Prospettive assistenziali, n. 58, aprile - giugno 1982

 

 

LA VERTENZA SULLE RIFORME: IL NODO ISTITUZIONALE, LA RIFORMA ASSISTENZIALE, LA RIFORMA PSICHIATRICA (1)

 

 

VALUTAZIONI GENERALI

 

Il gruppo di lavoro nazionale «Autonomie lo­cali e servizi sociali» della Lega per le autono­mie ed i poteri locali, si è riunito per esaminare la situazione dell'attuazione delle riforme strut­turali anticipate dal DPR 616 alla luce dei rischi emersi nella riunione di Firenze del novembre scorso, ed evidenziati nel documento pubblicato all'interno del volume «Controriforma da bat­tere», edito dalle Edizioni delle Autonomie (2).

La riunione ha fatto emergere un profondo ul­teriore allarme rispetto alla situazione registrata al termine del 1981 per il procedere dell'attacco controriformatore già denunciato.

Tale attacco ha segnato ulteriori punti ed in particolare:

- l'ormai cronico ritardo nel varo del Piano sa­nitario nazionale, indice evidente della indisponi­bilità da parte dello Stato alla pianificazione inte­sa come elemento di scelta e capacità di cam­biamento. Il gruppo ha evidenziato un giudizio largamente negativo nei confronti della legge fi­nanziaria da cui traspare con estrema chiarezza come il rapporto fra il piano e le risorse dispo­nibili sia o sarà spostato nella direzione delle ri­sorse, vincolando ad esse ogni scelta di piano; ciò non significa affermare la necessità di pre­scindere dalla quantità di risorse disponibili per procedere nella pianificazione, bensì sottolineare l'inaccettabilità che la pianificazione sia effettua­ta da chi determina le risorse finanziarie dispo­nibili invece che dai soggetti preposti;

- il tentativo di rimettere in discussione ri­forme varate (ed in alcune realtà locali attuate) come quelle relative alla legge 180 (riforma psi­chiatrica) confermata dalla legge 833 (riforma sa­nitaria) con proposte involutive;

- la cancellazione o il tentativo di cancella­zione dello stesso DPR 616 attuato attraverso:

a) l'attacco centralistico dello Stato contro il sistema delle autonomie riducendo ulteriormen­te risorse finanziarie ai Comuni ed alle Unità sa­nitarie locali (mentre si trovano 100 miliardi per ricostruire i manicomi) e imponendo a queste ul­time sistemi di controllo inaccettabili (ad esem­pio la questione dei revisori dei conti delle USL);

b) l'approntamento da parte delle Commissio­ni Affari interni e Affari costituzionali della Ca­mera di un testo di legge quadro di riforma dell'assistenza che emerge come fortemente invo­lutivo e paralizzante rispetto allo sviluppo dei servizi sociali e ad ogni tentativo di loro integra­zione con quelli sanitari, penalizzando il settore pubblico e rilanciando la privatizzazione dei ser­vizi;

c) la messa in atto da parte dell'Esecutivo (ed in particolare del Ministero della sanità) di prov­vedimenti tendenti ad impedire (o a fortemente limitare) l'integrazione fra i suddetti servizi.

Ciò ha provocato l'arresto di quel processo ri­formatore di cui il 616 aveva posto concretamen­te le premesse e che in talune realtà locali ha visto l'esprimersi di un nuovo modo di concepire il ruolo dell'Ente locale mentre in altre non è sta­to compiutamente compreso ed in altre ancora è stato completamente disatteso.

Mentre i bisogni dei cittadini aumentano e la domanda sale, sia per gli effetti della crisi socio­economica sia per il tipo stesso di evoluzione del­la nostra società, proprio in tale situazione le risposte dei servizi - da sempre afflitte da limi­ti ben noti - si fanno ancor più confuse, setto­riali, incapaci comunque di incidere concreta­mente nella realtà. In ampie aree persiste una assenza completa e dove cominciano a nascere dei servizi, essi portano ancor più di un tempo il marchio della categorizzazione e del settoriali­smo (v. centri per tossicodipendenti, anziani o handicappati).

