbiamo posto, anche sul piano processuale (esigendo che vi sia un'inda­gine preventiva sulla idoneità dei genitori che intendono adottare anche in adozione ordinaria, e prevedendo che il giudice sia sempre arbitro di decidere quale delle soluzioni, adozione ordi­naria o adozione ex-speciale, sia preferibile per il bambino) pongono a riparo dalle possibilità di strumentalizzazione che sono state denunciate.

Per quanto poi riguarda le sentenze della Cor­te Costituzionale vero è che esse invitavano il legislatore a coordinare l'adozione speciale con l'adozione ordinaria, però si parlava di competen­ze. L'esame è stato fatto dal punto di vista del coordinamento e dell'unificazione delle compe­tenze perché non si verificassero più fattispecie concrete del tipo di quelle dalle quali è nato il ricorso alla Corte.

Una trasposizione dal piano delle competenze al piano degli istituti di diritto sostanziale, mi lascia dei dubbi e non credo rientri nella volontà dei giudici del Palazzo della Consulta.

Devo dire che un'altra scelta di fondo che ha caratterizzato il nostro lavoro è stata quella di resistere alla pressione (che, dopo il tragico ter­remoto del novembre scorso pure si era sviluppa­ta sul piano parlamentare anche con delle pro­poste di legge) volta a prevedere meccanismi di adozione straordinari e paralleli in caso di cala­mità interne od internazionali. A noi, invece, è parso giusto, di riportare ogni situazione e circo­stanza al meccanismo ordinario, cercando sem­mai di snellire le procedure e renderle più fun­zionali, di modo che si potesse far fronte a casi di emergenza senza costruire meccanismi paral­leli.

Un'altra innovazione di estremo rilievo - il poco tempo a disposizione costringe a fare solo delle sottolineature - è quella del previsto con­senso del minore che ha compiuto i quattordici anni per l'adozione e dell'invito ad ascoltare an­che i minori infraquattordicenni.

Si è molto discusso di questo tema: i casi drammatici di Nardò, Lecce e Portici hanno risve­gliato l'attenzione su di esso. È stato detto che noi sostanzialmente vogliamo teorizzare un dirit­to del minore a scegliere il genitore migliore, op­pure vogliamo scaricare sulle spalle del minore una scelta drammatica. Non è questa la logica che guida l'audizione degli infraquattordicenni.

La logica è un'altra ed è profondamente diver­sa. Se il punto di partenza è l'interesse del mino­re alla famiglia, occorre creare la possibilità che si instauri in concreto un rapporto affettivo e educativo fra adottanti ed adottati. Ebbene a noi del Comitato Ristretto sembra impossibile che non si ascolti una delle parti del rapporto che si deve instaurare. Del resto chiunque ha esperien­za di figli in quella età, si rende conto di quanto sarebbe inopportuno e pregiudizievole inserire, contro la sua volontà, in una nuova famiglia un ragazzo in età evolutiva.

Un'altra scelta che a me sembra estremamente importante è quella relativa al diritto del bambi­no a vivere nella propria famiglia ed alla neces­sità di finalizzare al raggiungimento di tale obiet­tivo gli interventi di sostegno alla famiglia pre­visti dalle leggi nazionali e regionali. Poco fa la Senatrice Tedesco ha detto che per la prima volta entra nel codice civile il principia del diritto del bambino a vivere nella propria famiglia. Fra l'altro credo che sia la prima volta che entra nel codice un riferimento esplicito alle leggi regio­nali.

A me pare di estrema importanza non solo che questo principio entri nel codice, ma che, in fondo, si vengono ad enucleare in modo più pre­ciso principi già presenti nella Costituzione. Il rapporto genitori-figli nella Costituzione è visto (articolo 30) dal punto di vista dei genitori - «è diritto e dovere dei genitori mantenere, educare e istruire i figli» - di diritti dei minori in modo esplicito, di diritto dei minori alla famiglia nella Costituzione non si parla. È evidente che il di­scorso è presupposto e reciproco, perché se vi è un diritto-dovere dei genitori all'educazione, vi é dall'altra parte un diritto del minore alla fami­glia. Però che si dica esplicitamente nella legi­slazione ordinaria che questo diritto esiste e che è dovere della società ed interesse pubblico tu­telarlo a me sembra di estrema importanza.

