Prospettive assistenziali, n. 58, aprile - giugno 1982
DAL MANICOMIO AL
SERVIZIO DI SALUTE MENTALE TERRITORIALE
ENRICO PASCAL (1)
La situazione rigida e statica che caratterizzava la
condizione «asilare» italiana e che fu denunciata
negli anni '68-'69 da forze sociali, associazioni, operatori, sindacati, politici,
è ben nota.
Tuttavia oggi, a poco più di un
decennio, sembra già che l'eco se ne sia spento. Gli aspetti più qualificanti, per certi versi
eversivi, delle lotte antiistituzionali di quegli
anni sono stati riassorbiti da un processo di liberalizzazione assai blando
all'interno degli ospedali psichiatrici, cui si è accompagnata una diffusa
razionalizzazione della assistenza psichiatrica, sia intra che extraospedaliera.
Un prudente riformismo, già implicito nella legge
431 del '68, ha prodotto quasi ovunque i suoi frutti: l'opinione pubblica non è
più indignata per la sorte degli emarginati, si sono affievolite e poi spente
le denunce.
La visione ospedaliera, medica, dei problemi
«psichiatrici» rassicura gli operatori; la gente comune oggi dormirebbe sonni
tranquilli se la legge 180, sulla scia di movimenti antiistituzionali e di esperienze «alternative», non avesse posto
il nuovo, inquietante interrogativo del «matto in libertà». Ciò che indigna,
preoccupa e suscita nuove richieste di emarginazione
e nuovi progetti di legge controriformisti, è l'idea che le persone malate «di
mente» siano curate liberamente sul territorio, senza misure restrittive e
protezionistiche.
All'insegna di numerose inadempienze nella attuazione della legge 180, della inesistenza o scarsa
efficienza di servizi territoriali, l'opinione pubblica, e fatto ancora più
grave le famiglie dei malati, un tempo partecipi delle lotte antiistituzionali, oggi invocano nuovi contenitori della
devianza psichica. Certo non di tipo asilare, ma genericamente
«ospedaliero».
I movimenti di lotta antiistituzionale
e contro la emarginazione, un tempo sostenuti dal movimento
dei lavoratori, sono oggi molto più deboli. La recessione, il dominante
problema del costo del lavoro, sembrano giustificare
questa smobilitazione.
I principi basilari evocati in difesa dei diritti
degli emarginati, la lotta vittoriosa contro la loro esclusione nelle scuole,
nelle fabbriche, negli ospedali, negli istituti, rischiano di
essere riassorbiti dai problemi contingenti, certamente gravi.
La logica del costo-beneficio, del programma attività
spesa (P.A.S.) incalza le USL appena nate, ticket e
varie misure governative restrittive e mirate rischiano di soffocare la riforma
sanitaria, e condizionano ovviamente anche l'assistenza psichiatrica, che dal
'78 vi è agganciata.
Scopo di questo scritto è una breve analisi di quanto
è successo nella organizzazione della assistenza
psichiatrica a Torino (come del resto in Italia), dal «manicomio» sino
all'impianto dei servizi di salute mentale delle USL, una analisi delle
contestuali modificazioni culturali, una verifica in termini costo-beneficio,
dei vari tipi di organizzazione ospedaliera e territoriale, e della esperienza
della USL 28 comprendente i Comuni di Settimo Torinese (44.000 abitanti), Leinì (11.000), Volpiano
(10.000), S. Benigno (4.000) e Lombardore (1.300) -
Popolazione totale 70.000 circa.
Dal manicomio allo «spazio
socio-sanitario»
Prima della contestazione manicomiale del '68, il
contenitore manicomiale funzionava a tutti gli effetti
come un sistema carcerario: tutti i reparti erano chiusi, un personale di
«vigilanza» e «custodia» provvedeva essenzialmente a reprimere ogni
manifestazione di ribellione o protesta nei reparti sovraffollati, dove il
vitto era scarso e le condizioni di vita inumane.
L'alternativa preventivata
dalla Amministrazione provinciale di Torino era allora il «nuovo ospedale
psichiatrico modello, per 500 posti» a Grugliasco.
La contestazione, e quindi l'apporto di forze
sociali, operatori, associazioni, organizzazioni sindacali,
finì per ritardarne la costruzione e per vanificarne l'uso psichiatrico, ma non
si può non ricordare come il suo impiego «medico-ospedaliero», lungi dal
superare il manicomio, lo presupponeva come il contenitore nel quale scaricare
la lungodegenza o i casi «selezionati» nel nuovo
ospedale, dopo un periodo di cure.
È importante ricordarlo, proprio oggi, quando con
tanta insistenza e da più parti si invocano
contenitori per la lungodegenza (logica della cura
efficiente e della selezione con contenitori alle spalle).
Ma la linea medico-ospedaliera si andava imponendo comunque, a partire dalla legge 431 del '68. Negli anni
successivi, anche a Torino, i reparti diventavano divisioni ospedaliere, gli organici
medico-infermieristici venivano considerevolmente
rinforzati. Nonostante che la legge 431 avesse abolito l'obbligo della iscrizione sul casellario penale e quindi si fosse
opposta alla precedente criminalizzazione dei «malati di mente», e avesse
aperto l'ospedale psichiatrico ai volontari (art. 4), ben poco sarebbe avvenuto
per la liberalizzazione e il riconoscimento dei diritti dei degenti da parte
della corporazione dei medici e degli infermieri senza il contributo della
partecipazione avviata dalla contestazione, come più oltre vedremo. La
ristrutturazione ospedaliera seguiva una linea di pura razionalizzazione
dell'esistente.