Siamo ben lontani, quindi, dal periodo imme­diatamente successivo al DPR 616, dalla vivezza e ricchezza di impostazioni e di iniziative che ca­ratterizza l'azione di alcune Regioni e di molti Enti locali (avvio di servizi di base, di distretto, deistituzionalizzazione, integrazione tra sociale e altre realtà, piani socio-sanitari, ecc.).

Proprio questo arresto nel processo di svilup­po dei servizi sociali e la mancata integrazione degli stessi con quelli sanitari, unito alla ridu­zione delle risorse disponibili ed alla limitazione del ruolo delle autonomie locali, produce un ef­fetto ulteriormente squilibrante nel Paese allar­gando la forbice fra aree forti ed aree deboli, colpendo quindi particolarmente quelle zone ove maggiore si manifesta la incapacità di interven­to dello Stato e delle strutture pubbliche in ge­nerale.

Ma non soltanto tale forbice di condizioni si allarga fra zona e zona, ma all'interno di ciascu­na realtà locale tende ad ampliarsi il divario tra gruppi sociali a sfavore di quelli più deboli ed emarginati.

Non è a caso, infatti, che si tenti, attraverso interventi come la riapertura dei manicomi o il recupero di forme meramente assistenziali come i sussidi in denaro, di respingere le forme alter­native di servizio sociale, incrementando una po­litica di controllo sociale.

Il gruppo di lavoro ha quindi ritenuto di punta­re la propria attenzione su questo settore che nel momento presente pare il punto più debole dell'intero fronte su cui si svolge l'attacco contro­riformatore. Tale debolezza sembra dovuta ad un ritardo complessivo delle forze progressiste nel comprendere il ruolo fondamentale dei servi­zi sociali che può ridare vigore al sistema delle autonomie con il conseguente consolidamento del tessuto democratico, facendo effettivamente diventare il Comune e le sue articolazioni un sog­getto attivo nella politica sociale ed economica, così come lo stesso DPR 616 aveva prefigurato.

Nella gran parte dell'opinione corrente di am­ministratori ed operatori che svolgono la loro attività nel campo socio-assistenziale è invalso l'uso di considerare ineluttabile la forzata immo­bilità della situazione esistente stante l'assenza di una legge quadro di riforma dell'assistenza.

Di fronte alla complessa problematica delle IPAB, ad esempio, la recente sentenza della Cor­te costituzionale è stata considerata da molti come la cessazione delle norme particolari con­tenute nel DPR 616 ed il forzato blocco di ogni attività di riordino.

Siccome poi a livello parlamentare il nodo delle IPAB è ancora lungi dall'essere sciolto, la attesa è divenuta un alibi generalizzato giungen­do al punto da fare, di fatto, ignorare tutti gli strumenti che da subito avrebbero consentito e consentirebbero agli Enti locali di operare.

Tale atteggiamento di attesa e rinuncia ha pro­vocato, in taluni casi, una «perdita del treno» determinata dalla eliminazione di alcune norme legislative che erano effettivo strumento di tra­sformazione.

Dal varo del 616 in poi, in talune realtà locali, si è iniziato un lavoro di riordino del sistema as­sistenziale. In alcune Regioni (troppo poche per la verità) si è iniziato, ad esempio, a censire ed a sopprimere alcune IPAB sulla base degli stru­menti legislativi esistenti.

Tali atti avevano provocato il varo di alcune norme che di fatto favorivano l'azione di riordi­no: si vedano ad esempio le norme contenute nella legge finanziaria per l'anno 1981 che con­sentivano di accollare allo Stato i debiti pregres­si di quelle IPAB disciolte e trasferite ai Comuni. La mancata utilizzazione di questa norma ha favorito che la medesima fosse eliminata dalla legge finanziaria del 1982 con una conseguente difficoltà ulteriore a procedere sulla strada del riordino. La presenza di tutte le difficoltà prima elencate (assenza delle leggi quadro di riforma assistenziale e di riordino del sistema delle au­tonomie e della finanza locale; assenza di piani­ficazione regionale, sentenza della Corte costitu­zionale, ecc.) non giustificano da parte di Regioni e di Enti locali, inerzie e passività.