E mi sembra di estrema importanza anche per­ché, senza ledere l'autonomia familiare che noi anzi vogliamo salvaguardare, abbiamo anche cer­cato di trarre da questo principio delle conse­guenze pratiche: per esempio quella che fa ca­rico al genitore dell'obbligo di avvertire il Tribu­nale dei Minorenni nel caso che il bambino, per un periodo prolungato, viva fuori dalla famiglia di origine e sia affidato a terzi, siano essi Istituti o persone non legate al minore da particolari vin­coli di parentela.

Per finire, alcune notazioni sulla adozione in­ternazionale.

Naturalmente questo è il problema emergente ed, in un certo qual senso, più complicato, anche perché esula, in larga parte, dalle nostre com­petenze in quanto, come legislatori, possiamo inerire solo nell'ordinamento interno dello Stato italiano.

È evidente che, anche in questo settore, vi è tutta un'azione da compiere sul piano culturale e sul piano diplomatico perché di questa materia si facciano carico sia gli organismi internaziona­li, attraverso la stipula di convenzioni multilatera­li, sia lo Stato italiano, attraverso la stipula di convenzioni bilaterali con i Paesi nei quali il fenomeno è maggiormente emergente. Infatti an­che la stessa convenzione internazionale, può dare un indirizzo, ma non sempre può fornire risposte concretamente adeguate, data l'estrema differenza degli organismi dei vari Stati. Vi ho già detto che l'ottica nella quale ha agito il Co­mitato Ristretto è stata quella di equiparare al massimo la adozione internazionale alla adozione dei bambini italiani, tenendo conto che è sempre centrale il problema relativo alla necessità di tu­telare e salvaguardare l'interesse del bambino. Naturalmente ciò è possibile soltanto in parte. Noi, come legislatori, abbiamo cercato di dare il massimo rilevo alla dichiarazione di idoneità preventiva per i genitori adottanti, perché ci sia­mo resi conto, anche attraverso le esperienze raccolte da numerosi Presidenti di Tribunali dei minorenni e da operatori del settore, di quale sia la concreta realtà. Sostanzialmente quando un provvedimento di adozione internazionale è avve­nuto e giunge dinanzi al magistrato in sede di convalida, per l'ordinamento giuridico italiano è ormai estremamente difficile bloccarlo. Invece, a nostro parere, il porre come necessaria condi­zione di base l'idoneità degli adottanti, avverte i cittadini italiani della impossibilità di avviare il provvedimento se come coppia, come famiglia, non offrono garanzie sul piano familiare e delle capacità educative. Questa condizione, quindi, of­fre una certa garanzia di non trovarsi di fronte a fatti compiuti, a situazioni nelle quali il minor male tutto sommato è ancora quello di accettarle così come si sono precostituite. Devo dire che anche la parte relativa alI'espatrio di minorenni a scopo di adozione a cui il Professor Franchi ha fatto riferimento è stata esaminata da noi sulla base di un disegno di legge che il Governo aveva presentato ancora nella legislatura scorsa e che dava delle indicazioni abbastanza valide.

Secondo me è stato fatto un lavoro serio.

La materia è spesso estremamente opinabile, anche perché gli interessi confliggenti con estre­ma frequenza si presentano all'attenzione di chi deve risolvere questi problemi. Però si è trattato di un procedimento legislativo, fra l'altro, estre­mamente partecipato: partecipato a livello di udienze conoscitive, partecipato a livello di rap­porti fra Commissione ed operatori del settore, partecipato a livello di rapporti fra Commissioni ed associazioni che si occupano di questi pro­blemi. Si è trattato di un processo che ha avuto, anche attraverso i dibattiti stampa, una matura­zione: molto spesso gli stessi dibattiti stampa hanno costituito per noi uno stimolo ed un aiuto.

Senza dubbio l'approvazione di queste norme non esaurisce il quadro di interventi legislativi necessari. Qui è stato fatto riferimento a due interventi: alla riforma della legge quadro sull'as­sistenza e alla necessità di rivedere tutta la parte del cosiddetto tribunale per la famiglia.