Contemporaneamente, negli anni '70, veniva avviata la esperienza del settore, con tentativi, non
sempre riusciti, di settorializzazione interna. Il
modo talora «selvaggio» e meramente burocratico con cui i degenti venivano spostati («deportati»!) fece gridare allo scandalo
in talune occasioni. Ma è innegabile che la politica degli spostamenti e
dell'accorpamento di reparti permise la chiusura
degli ospedali psichiatrici di Via Giulio nel '73 e di Savonera
nel '78. Contestualmente la «liberazione» di personale consentiva la mobilità
esterna e quindi l'impianto successivo di presidi
ambulatoriali nelle zone psichiatriche.
La legge 180 ha significato la quasi immediata
chiusura delle «accettazioni» che costituivano la parte più propriamente
medico-ospedaliera degli ospedali psichiatrici, filtro
alla lungodegenza nei reparti blandamente
liberalizzati e sfoltiti dalla politica di dimissioni attuata nel corso degli
anni.
La brusca, immediata soppressione delle accettazioni,
ha impresso al processo di destrutturazione, di «superamento graduale» del
manicomio, un significativo passo avanti. Ma al tempo
stesso ha riproposto in maniera quasi crudele il
problema di ciò che rimane: il cosiddetto «residuo».
Residuo che è di 770 degenti nell'82 contro i 4.600
del '68, di cui solo 32 in trattamento sanitario obbligatorio, ma che sembra
testimoniare il tragico fallimento di ogni tentativo
di ricupero quando si è intervenuti troppo tardi o quando la
istituzionalizzazione protratta o la senilità hanno prodotto effetti
irreversibili. Va comunque ricordato che il «residuo»
è costituito in minima parte da «casi psichiatrici».
Di fronte al residuo si stagliano come fatto positivo le comunità ospiti, avviate nel '77 quando, di
fronte alle gravi difficoltà alla dimissione, si era attuata la politica della
de-ospedalizzazione e del cambiamento di status, col passaggio alla condizione
di ospitalità utilizzando strutture dell'ospedale rese disponibili.
Il progetto di destrutturazione si è progressivamente perfezionato, e attualmente (maggio '82) ben 576 ex-internati
godono dello stato di «ospite» nelle varie comunità. Il «progetto Torino»
prevede di dare «casa» a tempi brevi a circa 270 di questi, attuandosi così il
loro completo reinserimento socio-abitativo, quindi la loro riabilitazione
completa.
Si deve osservare che il risultato più importante
attenuto nel processo di superamento del manicomio non è nella medicalizzazione e nella ospedalizzazione,
ma nella creazione di uno spazio socio-sanitario (ad esaurimento). Il
passaggio a ospite, quindi il ricupero della propria
dignità di persona, non i neurolettici e le cure mediche, hanno in buona parte
risolto problemi e attuato la riabilitazione di molti degenti. Ennesima dimostrazione
di quanto sia riduttiva e perdente la visione medica e il neo-organicismo.
Dall'ospedale al servizio psichiatrico
di diagnosi e cura
È noto come alla fine degli anni '60 da più parti, ma
soprattutto da parte della S.I.P. (Società italiana di psichiatria) si andasse teorizzando sempre più l'impianto di «divisioni»
psichiatriche negli ospedali civili e come finisse per imporsi invece la
linea A.M.O.P.I. (divisioni all'interno
dell'ospedale psichiatrico). La linea S.I.P. era dunque più avanzata, perché
presupponeva il superamento della tradizionale separatezza
dello «specifico psichiatrico», ma in definitiva più insidiosa.
Senza avviare un processo di ristrutturazione
all'interno dei manicomi come invece ha fatto la legge 431, la
istituzione di divisioni psichiatriche negli ospedali generali avrebbe
sancito in maniera irreparabile la dicotomia ospedale-manicomio, la logica
della cura e della selezione con il contenitore (anche lontano e occultato)
alle spalle.
A Torino l'Amministrazione provinciale attuava una
sorta di mediazione, istituendo reparti «neuropsichiatrici»
prima a Chieri, poi a Ivrea
e infine a Pinerolo. Il numero dei posti letto, mediamente
una cinquantina, era tale da non configurare come «divisioni»,
ma come reparti agganciati alla divisione medica. Il tipo di utenza era «neurologica», di piccola e anche «media»
psichiatria. Per i casi più gravi, ancora valeva la logica della selezione con
il contenitore alle spalle.
I rapporti tra ospedale psichiatrico e ospedali
generali, negli anni che hanno preceduto la 180, sono stati problematici
e conflittuali per i pochi casi in cui l'emergere, generalmente urgente, di
problematiche medico-chirurgiche, richiedeva «letti tecnici» presso l'ospedale
civile.
In quasi tutte le circostanze veniva
allora richiesto una sorta di «piantonamento» del malato, cui il personale
dell'ospedale psichiatrico si prestava con difficoltà e malvolentieri, perché
si scoprivano i turni all'interno. A ciò è dovuto il
fatto che, a parte talune lodevoli iniziative, non fosse stata compiuta alcuna
sensibilizzazione positiva negli ospedali generali in occasione dei letti tecnici,
e la grande «crisi di rigetto» apertasi poco dopo, nel '78, colla attuazione
della 180 e l'attivazione dei repartini (servizi
psichiatrici di diagnosi e cura - S.P.D.C.) lo
conferma.