Tutta la normativa vigente consente ai Comu­ni, ad esempio, di procedere con atti di riordino. Portiamo alcuni esempi di quanto affermato:

1) è possibile procedere con l'integrazione a livello di base dei servizi sociali con quelli sani­tari utilizzando la Associazione intercomunale, istituendo i distretti socio-sanitari con una pre­senza attiva e diretta dei Consigli comunali nell'opera di programmazione e gestione dei ser­vizi (art. 25 DPR 616);

2) è possibile procedere negli scioglimenti, ac­corpamenti e trasformazioni delle IPAB utilizzan­do le norme contenute nella legge del 1890 ed è indispensabile procedere ad un loro censimento (solo pochissime Regioni hanno a ciò provve­duto);

3) è possibile per i Comuni e le loro associa­zioni procedere nei controlli delle IPAB e dei vari istituti assistenziali per minori ed anziani utiliz­zando le stesse normative;

4) è possibile attuare servizi alternativi sulla base di leggi vigenti (ad esempio anche quella istitutiva dell'ONMI che prevedeva il ricovero in istituto del minore solo allorquando risultava im­possibile l'affidamento);

5) è possibile sviluppare iniziative di prote­zione dell'infanzia anche in collaborazione con i Tribunali per i minorenni, nonché iniziative di prevenzione e di recupero nel campo della de­linquenza minorile ed adulta sulla base dell'art. 23 del DPR 616 nonché della legge 354/75 di ri­forma penitenziaria;

6) è possibile concretare (e molti sono gli esempi positivi) la deistituzionalizzazione di mi­nori, anziani, handicappati, malati di mente con la istituzione di servizi alternativi (inserimenti in famiglia, gruppi o comunità; assistenza domici­liare).

Tutto ciò può essere (anche se solo parzialmen­te) realizzato pur con le attuali gravi difficoltà economiche in cui versa la finanza locale (ed a maggior ragione si sarebbe potuto fare in anni passati quando la situazione finanziaria era mi­gliore). Occorre però che l'Ente locale sappia concretamente divenire quel soggetto socio-eco­nomico attivo, cui si accennava in precedenza utilizzando e riconvertendo tutte le risorse dispo­nibili, sia in fatto di strutture che di personale (vedi enti disciolti o personale in esuberanza in alcuni settori).

È importante l'utilizzo di ogni forma di volon­tariato, anche di quello personale o del gruppo famiglia.

L'Ente locale può, coniugando compiutamente ed intelligentemente l'intero capo III del DPR 616 con gli altri dello stesso decreto nonché con la vigente legislazione nazionale e regionale su at­tività economiche particolari (agricoltura, artigia­nato, cooperazione), svolgere un ruolo attivo mo­bilitando quindi risorse ora inespresse, mortifi­cate o non integrate nell'ambito territoriale.

Il gruppo ha quindi ritenuto necessario affron­tare nel dettaglio tre punti che paiono necessari di approfondimento per segnalare i pericoli emer­genti e per superare l'attuale situazione.

 

NODO ISTITUZIONALE

 

I servizi di assistenza sociale, quanto agli am­biti territoriali così come per gli organi di gestio­ne, superando ogni forma di falso autonomismo (come avverrebbe nel caso della gestione dei singoli servizi da parte dei singoli Comuni) tro­vano il loro necessario riferimento nell'Associa­zione dei Comuni, favorendo anche la costruzio­ne progressiva di un potere locale fondato sulla riaggregazione funzionale di tutti i servizi di base (sanità, assistenza, cultura, formazione profes­sionale, sport, ecc.) per la programmazione e la riqualificazione degli interventi, attraverso l'ot­timizzazione del rapporto costi-benefici.

È da respingere ogni atto che voglia provocare l'evoluzione dell'Associazione intercomunale in un ente funzionale di settore controllato dalla Regione e dallo Stato, eliminandone i legami con l'ente titolare delle funzioni che è, e resta il Co­mune.

Va in questo senso l'art. 8 della legge finanzia­ria 1982 che, con norme di cui è da verificare la costituzionalità, introduce procedimenti di con­trollo e di ispezione sull'attività sanitaria i quali richiamano alla memoria gli strumenti con cui nei decenni passati si sono tradizionalmente concul­cati i poteri locali.