Però direi che giustamente è stato rilevato che la logica della globalità o contestualità di appro­vazione legislativa rischia di essere una logica paralizzante. Noi abbiamo adottato una scelta che credo sia saggia e non prammatica. Essa è quella di una costruzione progressiva - quindi, per ora, approvare ciò che è possibile approvare - ma non casuale, fatta cioè entro scelte culturali ben precise e coordinate. Per esempio il nuovo ruolo degli enti locali, così come deriva dalla legge 382 e dal D.P.R. 616, é stato costantemente tenuto presente, così come I'iter di maturazione anche della legge quadro di riforma dei servizi sociali, che pare si avvii verso un'alba che speriamo que­sta volta sia definitiva.

Per questi motivi - pur con l'umiltà di chi sa di aver affrontato materia difficile, opinabile e complessa - penso che il lavoro portato avanti in seno alla Commissione Giustizia del Senato sia positivo e, quindi, degno di approvazione an­che da parte degli altri colleghi e della vostra attenzione in sede di discussione.

Grazie.

 

 

MARIO GOZZINI - Membro del Comitato Ristretto sull'Adozione della Commissione Giustizia del Senato

 

Io rappresento, nel Comitato Ristretto della Commissione Giustizia del Senato che ha lavora­to al testo di legge che è l'oggetto principale, anche se non esclusivo, di questo Convegno, quel gruppo parlamentare anomalo nella sua formazio­ne e quanto mai variegato ed eterogeneo nella sua composizione che è la Sinistra Indipendente.

Sui lavori del Comitato Ristretto io devo dire, e mi pare sia emerso anche dai lavori della matti­nata, che non c'è assolutamente contrapposizio­ne tra maggioranza ed opposizione. Se divisioni restano ancora, e lo avete sentito dall'intervento del Governo di questa mattina, sono divisioni che passano probabilmente all'interno di tutti i partiti, proprio perché si tratta di materia in cui, in­tanto, gli interessi economici in gioco, che il più delle volte determinano le grosse divisioni, sono abbastanza marginali, se non addirittura inesi­stenti, e poi perché si tratta di materia così viva, oserei dire sanguinante, nel tessuto sociale per cui divisioni ideologiche non sono più all'ordine del giorno.

Vorrei dare ai mio intervento un taglio quanto più possibile autobiografico: mi spiegherò subito. Sono un politico di complemento, a differenza di quasi tutti í miei colleghi, e in modo particolare delle due care colleghe che hanno parlato stama­ne e con le quali abbiamo lavorato in piena con­cordia di intenti, devo dire, senza mai scontrarci, sempre incontrandoci, le quali hanno tutte e due la politica nel sangue, per il nome che portano, per la famiglia a cui appartengono.

Inoltre sono probabilmente l'unico, tra le per­sone intorno a questo banco, che non sia un ope­ratore del diritto. Volli andare alla Commissione Giustizia entrando in Parlamento anche perché c'è un articolo della Costituzione, il 102 ultimo comma dove si dice che il popolo, il popolo non perito di diritto, partecipa all'amministrazione della giustizia: a maggior ragione, quindi, alla attività legislativa in materia di giustizia.

Dicevo autobiografico perché, vedete, nono­stante tutte queste mie sprovvedutezze, il proble­ma mi coinvolge personalmente in maniera molto diretta. Mi sono trovato, infatti, ad un certo punto della vita ad aver formato, insieme a mia moglie, un preciso proposito di adottare un bambino, avendo noi già tre figli che a quell'epoca - era l'anno 1967, l'anno dell'approvazione della legge 431 che andava sotto il nome dell'On. Del Can­ton - avevano 11, 9 e 7 anni.

Stamattina proprio qui casualmente mi è venu­to a cercare Padre Davide Turoldo a cui mi lega un'amicizia ormai antichissima, e mi ha fatto tor­nare alla memoria quello che ha voluto dire per molti della mia generazione l'esperienza, al nome di Padre Davide e alla città di Milano particolar­mente legata, l'esperienza, dico, di Nomadelfia e di Don Zeno Saltini: quando si diceva «ogni fami­glia adotti un bambino perché non ci siano più Istituti, più Brefotrofi».