Non a caso avveniva l'attuazione della 180 mediante
il decentramento delle accettazioni dell'ospedale
psichiatrico presso gli ospedali generali, per l'attivazione di «servizi
dipartimentali» destinati a superare non soltanto l'ospedale psichiatrico, ma
anche il concetto di divisione psichiatrica e di reparto neuropsichiatrico.
Ciò ha comportato nell'immediato una spaventosa caduta di posti-letto (da
oltre 400 p.l. delle «accettazioni
psichiatriche» a poco più di una decina all'inizio, oltre un centinaio in
seguito), il ridimensionamento dei reparti neuropsichiatrici
già istituiti, il ricorso al privato.
Contestualmente doveva essere trovata una risposta alla urgenza: ciò avvenne, prima colla istituzione di un
pronto soccorso centralizzato all'ospedale Molinette
e in seguito, colla istituzione di un servizio di pronta disponibilità
medico-infermieristica sui poli ospedalieri sede di Dipartimento di emergenza
e di accettazione (D.E.A.).
In un caso come nell'altro la maggior parte degli
sforzi sono stati compiuti per l'attivazione dei S.P.D.C. e D.E.A. e la maggior
parte del personale ottenuto colla chiusura delle accettazioni, mobilitato, ha
finito per essere concentrato su attività ospedaliere.
Nessuno, quasi nessuno, ha potuto gestire contestualmente
la strutturazione dei servizi territoriali, costretti nelle situazioni più
avanzate ad arretrare sulla gestione del momento ospedaliero, lasciati a se
stessi senza una logica programmatoria e di formazione.
Per varie ragioni, di cui solo alcune legate alla urgenza e immediatezza con cui dovevano essere attivati
i servizi ospedalieri dipartimentali, la linea ospedaliera e medica ha finito
per imporsi quasi ovunque.
I presidi territoriali- dal centro di igiene mentale al servizio di salute mentale
Il centro di igiene mentale
era stato istituito a Torino nel '64. Unico, centralizzato, gestiva una fetta
di «piccola psichiatria» in alternativa ai poliambulatori I.N.A.M., attuava
numerosi depistages per la popolazione scolastica
(erano ancora i tempi delle classi speciali e differenziali!). Lodevole
iniziativa «territoriale», in realtà dispositivo più simbolico che realmente
efficace, spesso mezzo di reclutamento verso il manicomio, quindi debolissimo
filtro al ricovero e alla emarginazione. Complementare
assai più che non alternativo all'ospedale psichiatrico.
Contestualmente i vari presidi poliambulatoriali INAM, all'insegna della «neurologia», gestivano
la maggior parte della «piccola psichiatria» inviata, perché era fallita la
prima medicalizzazione, dai medici generici. La neurologicizzazione significava nella maggior parte dei
casi, la neurolettizzazione, magari più corretta:
per le situazioni acute, medio-gravi
il ricovero nelle case di cura convenzionate, infine il ricorso diretto al
manicomio per i casi gravi.
Il settore, previsto all'inizio
degli anni '70 come alternativo al manicomio, e programmato come «Settore modello di Torino centro», avrebbe dovuto
farsi carico, in maniera tecnicamente più valida ed efficiente, di una fetta
più consistente della utenza territoriale, e favorire
d'altra parte, mediante un collegamento funzionale coll'ospedale
psichiatrico, una politica di dimissioni/reinserimenti più organica.
La contestazione del settore unico fu immediata da
parte delle forze della contestazione manicomiale, e coll'apporto
decisivo di associazioni e delle organizzazioni
sindacali CGIL, CISL, UIL extraospedaliere, fu imposto, tramite il protocollo
d'intesa del '73, un modello completamente nuovo: quello del servizio
psichiatrico di USL, onde prefigurare negli ambiti territoriali sedi delle future
USL, la riforma sanitaria (2).
L'alternativa al manicomio
era definita nell'impianto graduale di équipes
psichiatriche di zona in tutto l'ambito del territorio provinciale, che
assumessero compiti di riabilitazione (reinserimento dei degenti della zona),
cura, prevenzione.
Progetto estremamente ambizioso
per quei tempi, e oggi ancora, dal momento che una unica équipe (multidisciplinare) dovrebbe coprire tutto l'arco dei
bisogni espressi da un «territorio» in tema di salute mentale.
Ma proprio dal parziale fallimento di quel progetto
derivano oggi una serie notevole di inconvenienti che
portano a rivendicare la revisione della 180 e nuovi progetti di «ritorno al
passato».
Mentre il settore significava,
e significa tuttora, ad esempio nella realtà francese che lo ha originato,
collegamento funzionale tra ospedale psichiatrico e territorio e continuità
terapeutica sui «casi» ad opera della stessa équipe, ma non necessariamente
filtro al ricovero psichiatrica (la sindrome della porta girevole ne é un
chiaro esempio!), i nuovi servizi previsti avrebbero dovuto essere realmente
alternativi.
Ma come? L'obiettivo era da un lato il lavoro di
reinserimento dei degenti «accompagnati» dagli operatori in seno alle loro
famiglie o eventualmente nei luoghi del loro recupero sociale e lavorativo,
dall'altro prevenirne le ricadute in modo da filtrare e impedire il loro
reingresso in ospedale psichiatrico (filtro alle riammissioni).