La sottrazione alle sezioni decentrate del con­trollo di legittimità sugli atti in materia sanita­ria, così come l'inserimento nel CO.RE.CO. di un rappresentante del Ministero del tesoro, l'i­stituzione di un collegio di tre revisori dei con­ti di cui uno nominato dal Ministro del tesoro ed uno nominato dalla Regione, l'imposizione alla Regione di costituire un servizio di ispettorato

sulle Unità sanitarie locali, rappresentano infatti sia una riduzione dell'autonomia locale, sia l'e­levamento di ulteriori barriere tra il Comune e le Unità sanitarie locali.

Sia pure in diversa direzione, passi indietro si muovono anche attraverso un rilancio del ruolo della Provincia che, travalicando l'impostazione accolta dal DPR 616/77 e dalla Legge 833/78, spinge al conferimento di compiti gestionali vec­chi o nuovi nel settore dei servizi sociali. Ed a ben vedere anche il testo di riforma dell'assi­stenza nel testo unificato fino ad ora predisposto nelle competenti commissioni della Camera dei deputati, nel menzionare all'art. 8 «il programma provinciale di localizzazione dei presidi socio­assistenziali», introduce per la programmazione un ulteriore ambito territoriale con il rischio che l'autonomo esercizio di questa competenza da parte della Provincia limiti fortemente le capa­cità programmatorie dell'Associazione dei Co­muni e crei comunque i presupposti per l'insor­gere di dannosi conflitti di competenza.

L'Associazione intercomunale non rappresenta, d'altro canto, solo l'ambito territoriale per la pro­grammazione, ma anche la sede adeguata per la gestione globale dei servizi sanitari ed assisten­ziali riformati, la quale non può riprodurre le pre­esistenti forme di intervento settoriale.

Si devono infatti attuare modalità organizzati­ve dei servizi attraverso le quali sia possibile dare una risposta globale ai bisogni di assistenza così come essi emergono dalla comunità locale.

Da qui deriva la necessità dell'integrazione dei servizi che si deve realizzare essenzialmente nel distretto, livello in cui il cittadino deve trovare il principale riferimento per i bisogni primari e per tutte le situazioni di emergenza.

 

LA RIFORMA ASSISTENZIALE

 

Il gruppo di lavoro ha ritenuto opportuno in primo luogo riflettere sul significato e sul ruolo che devono assumere i servizi sociali.

Questa riflessione ha sostanzialmente ripercor­so le tappe dell'elaborazione del patrimonio cul­turale largamente acquisito da vasti settori di amministratori e di operatori.

Si è sottolineato che non si deve ricercare un ruolo dei servizi sociali e di quelli assistenziali solo in funzione di quello delle strutture sani­tarie, ma che è necessario approfondire gli aspet­ti specifici che si pongono nel settore sociale e in quello assistenziale.

È necessario distinguere tra servizi sociali e interventi per l'assistenza. Per i servizi sociali si intendono quei servizi che sono destinati a tutta la popolazione o devono esserlo. Ad esem­pio riguardano tutta la popolazione i servizi di trasporto, per il tempo libero, i bisogni di socialità, di cultura, di istruzione, di informazione, i pro­blemi della casa e quelli della salute.

Lo sviluppo dei servizi sociali riguarda la qua­lità della vita di tutti i cittadini, la concezione della società che si vuole costruire, la vivibilità di vaste aree del paese, di intere città.

Molte situazioni di emarginazione possono es­sere risolte o ridimensionate se i servizi sociali, come sopra definiti, sono impostati ed organizzati in modo da dare anche risposte specifiche e so­cializzanti ai soggetti con minore autonomia o con problemi particolari.

Ad esempio l'eliminazione delle barriere archi­tettoniche dagli edifici pubblici, dalle case di abi­tazione, dai mezzi di trasporto non solo ne con­sentirebbe l'uso da parte delle persone handi­cappate, ma eliminerebbe anche pericoli ed osta­coli ad anziani e bambini, donne incinte, ecc.

Oggi invece, la mancanza di una rete di servi­zi sociali e la privatizzazione delle risposte, co­stringono numerosi cittadini nei canali della isti­tuzionalizzazione e della medicalizzazione.