Ricordo il mio primo impatto con Nomadelfia, che di questa prospettiva era l'aspetto più rile­vante, più avanzato: doveva essere la fine del '48, o i primi del '49; aspettando Don Zeno, mi soffer­mai a parlare con uno dei padri di famiglia, gli domandai quanti figli aveva e mi rispose 24. La risposta non mi meravigliò molto perché allora, trenta o quarant'anni fa, le famiglie numerose erano ancora all'ordine del giorno; ma alla mia ulteriore, naturale, domanda «quanti suoi e quanti adottati» mi rispose, con assoluta sincerità, con un tono che mi colpì profondamente, «non lo so davvero».

C'era, in questa risposta, un salto culturale, una concezione diversa della genitorialità, pater­nità e maternità, non diciamo né sola paternità né sola maternità, ma genitorialità: una conce­zione in cui il fatto biologico, il «valore» del sangue andava decisamente in seconda linea fino a scomparire rispetto al rapporto affettivo ed edu­cativo, rispetto alla capacità dei genitori di eser­citare questa funzione e quindi di rispettare quel­lo che noi oggi chiamiamo per consenso comune «diritto del bambino».

E allora, ritornando al proposito di adottare un bambino pur avendone già tre, penso non vi fosse estraneo, per me e per mia moglie, come per molti della nostra generazione, l'esempio di No­madelfia, comunque l'adozione non per interessi privati, ma in funzione sociale di liberazione dal­la piaga dei brefotrofi e degli istituti.

Era l'estate del 1967, da poco era passata la legge, mia moglie lavorava in una Casa per ra­gazze madri - cose che sembrano lontanissime, e sono passati appena quindici anni: ci telefona­rono che c'era un bambino in arrivo. Riunimmo i nostri tre figli, ne parlammo per avere il loro con­senso: poi il Meucci, già allora Presidente del Tribunale per i Minorenni, nostro amico carissi­mo, non solo ci dissuase, ma ci mise davanti un impedimento di legge: io avevo superati i 45 anni, ero, ahimè, troppo vecchio.

Di là del caso personale, quel che mi preme mettere in rilievo è il trapasso culturale, il salto di qualità nella concezione stessa della paternità e della maternità, della genitorialità, contro il primato del sangue.

Anche perché, vorrei sottolinearlo, il primato del sangue ha avuto grande forza e grande citta­dinanza proprio tra i cattolici: come fosse un va­lore, un fine e non soltanto un mezzo. Ricordo quanto fu combattuto l'iter della legge sino al 1967, perché era dominante questa concezione, che oggi dobbiamo considerare dietro le nostre spalle, del rapporto figli-genitori, proprio come rapporto in qualche modo di possesso, di pro­prietà, figli come qualche cosa di nostro in rap­porto stretto ed esclusivo con la procreazione biologica. In nome del diritto del sangue, si di­ceva; e invece abbiamo capito che ci sono altri diritti, più forti.

E questo trapasso culturale è indubbiamente un valore, da non rimettere in gioco.

Anche se, passati pochi anni, tutto è cambiato, è cambiata la base materiale, è cambiata ulte­riormente la cultura.

È venuta a mancare la materia prima, i neona­ti: allora si diceva che l'adozione doveva essere fatta soprattutto per i neonati perché era più fa­cile l'inserimento, non c'erano problemi per l'in­serimento; oggi, l'abbiamo sentito anche stama­ni, il problema non è più dei neonati quanto degli stati di abbandono che si manifestano successi­vamente.

Neonati abbandonati non ci sono quasi più, per­ché molto più di ieri sono figli voluti, figli desi­derati.

La diffusione degli anticoncezionali, la diffusio­ne, purtroppo, dell'aborto, indubbiamente la stes­sa cultura della genitorialità cosciente e respon­sabile, come si dice con una formula ormai uni­versalmente condivisa, tutto ciò ha un aspetto positivo. Nel senso di un aumento, di una cre­scita, di un'estensione della libertà di decisione: il figlio voluto, cercato e non subito, non accet­tato solo come una calamità naturale. Ne conse­gue, anche, un accrescimento di responsabilità che genitori non si nasce, lo si diventa, oggi co­mincia a diventare una presa di coscienza collet­tiva. Importante anche questo ai fini del nostro problema, perché contribuisce al superamento del primato del sangue come valore supremo.