Altro obiettivo fondamentale era «inventare» a
livello territoriale forme nuove, valide, realmente alternative, di intervento e cura, in modo da impedire nuovi ricoveri, filtrare
possibilmente tutti i «nuovi casi».
Infine la prevenzione avrebbe dovuto essere avviata
come lavoro di sensibilizzazione del territorio, produzione di cultura nuova,
non emarginante, mediante contatti e collaborazione con altri
servizi, colle forze sociali e enti significativi del territorio.
Ma rapidamente si è dovuto constatare che mancavano i
tecnici disposti a farlo, venivano meno le iniziali motivazioni socio-politiche
nate in seno alla contestazione e fondate sulla crisi del ruolo e del potere
tradizionale dell'operatore.
In molte situazioni, per carenza
di formazione e capacità di mettere in crisi il «ruolo», l'uscita dal manicomio
ha esportato la logica asilare, repressiva anche se
non più custodialistica.
L'ipotesi che la strutturazione dei servizi territoriali,
contestuale alla de-strutturazione dell'ospedale
psichiatrico, avrebbe portato al suo definitivo superamento, già prima della
180, appariva vanificata.
La logica della selezione dei casi, della pratica
ambulatoriale come scelta dei casi («piccola psichiatria») si era ripresentata
nuovamente, sino a imporsi come dominante in non poche
situazioni, sostenuta spesso da impostazioni della scuola psicanalitica. Dunque la pratica territoriale, essenzialmente
ambulatoriale, era possibile con l'ospedale alle spalle e, perché no, anche mediante
il contenitore ancora agibile dei lungodegenti.
La maggior parte dei servizi psichiatrici di zona ha
abbandonato rapidamente il lavoro di deistituzionalizzazione,
e ha attuato collegamenti solo colle accettazioni dell'ospedale psichiatrico,
alle quali veniva generalmente delegato il momento
della crisi. La continuità terapeutica, cardine del «settore» veniva ambiguamente seguita, e da non tutte le équipes.
Intanto i poliambulatori
INAM continuavano a esercitare la neurologizzazione
dei casi di piccola psichiatria, con scarsi e nulli collegamenti funzionali
con i servizi psichiatrici: ne derivavano e ne derivano oggi ancora due
circuiti separati: il circuito équipe di zona - ospedale psichiatrico, e il
circuito neurologo della mutua - casa di cura neuropsichiatrica
convenzionata.
Anche il tipo di utenza dei
due tipi di servizi era significativamente differenziato, restando a carico dei
servizi psichiatrici essenzialmente i diseredati e gli ex-emarginati; a carico
della «mutua» i restanti casi.
L'attivazione dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura a seguito della 180, «a forza dipartimentale», ha
collegato più équipes allo stesso polo ospedaliero, e
quindi realizzato una logica dipartimentale di cogestione, di continuità
terapeutica se non effettiva, certamente possibile, contro le facili deleghe
dei casi precedenti, in ospedale psichiatrico.
Ma il risucchio verso l'ospedale generale, se ha
significato una riqualificazione per i medici, chiamati effettivamente ad
integrarsi col restante dell'ospedale, ha semplicemente finito per distogliere gli infermieri da impegni territoriali, vanificando
alcuni progetti di «strutture intermedie», alternative al ricovero ospedaliero
(comunità residenziali).
La riforma sanitaria, e in Piemonte il piano socio-sanitario regionale, pongono con forza l'accento sul
servizio di salute mentale, e la sua integrazione, come servizio di secondo
livello, col poliambulatorio SAUB (ex-INAM), nonché
la necessità di articolazione coi poli distrettuali, coi medici di base,
poiché a quel livello, non già sul polo ospedaliero, andrebbe esercitato il
primo, essenziale filtro al ricovero.
Ma la destrutturazione degli interventi realmente
territoriali, sostenuta anche da evidenti carenze di
organici, le carenze tecniche, la limitatezza della pratica solamente
medico-infermieristica, non sembrano al momento attuale consentire questo
filtro.
Né tanto meno la risposta alla urgenza
nei luoghi della chiamata, sul territorio, sembra possibile dato l'attuale
assetto degli ambulatori.
Al contrario, anche secondo la logica del risparmio,
del costo-beneficio, gli interventi concentrati sui poli D.E.A.
sembrano meno onerosi, comunque espletabili a organici
anche carenti.
Si assiste al momento attuale
a una lenta, ma continua smobilitazione della pratica territoriale: che poi ciò
avvenga mediante una saldatura tra ospedale e territorio, come già il settore
aveva teorizzato, o all'insegna della più completa dicotomia tra territorio e
ospedale e/o clinica privata, è questione di relativa importanza. La logica
della selezione dei casi, che ha prodotto il residuo manicomiale,
împerversa anche sul territorio: a ciascun utente la sua risposta tecnica, la
struttura adatta a contenere la sua devianza, la sua crisi, secondo un criterio
che le équipes territoriali non sono riuscite a
cambiare con sufficiente chiarezza.
Ciò non significa che gli operatori dei servizi
territoriali non abbiano lavorato, e molto, nel corso
degli anni. I dati forniti dalla Provincia di Torino, relativi a quasi tutte le
équipes del territorio provinciale, assommavano a
circa 6000 persone in carico ambulatoriale e/o domiciliare (5961) all'inizio
del 1980.