Restano tuttavia una serie di bisogni non ri­solvibili dai servizi sociali, come sopra definiti, anche e spesso a causa della loro inadeguatezza quantitativa e qualitativa. Le pensioni insufficien­ti, la mancanza di abitazioni idonee, l'espulsione degli anziani malati cronici non autosufficienti da­gli ospedali, le carenze della riabilitazione, ecc. sono alcune delle cause che provocano le richie­ste di prestazioni assistenziali.

Obiettivo politico e sociale primario non deve essere lo sviluppo delle esigenze assistenziali, il che significherebbe l'aumento della fascia del­la popolazione emarginata. Obiettivi primari re­stano le attività ed i servizi che incentivano l'au­tonomia delle persone e dei nuclei sociali. Ne consegue che modalità corretta di funzionamen­to dei servizi assistenziali è una interazione con­tinua fra prestazioni immediate di competenza (assistenza economica, aiuto domiciliare, affida­mento, ecc.) e prestazioni dei servizi sociali in­teressati (casa, sanità, scuola, cultura, sport, ecc.) dirette ad eliminare o ridurre le cause che hanno determinato il bisogno assistenziale e le situazioni di emarginazione.

Ne discende quindi una organizzazione dei ser­vizi assistenziali legata al territorio e integrata nella maggior misura possibile con i servizi so­ciali.

La necessità, per non lasciare bisogni dramma­tici senza risposta, di partire oggi da interventi settoriali a carattere assistenziale va realistica­mente assunta, laddove necessario, con la chia­ra finalità di riorganizzare i servizi sulla base del principio del carattere globale degli interventi e, in particolare, della attuazione dei distretti socio­sanitari di base senza lasciare vuoti d'assisten­za e senza che i bisogni specifici d'assistenza debbono essere un alibi per mantenere il vec­chio settorialismo assistenziale.

In base a quanto evidenziato nella prima par­te del documento le Regioni ed i Comuni singoli o associati avrebbero potuto, e per molti versi dovuto, costruire gran parte della riforma della assistenza semplicemente applicando le disposi­zioni di legge vigenti.

Tale processo sarebbe stato ulteriormente ac­celerato rendendo operante il DPR 24 luglio 1977 n. 616.

In ogni caso i punti nodali che la legge di ri­forma dovrebbe sciogliere sono i seguenti:

1) trasferimento delle funzioni socio-assisten­ziali dal Ministero dell'interno al Ministero della sanità (che dovrebbe assumere una nuova deno­minazione) in modo da creare i presupposti, per quanto riguarda il livello nazionale, affinché l'at­tività legislativa e di coordinamento favorisca l'integrazione dei servizi sanitari e socio-assi­stenziali;

2) sottrazione delle residue funzioni gestionali attribuite allo Stato dal DPR 616 (interventi socio­assistenziali ad appartenenti alle Forze armate, all'Arma dei carabinieri, alle Forze di Polizia, al Corpo dei vigili del fuoco, ed ai loro familiari) in modo da non riaprire la falla del settorialismo e da consentire ai soggetti sopra indicati di usu­fruire dei servizi del territorio;

3) eliminazione di ogni competenza delle Pro­vince, comprese quelle previste dal DPR 616 al fine di rendere pieno il trasferimento delle funzio­ni ai Comuni singoli o associati. In particolare ri­sulta incomprensibile la creazione di un program­ma «provinciale» di localizzazione dei presidi socio-assistenziali;

4) l'attribuzione ai Comuni singoli od associa­ti di fondi sufficienti per quanto riguarda le spese di investimento e quelle di gestione.

Altro nodo di importanza fondamentale è quel­lo del personale. Le indicazioni contenute al ri­guardo nel testo di riforma sono del tutto gene­riche e inconsistenti. Se questo problema non verrà affrontato dal legislatore con la necessaria chiarezza e completezza, la riforma sarà inat­tuabile. I problemi da affrontare riguardano: i ruoli (regionali come quelli regionali della sani­tà?), gli organici (dell'Unità locale? dei Comuni facenti parte dell'Associazione intercomunale? Nei casi di nuove esigenze di personale come si può ottenere la modifica delle piante organiche dei singoli Comuni? E se i Comuni non le voglio­no modificare, che cosa succede?), il riconosci­mento dei titoli, i profili professionali (preveden­do solo quelli necessari), la definizione degli or­ganismi competenti per la formazione di base e permanente.