«Genitori non si nasce, lo si diventa» vuol dire appunto che il rapporto biologico, il rappor­to procreativo quello che è facile perché tutti lo sanno realizzare, non è prioritario.

D'altra parte c'è anche un aspetto negativo e va tenuto presente: il programmare le famiglie - un figlio, due figli, nessun figlio - può atte­nuare la responsabilità, la disponibilità nei con­fronti dell'imprevisto, nei confronti di quello che, credenti e non credenti, possiamo chiamare il «mistero della vita». Si attenua, in definitiva, la generosità verso l'altro. Non c'è dubbio, e mi piace sottolinearlo in questa sede, la legge 194, la legge sull'aborto che ho contribuito a redigere, in qualche misura, e a difendere nel referendum, questo rischio lo presenta: il 67% vittorioso non deve dimenticarlo, non deve cioè trascurare certe ragioni, anche se a nostro avviso argomentate in modo non positivo, del 32% .

Cosa vuol dire tutto questo discorso, cosa vuol sottolineare? Soprattutto l'accelerazione enorme dei cambiamenti culturali in cui una generazione è presa e coinvolta. Si tratta di un fatto storica­mente inedito: fino ad oggi occorrevano non una ma molte generazioni perché un cambiamento culturale portasse a termine il proprio processo. Nascono di qui le incertezze e le ambiguità di tutte le nostre scelte, anche legislative. Ci scon­triamo con una difficoltà oggettiva: trovare un equilibrio che contemperi le esigenze contrastan­ti pur sapendo che è un equilibrio destinato a durar poco.

Quali esigenze contrastanti? Mi pare molto chiaro, e cercherò di chiarirlo ulteriormente.

Da una parte mantenere e sviluppare questa presa di coscienza, questo punto d'arrivo della famiglia come fatto non biologico e nemmeno pa­trimoniale, ma fatto educativo, in funzione dei figli: la famiglia come prima sede di apertura all'altro, all'altro che è persona e non cosa, e quindi che non è proprietà di nessuno. «I figli non sono nostri» è un'espressione anche questa entrata nell'uso - mi pare sia il titolo di un libro di Meucci.

Sotto questo aspetto, mi permetto di rilevarlo anche se il problema non è strettamente correla­to a questo Convegno, anche il discorso sull'ere­dità, che coinvolge poi il discorso sull'adozione ora ordinaria, va visto in un modo completamente diverso. Personalmente sono contrario all'istituto dell'eredità (la collega Iervolino diceva questa mattina «patrimoni da trasmettere ce ne sono più pochi»: bene, se Dio vuole!): non parlo evi­dentemente di eredità della casa in cui si è abi­tato, il discorso vuol essere un altro, appunto di cultura, di mentalità, spesso l'eredità assomiglia tanto ad un ricatto. L'altro giorno un giovane che lavora nell'azienda del padre, un borghese ricco, mi diceva: «sa, mio padre non mi ha ancora mes­so a ruolo, non mi paga i contributi e io come fac­cio con la pensione e tutto il resto?... lui mi ri­sponde "ma tanto è tutto tuo"... ». Il giovane ha altri due fratelli e ha sempre visto che la «roba» è fonte inesauribile di risse.

Se una delle motivazioni per mantenere l'ado­zione per i maggiorenni deve essere l'eredità, credo sarebbe un tornare indietro rispetto a cer­te acquisizioni che abbiamo pur raggiunto.

Da una parte, dunque, il diritto prioritario, o esclusivo, dell'interesse del minore contro i ge­nitori che non intendono vedere il figlio minore come uno a cui tutto è dovuto e nulla richiesto, oppure lo vedono come un bene da sfruttare più tardi. Quindi non esitare alle rescissioni con la famiglia di origine. Sempre subordinate al con­senso del minore che supera i 14 anni o al dovere del giudice di sentirlo fra i 12 e i 14 anni, e anche prima se lo stato di maturazione del minore lo permette.