Ciò che è importante rilevare è il
fatto che la pratica territoriale, che ha prodotto in talune realtà
delle realizzazioni estremamente significative, non ha fruito prima della legge
180 di una attività di coordinamento e programmatoria
sufficiente, che omogeneizzasse gli schemi di intervento e stabilisse priorità,
obiettivi, se non il richiamo costante all'azione di filtro all'ospedale
psichiatrico.
Il pluralismo delle esperienze, e quindi lo «sperimentalismo»,
assolutamente necessario nella prima fase di impianto
dei servizi a livello territoriale, ha sconfinato spesso nel mancato coordinamento
e nella non gestione.
L'avvento della 180 ha posto l'accento sul momento
ospedaliero, sia pure dipartimentale dell'intervento, e sulla
urgenza, risolta sul D.E.A., ostacolando la
possibilità di mettere a punto un metodo di intervento realmente alternativo,
territoriale.
Ne è una prova la difficoltà colla quale è ancora oggi
possibile raccogliere dati sulla pratica di territorio, sulla organizzazione
dei servizi nelle USL, sulla utenza in carico. Un gruppo ha compiuto
recentemente una indagine paradigmatica dimostrando la
estrema disomogeneità degli interventi da una zona all'altra, la significativa
carenza di un sistema informativo efficiente nei servizi di salute mentale.
Eppure molti casi gravi, anche gravissimi, di «psichiatria
pesante» sono stati gestiti in modo alternativo nel territorio, nelle loro
abitazioni o presso comunità di zona, e risolti da operatori motivati a farlo,
in diverse zone. Ma questi fatti non hanno fatto, non
fanno notizia.
Fanno storia invece gli scandali, le situazioni di
dimissione selvaggia, l'abbandono di ex-degenti nelle
pensioni del centro storico torinese e altre situazioni abilmente
strumentalizzate per dimostrare che l'intervento territoriale è, se non impossibile,
estremamente difficile, e occorrono strutture ospedaliere e paraospedaliere
«protette».
Esistevano, prima della 180, 5 comunità territoriali
«residenziali» (24 ospiti). Secondo i dati forniti dalla Provincia erano
diventate 11 all'inizio dell'80, con un totale di 49
persone.
Le difficoltà burocratiche amministrative, la crisi
di rigetto da parte del territorio, i problemi di gestione (e la necessità per
gli operatori di adattare orario e organizzazione del
lavoro alle esigenze degli ospiti) hanno ostacolato e continuano ad
ostacolare l'attivazione di altre comunità.
La teorizzazione più
recente è quella che prevede comunità dipartimentali, cogestite
da più équipes. Il carattere para-ospedaliero, che
postula turnazioni 24 ore su 24, il tipo di degenti,
filtrati in parte dal S.P.D.C. ospedaliero, ne
vanifica gli aspetti territoriali, residenziali, e di autogestione, che
dovrebbero caratterizzare queste comunità.
D'altra parte, una costante riduzione degli organici
delle équipes rischia di far contrarre gli orari di apertura ambulatoriale, e di indurre gli operatori
«superstiti» a diminuire sempre più le prestazioni, a selezionare i casi e le
richieste, a delegare nuovamente, come ai tempi dell'ospedale psichiatrico, le
situazioni a momenti ospedalieri e para-ospedalieri protetti, a scaricare
l'urgenza sui poli ospedalieri.
Questa la ragione, crediamo, per
cui rinascono progetti di legge che sembrano ricordarsi del territorio
soltanto perché un medico «psichiatra» deve esserci per avallare i trattamenti
sanitari obbligatori.
Il settore privato
Le case di cura private neuropsichiatri
che nella Regione Piemonte sono sette, per un totale
di 807 posti letto, di cui 625 convenzionati.
A questi sono da aggiungere i 400 letti dell'istituto
Fatebenefratelli, para-ospedaliero. Questi dati
dimostrano, almeno nella logica del posto-letto, la importanza
di questo settore. Va ricordato che, in base alle disposizioni regionali,
queste strutture non accettano l'urgenza né i trattamenti sanitari
obbligatori, che devono invece affluire negli ospedali generali sede di D.E.A. e di S.P.D.C..
Il tasso di ospedalizzazione
è notevole, se è vero come è vero che l'indice di occupazione dei posti letto
nel settore privato è molto alto e i tempi di attesa sono talvolta di alcune
settimane.
L'utenza delle case di cura private è inviata, per il
ricovero, generalmente dal medico di base o dal neurologo del poliambulatorio,
oppure secondo un circuito diretto: specialista privato - casa di cura, facilitato
dal fatto che molti specialisti operano all'interno delle case di cura stesse.
L'azione di filtro al settore privato è stata un
obiettivo del tutto marginale per i servizi pubblici di zona, pressati a
risolvere gravi problemi di emarginazione. Ma proprio
nel momento in cui lo stesso piano socio-sanitario regionale assegna alle équipes di salute mentale compiti di integrazione,
la logica dei due tipi di utenza, come pure quella del circuito specialista
privato-ricovero convenzionato, dovrebbero essere riviste.
Non c'è dubbio che il cittadino ha il diritto alla
«libera scelta» del medico e del luogo di cura. Ma proprio perché tale scelta
possa avvenire liberamente, deve essergli comunque
garantito il diritto di fruire a livello pubblico, da parte del servizio di
salute mentale territoriale, di un arco di prestazioni il più completo
possibile, e soprattutto la cosiddetta «continuità terapeutica» ovunque si
manifesti il suo disagio. Solo a partire da ciò
sceglierà liberamente luogo e tipo di cura, non già dovendo partire
coattivamente in base alla qualità del servizio pubblico o alla insufficienza
dell'intervento pubblico che gli viene offerto!
L'università
Il rapporto tra università e territorio, per quanto
concerne il problema psichiatrico, è rimasto ambiguo
sino ad oggi.
Non entriamo in merito alla questione della formazione
professionale dei medici specializzandi in
«psichiatria», che merita una analisi approfondita a
parte. Ma non si può dimenticare le difficoltà oggettive (per carenza di esperti), ma anche metodologiche, nella formazione per la pratica territoriale nel
servizio pubblico. Pratica che esige una revisione
critica delle scuole, dei modelli, delle tecniche «classiche» e l'apporto attivo,
«sul campo» delle esperienze territoriali,
Non c'è dubbio che un collegamento università-territorio
nel senso della gestione da parte del centro universitario di uno o più servizi
di salute mentale di U.S.L. costituirebbe
l'indispensabile aggancio per la formazione teorico-pratica.
Ma come è urgente una
verifica della operatività dei servizi di salute mentale territoriale (e qui
il contributo critico-metodologico della università appare indispensabile),
contestualmente si impone una revisione dei programmi di formazione
universitaria specialistica.
Dovrebbe essere previsto il tirocinio medico nei
servizi territoriali, stages di operatori
territoriali nella sede della clinica universitaria.
Analogamente per tutti i servizi pubblici è poi
importante verificare i circuiti di ricovero della clinica universitaria, verso
gli SPDC, le case di cura private, gli istituti.
I diritti degli «utenti»
Ciò che ha caratterizzato il movimento della
contestazione, e quindi la partecipazione di cittadini, lavoratori (il
movimento aveva già scatenato la lotta per la difesa della salute psico-fisica
nei luoghi di lavoro), associazioni volontarie, operatori, è stata la scoperta
o riscoperta dei diritti fondamentali degli emarginati, cittadini come tutti. Ma le conseguenze di tale scoperta cozzavano contro la logica
della politica costo-beneficio di quei tempi, come del resto cozzano ancora
oggi. Inoltre disturbavano profondamente la logica operativa
delle corporazioni mediche e infermieristiche.
Ciò spiega perché la maggior parte degli operatori
si sia rapidamente defilata da certi impegni di lotta antiistituzionale,
e nuovamente rifugiata nello «specifico», nella
«professionalità», nella «tecnica», squalificando e tacciando di
desueto spontaneismo chi cercava di portare avanti i «diritti» degli assistiti.
Tranne poche eccezioni, la lotta per i diritti degli ammalati («di mente») è
stata portata avanti dalla Associazione per la lotta
contro le malattie mentali (e commissione di tutela) e dall'Unione per la
lotta contro l'emarginazione sociale. Più recentemente il Tribunale per la
difesa dei diritti del malato ripropone il problema.
D'altro lato il nascere di associazioni
di parenti, in seguito anche a esperienze molto traumatiche di disapplicazione della legge 180, testimonia che questo
tema, per quanto affermato con chiarezza nella stessa legge 180, non ha trovato
pratica applicazione a livello degli operatori, se non in quella fetta esigua
che si riconosce in «psichiatria democratica».
La rivoluzione culturale, che imponeva la revisione estremamente critica del ruolo e del potere del «tecnico»
sul finire degli anni '60 in rapporto al riconoscimento dei diritti del «malato»,
prima «oggetto», è dunque fallita. La visione medica, quella psicanalitica, o
più genericamente psicoterapeutica, hanno rapidamente finito per prevalere,
ricreando quella «distanza» necessaria per l'agire «tecnico», non più
inquinato dai tumulti di piazza e dalla confusione delle assemblee di operatori-utenti. Depurata dagli stolidi coinvolgimenti
emotivi, la soluzione tecnica si staglia nuovamente nitida, chiara.
I diritti degli utenti, le loro incredibili
difficoltà «storiche» di vita e di lavoro sono lontane, mentre il tecnico,
magari del servizio di salute mentale si accinge a lavorare soprattutto al
riparo di strutture ospedaliere o paraospedaliere, manipolando il cambiamento
in termini di essenziale riadattamento al sociale, a
quel sociale che ha espulso le contraddizioni.
Ma esiste un metodo, una possibilità diversa, che
senza nulla togliere all'impegno professionale e «tecnico»
degli operatori di salute mentale, consenta contestualmente di farsi carico
della lotta per i diritti degli «utenti»? Riteniamo di
sì. L'esperienza di Settimo Torinese - tra altre - lo dimostra.
Le esperienze nella USL
28
Il gruppo di operatori
psichiatrici ha perseguito dal 1971, sempre più sistematicamente, il disegno
di una completa territorializzazione degli interventi
in tema di salute mentale. Correlativamente si è
imposto il rifiuto di delegare all'ospedale i casi gravi, e la tendenza di
dare risposte a tutto l'arco dei bisogni che si presentavano, senza discriminazioni preliminari o meccanismi selettivi.
Siamo stati per questo squalificati, tacciati dagli
psicanalisti di «onnipotenza», da altri di «maniacalità».