Questo da una parte, ma dall'altra parte c'è un'altra esigenza che avvertiamo sempre più pro­fondamente, quella di tutelare, di garantire l'e­sercizio della solidarietà sociale nei confronti dei genitori in difficoltà, in difficoltà oggettive e non soggettive, genitori che non sono in grado, non per loro responsabilità, non per loro cattiva volontà di svolgere adeguatamente la loro funzio­ne educativa.

Ce l'hanno la buona volontà di esercitarla, ma non possono, e qui deve scattare il dovere della solidarietà sociale. Quindi la massima cautela, la massima prudenza nel pronunciare dichiarazioni di stato di adottabilità.

Vorrei ricordare, mi è venuto tante volte in mente, un episodio del «Giudizio Universale» di De Sica e Zavattini - la televisione l'ha ripropo­sto poco tempo fa - l'episodio che ha per prota­gonista Alberto Sordi, procacciatore di bambini da vendere in America. Oggi la situazione è pro­babilmente rovesciata (entrando un momento nel­la questione dell'adozione internazionale): forse ci sono altri Paesi, Paesi del Terzo Mondo, Paesi poveri, forse anche nel nostro Sud, il Sud che c'è un po' dappertutto, che vedono procacciatori di bambini per i ricchi dell'Occidente. Se noi vo­gliamo contribuire a costruire una società non solo nel nostro Paese, ma in tutto il mondo - una società degna dell'uomo - in cui fatti e perso­naggi simili non ci siano più, l'orrore, diciamolo pure, che proviamo per il personaggio imperso­nato da Sordi, per la situazione che quel perso­naggio sfrutta, dobbiamo sentirlo anche in rife­rimento alle madri, ai genitori della Cambogia o dell'Ecuador o di altri paesi: perché nessuno sia più sottoposto all'odioso ricatto affettivo: «dai via il tuo figlio, tu avrai dei soldi e lui vivrà me­glio che qui!».

Ecco allora tutta la prospettiva che la legge dovrà aprire o consolidare: i servizi locali, l'af­fidamento familiare come antidoti ai procaccia­tori di bambini e agli sfruttatori della povertà.

Vorrei sottolineare quanto ciò sia importante... immagino che tanti di voi siano operatori nel set­tore: ecco, dovete avvertire la grande responsa­bilità ed il grande valore sociale del vostro lavo­ro, proprio perché state dentro a questo cambia­mento, state dentro a questa trasformazione, den­tro a questo sforzo difficile di contemperare esi­genze contrastanti e valori non facilmente com­ponibili fra loro.

È già stato detto sull'affidamento familiare; fat­to temporaneo fino a che non venga meno la cau­sa che ha determinato il provvedimento; come è già stato detto quanto la legge debba essere fer­ma, anzi dura verso quei genitori i quali rifiutino l'intervento dei servizi sociali e il giudice ricono­sca ingiustificato questo rifiuto: non preme tanto l'interesse del figlio quanto altri interessi. Pen­siamo anche a quei genitori - ne conosciamo tutti - il cui comportamento è di pericolo gra­vissimo per lo sviluppo equilibrato del bambino. Famiglie di criminali o di drogati, ma anche fami­glie diciamo normali in cui la logica del figlio proprietà, la logica del figlio al proprio servizio, la logica del figlio che prima fa quello che i ge­nitori gli chiedono e poi potrà anche rispondere alle sue aspirazioni, alle sue inclinazioni come dice il diritto di famiglia, ecco anche di fronte a questi genitori il problema è grave, non nascon­diamocelo.

Non si può rispondere, infatti, che i genitori fanno quello che vogliono; perché questo ricono­scimento di libertà è pagato da minori che diven­teranno disadattati per la società di domani, fu­turi drogati o futuri terroristi.

E d'altra parte non possiamo nemmeno dire spartanamente «ecco, ti togliamo i figli». Vede­te, l'importanza enorme del vostro lavoro nei con­fronti del futuro, nei confronti della società di domani.

Ci sono anche altre difficoltà, altre cose con­trastanti.