Queste critiche vanno valutate nei giusti termini,
come del resto ogni altra critica più costruttiva. A livello di autocritica, gli operatori del servizio di salute
mentale della U.S.L. 28 sono ben consapevoli del limite della loro operatività,
ridotta nelle valutazioni di molti, al rango di esperienza «esemplare», non
riproducibile altrove: ciò che si sforzano di valutare al momento attuale, di
attacco sistematico alle riforme sanitaria e psichiatrica, è se è veramente da
considerarsi fallito il loro ruolo di «avanguardia» come esperienza
alternativa territoriale, dal momento che quasi ovunque rinascono progetti
ospedalieri, paramanicomiali, paraospedalieri, e solo in poche USL viene
ancora difesa e rivendicata la pratica essenzialmente territoriale.
Ma tale verifica deve essere portata avanti tra
operatori dei servizi, colla partecipazione delle forze sociali e di
rappresentanti degli utenti, nelle forme opportune.
Come primo contributo si espongono qui di seguito gli
aspetti principali della organizzazione del lavoro
come si è determinata nel corso degli anni (a partire dal '71) secondo gli
obiettivi che il gruppo si è dato anche in base alle indicazioni generali e
alla situazione globale dei servizi, prima provinciali e poi di USL.
Obiettivo filtro
Nei primi anni ha significato filtro alle riammissioni
in ospedale psichiatrico. Successivamente filtro a
tutti i primi ricoveri (le ammissioni) sino alla legge 180. In seguito si è
tentato l'uso corretto degli spazi di degenza nei S.P.D.C., ma si è dovuto constatare che la situazione «manicomiale»
in cui tali spazi si erano configurati non lo consentiva. Dunque è stato
assunto, a partire dal '79, l'obiettivo di filtro
anche alle case di cura neropsichiatriche. Quindi in
sintesi, filtro a qualsiasi tipo di ospedalizzazione,
sia pubblica che privata, tranne i casi che beneficiano dei servizi medici
dell'ospedale. In tal senso ci si è opposti alla realizzazione
di un nuovo «repartino» a Chivasso,
che avrebbe finito col costituire, in spazi particolarmente angusti e inagibili,
un vero «bunker» della psichiatria repressiva e custodialistica.
Parallelamente ci si è apposti ai Trattamenti
sanitari obbligatori (TSO), attuando, se del caso, alcuni TSO territoriali, di
breve durata, in alternativa al TSO in ambiente ospedaliero (fatto consentito dalla legge 180).
Obiettivo: costruzione risposta
alternativa «territoriale»
È stata questa l'impresa più ardua, ricca come era e rimane di problemi «tecnici» relativi alla «cura»
e all'intervento, impresa ovviamente non ancora ultimata. La irrinunciabile
impostazione iniziale, fondata sulla esperienza di «comunità terapeutica» al
reparto 12 di Collegno, e quindi contraria a ogni
oggettivazione dei «malati» ed a ogni loro esclusione dal processo terapeutico,
si è concretizzata in un metodo basato sul «collettivo curante» e sulla «gestione
sociale» (cioè allargata alla rete sociale dei soggetti) degli «utenti».
Il processo di formazione degli operatori (permanente)
si compie spesso «a utente incluso», sul campo di
lavoro.
Gli stessi utenti hanno definito, in una riunione con
operatori, questo metodo come la «comunità terapeutica diffusa», territoriale.
La risposta territoriale alla riabilitazione
Dopo una prima fase di dimissioni e reinserimenti
nelle famiglie, ci si è posti il drammatico problema del «residuo manicomiale»
(3). Una parte consistente di questo residuo (per quanto concerne la USL 28) scaricata provocatoriamente sull'équipe del «manicomio»
che la rigettava, è stata accolta nella comunità residenziale di via Amendola (9 donne), attivata nel '76. Questo
residuo si è riabilitato nel territorio, e vive oggi liberamente,
senza alcuna misura «protettiva». Sono stati necessari interventi anche
drammatici in occasione di crisi (legate proprio al ricupero di storia e di consapevolezza). Un caso ha dovuto essere
allontanato e istituzionalizzato, e ciò per vari motivi: fondamentale la carenza di organico che non ha consentito la protezione di
quella crisi prolungata.
Obiettivo: risposta territoriale alla urgenza e alla crisi
Fondato sulla pratica ambulatoriale e sull'orario
ambulatoriale il più ampio possibile (12 ore giornaliere), ma soprattutto sulla pratica domiciliare, per cogliere la crisi dove
sorge, in seno alle famiglie e gestirla il più possibile colla collaborazione
dei parenti, questo obiettivo è oggi raggiunto in molte situazioni.
L'intervento «nel contesto»
e «sul contesto» appare più problematico, ma, se sostenuto dal collettivo
curante, non solo possibile, ma concretamente realizzabile, con validi risultati.
Certo non ha nulla della «purezza» metodologica degli interventi più sofisticati in ambiente clinico-ospedaliero
o negli studi psicanalitici privati, che vengono di regola espletati in una
situazione asettica, «in vitro», molto lontana dalle contraddizioni sociali
del «territorio». Ma ciò che perde in «purezza», il metodo acquista in dialetticità ed efficacia, ed anche in «scientificità», dal
momento che solo il contesto, conosciuto ed
esplorato, permette di collocare esattamente l'utente «designato» e le sue
problematiche, come in un puzzle.
Quando non è possibile la cura in famiglia, allora e
solo allora viene usata la comunità terapeutica,
attivata alla fine del '79.
Qui le crisi, anche gravi, sono gestite il più liberamente
possibile. Gli operatori contrattano liberamente il loro rapporto terapeutico,
le stesse cure mediche. Il loro orario («turnazioni sabato, domenicali e
notturne») cerca di rapportarsi in modo flessibile ai bisogni, non risponde ad
una logica protezionistica, ma a una logica di intervento
«se necessario». Le implicazioni, anche in termini costo-beneficio, sono
evidenti.
Obiettivo: la consulenza e la
cogestione di casi con altri operatori e servizi
È questo uno degli obiettivi
più recenti, a partire soprattutto dalla attivazione della USL e della sua
rete di servizi.
Si cerca di perfezionare la presenza del servizio
nella sede del poliambulatorio SAUB, e a livello dei medici e operatori di
base.
Ma, al momento attuale, date
le carenze di organico, manca il tempo per perfezionare tale tipo di
intervento nella misura che appare necessaria. Non soltanto il risucchio di
tempo per la gestione del momento ospedaliero (S.P.D.C. dipartimentale) e della urgenza a livello
territoriale o dipartimentale, ma anche significative carenze e ritardi
«culturali» e di formazione a tutti i livelli (servizio di salute mentale ma
anche operatori di base) ostacolano il processo di «integrazione».
Obiettivo: difesa dei diritti degli
«utenti»
L'équipe del servizio di salute mentale dell'USL 28 ha sempre cercato di difendere i diritti degli
utenti. Ciò ha certamente impedito l'imbocco di vie tecnocratiche, o l'adozione
di metodiche repressive e autoritarie (neurolettizzazione intensa, polizia psichiatrica, ecc.).
Ma è anche l'espressione di una crisi permanente all'interno del gruppo,
perché continuamente vengono da terzi riproposti
mandati di controllo (oggi da intendersi come medicalizzazione
e ospedalizzazione nella maggioranza dei casi).
La difesa dei diritti degli utenti costringe gli operatori
a orari flessibili e impedisce spesso la « chiusura
dello sportello » quando la giornata è finita.
Rende arduo, problematico
l'uso degli psicofarmaci, quando questo significa sopprimere problemi che
vanno gestiti diversamente, talora con enorme dispendio di tempo e energie.
Ostacola il ricorso a deleghe istituzionali negli
ospedali o cliniche, e costringe a faticose contrattazioni quando la «scelta»
degli utenti e dei parenti sembra già fatta, orientata come è
stata dal «consumismo» più bieco, e dalle manipolazioni più evidenti.
Il tentativo di restituire all'utente il potere di
«libera scelta» non significa necessariamente la presa in carico da parte del
servizio, ma l'uso più corretto delle strutture e dei servizi (pubblici o
privati) che ha davanti.
Spesso genera atteggiamenti di rifiuto, che, quando
non siano imputabili a errori di approccio degli
operatori stessi, sono certamente imputabili a pregiudizi ancora diffusi.
In questo senso il grande obiettivo di tutti i
servizi: la prevenzione, è ancora da porsi.
Il primo, grande obiettivo, era la distruzione del
manicomio. Nel corso degli anni gli aggettivi si sono mitigati: smantellamento,
liberalizzazione, superamento, ri-strutturazione,
de-strutturazione, superamento graduale, testimoniano con ciò la difficoltà di
un tale processo, le resistenze intra ed
extra-manicomiali, il valore pregnante della sua logica, tuttora diffusa.
Ci pare di aver dimostrato, pur tra errori e
incertezze, che una alternativa è possibile nel
territorio.
Forse il prezzo è troppo elevato, in termini di
costo-beneficio? No di certo. Ma se i cittadini-utenti non ripropongono
la difesa dei loro diritti, non sensibilizzano gli operatori dei vari servizi,
le avanguardie superstiti saranno ben presto travolte dalle nuove leggi ospedalocentriche, e un nuovo ordine, più moderno e
razionale ma sotteso alla logica manicomiale di sempre, sarà instaurato. Il
manicomio, travasato nelle strutture del territorio, sarà allora occulto, ma diffuso.
Dati relativi all'operatività
del 2° semestre 1981
- Utenti seguiti n. 313
-
Ricoverati nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura
volontari » 4
obbligatori »
2
-
Presentatisi con impegnativa del medico curante
per il ricovero in casa di cura privata » 41
di cui:
• ricoverati in casa di cura » 19
• filtrati dall'équipe psichiatrica » 22
- Crisi
risolte in comunità terapeutica n. 42
di cui:
• con ospitalità 24 ore su 24 » 22
• con ospitalità solo diurna » 20
Utenti
dell'USL 28 ricoverati in ospedale psichiatrico
- nel 1971 115
- nel 1974 62
- nel 1976 40
- nel 1982 17
(1) Coordinatore sanitario dell'USL 28
della Regione Piemonte e responsabile del servizio di salute mentale.
(2) V. l'accordo Sindacati-Provincia di
Torino sull'assistenza psichiatrica di zona in Prospettive assistenziali, n. 23 e l'articolo dell'Equipe
psichiatrica di Settimo Torinese «Ricerca sull'emarginazione coatta in
manicomio» in Prospettive assistenziali, n. 42.
(3) V.E. Pascal,
Comunità alloggio per ex ricoverate in manicomio. Dal progetto alla
realizzazione nel comune di Settimo Torinese, in Prospettive assistenziali, n. 41.
www.fondazionepromozionesociale.it