La correlazione tra una riforma di questo gene­re ed altre riforme, in particolare la riforma del Tribunale per i minorenni. È pronta, si dice, nei cassetti del Ministero, eppure non l'abbiamo an­cora vista. Pensiamo alla prospettiva di un giudi­ce unico per i minori. Devo dire che mi farebbe malto piacere se tutte le cause di separazione e di divorzio fossero affidate al Giudice dei mi­nori. Come affermazione di principio i genitori hanno pieno diritto di separarsi e di divorziare ma l'interesse preminente se non esclusivo do­vrebbe essere sempre quello dei figli, se loro li hanno messi al mondo. A pagare di più devono essere i genitori. Oggi, si sa, c'è una tutela mag­giore dei figli delle coppie di fatto, perché com­petente unico in quel caso è il Tribunale per i mi­norenni.

A proposito delle coppie di fatto - l'argomento non è stato sollevato - vorrei dire semplicemen­te che al di là di qualsiasi questione di carattere ideologico abbiamo finito per convenire che rico­noscere per legge le coppie di fatto come ca­paci di adottare in realtà avrebbe suscitato spe­ranze del tutto infondate sul piano pratico, perché con la penuria di bambini da adottare, si trove­rebbero sempre, nei lunghi elenchi delle liste di attesa, domande di coniugati non meno idonei del­le coppie di fatto e il Tribunale dovrebbe per for­za presceglierli. So bene che certe coppie di fatto sono più stabili, più sicure di tante coppie coniugate: ma l'argomento ci è parso sufficiente per accantonare il discorso delle coppie di fatto.

Io sono convinto della necessità che il lungo lavoro fatto attorno a questa legge per ascoltare la più vasta gamma di pareri, e oggi ce ne è stato dato ampio riconoscimento e ve ne sono grato, il lungo lavoro fatto in collaborazione, informale, sia pure, con il Governo sia nella persona del Sottosegretario Lombardi, sia nella persona di magistrati che lavorano al Ministero, debba con­cludersi più rapidamente possibile.

Avete sentito stamane nell'intervento del Sot­tosegretario Lombardi che esistono ancora certi nodi da sciogliere, cioè dei contrasti. Mi associo a quello che ha detto, intervenendo subito dopo, la collega Iervolino. Non possiamo illuderci dun­que che i tempi siano brevissimi.

A parte questi contrasti che io mi auguro, vi­sta la dichiarazione di apertura del Sottosegreta­rio, non portino a contrapposizioni insuperabili e quindi a ritardi di per sé, il lavoro della Commis­sione Giustizia del Senato nei prossimi tempi (Legge sui pentiti, Legge sull'indulto, Legge sulla depenalizzazione tornata dalla Camera, tutte que­stioni urgentissime) è tale che bisognerà trovare tempi straordinari, d'altronde non facili per ra­gioni obiettive, non per pigrizia di nessuno.

Per quel che riguarda il Comitato Ristretto penso che basteranno alcune settimane per con­cludere mettendo a punto il testo da presentare ai colleghi della Commissione; siamo in sede redigente, dunque per il varo del testo in aula basta un paio di ore per le sole dichiarazioni di voto. Poi c'è l'altro ramo del Parlamento: l'espe­rienza ci ammonisce che ci sono spesso anche puntigli, talvolta non necessari e malposti, devo dire... Personalmente credo di non averne mai esercitati, e nemmeno ricordo casi di questo ge­nere in Senato, ma non voglio fare del patriotti­smo di un ramo del Parlamento.

Vorrei ribadire, per concludere, una cosa che mi pare molto importante. Il significato, il senso del Vostro lavoro - crediamo di averlo sentito direttamente attraverso la lunga indagine cono­scitiva - non ci sfugge, ne siamo consapevoli proprio perché sappiamo che il Parlamento può fare la più bella delle leggi, la più perfetta for­malmente, a tavolino, per gli studiosi, anche per i Tribunali, ma poi nella realtà viva della città, dei quartieri, delle borgate, la legge viene mal applicata non raggiunge le finalità desiderate.

Lavorate, vorrei dire, con entusiasmo: è una pa­rola desueta, ma l'entusiasmo può nascere dalla convinzione di adempiere ad una grande fun­zione sociale.

 

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