Nella definizione delle norme relative, il legi­slatore dovrà tener presente la necessità di ga­rantire servizi efficaci ed efficienti, di assicurare la natura strumentale delle Associazioni dei Co­muni nei confronti dei Comuni stessi, di salva­guardare l'integrazione effettiva dei servizi sani­tari e socio-assistenziali.

Nella legge di riforma dell'assistenza è altresì necessario che sia fatta chiarezza sui seguenti punti:

a) unica zonizzazione ed unico organo di go­verno. È infatti necessario che sia riconfermato quanto previsto dall'art. 25 del DPR 616 circa l'u­nica zonizzazione per i servizi sanitari e socio­assistenziali. Inoltre unico deve essere l'orga­no di governo per i servizi suddetti in modo da evitare settorializzazioni, dipendenze del perso­nale da organismi diversi, contropposizioni e vuo­ti di intervento;

b) non privatizzazione delle IPAB. Ai Comuni singoli o associati non devono essere sottratti i patrimoni ed il personale delle oltre 9.000 Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB). L'utilizzo dei patrimoni suddetti per i servizi alternativi al ricovero consentirebbe l'at­tivazione di risposte concrete nel settore socio­assistenziale, caratterizzato quasi ovunque da vi­stose carenze di intervento anche a livello delle esigenze più elementari;

c) volontariato. Un ruolo importante può es­sere svolto dal volontariato. Al fine però di evi­tare equivoci, che potrebbero risultare negativi per lo sviluppo del volontariato stesso, occorre che nella legge di riforma il volontariato sia de­finito e che sia favorito anche a livello di inter­vento di singoli e di nuclei familiari. Inoltre oc­corre che la legge non favorisca interventi episo­dici ed occasionali del volontariato, ma ne pro­muova l'utilizzo nell'ambito della programmazio­ne dei Comuni singoli o associati;

d) leggi regionali di riordino. La legge quadro di riforma deve stabilire un termine perentorio per la promulgazione delle leggi regionali di rior­dino. A tal fine occorre che siano modificate le norme transitorie del testo attualmente all'esame della Camera dei deputati.

È inoltre necessario che la legge quadro di riforma preveda il passaggio nella nuova orga­nizzazione locale dei servizi socio-assistenziali del personale addetto o da adibire ai compiti di supporto: economato, bilancio, ragioneria, lavo­ri pubblici, manutenzione, altre attività tecniche e amministrative.

Occorre altresì che la legge quadro stabilisca norme precise affinché siano istituiti i servizi in­dispensabili. È inoltre necessario che siano in­dividuati anche gli eventuali servizi specifici, ad esempio quelli per le persone che hanno proble­mi relativi al segreto del parto e al riconoscimen­to e all'accettazione dei propri figli.

Infine è necessario che siano salvaguardate norme ancora irrinunciabili: ad esempio l'azio­ne popolare di cui alla legge 17 luglio 1890 n. 6972, l'autorizzazione preventiva a funzionare pre­vista dalla legge dell'ex ONMI, autorizzazione che dovrebbe essere estesa agli istituti per anziani e handicappati e riguardare anche le norme di pre­venzione ed estinzione degli incendi.

Un esame attento delle leggi vigenti consen­tirebbe di individuare le disposizioni da inseri­re nella legge quadro. In questo modo si sgom­brerebbe il campo dalle contestazioni di quanto è ancora vigente e quanto è soppresso (v. l'ulti­mo comma dell'art. 22 del testo attuale).

 

LA RIFORMA PSICHIATRICA

 

1. - Una ipocrisia di fondo vizia il dibattito sul­la 180: le modifiche proposte da alcune forze politiche e dal Governo sono concepite come cor­rettrici di una legge che, in realtà, non è ancora applicata del tutto ed in tutte le zone nelle sue parti costitutive e di riorganizzazione degli in­terventi.

La legge 180, infatti, non vuole solo porre fine allo scandalo dei manicomi ma vuole aprire lo spazio per una serie di interventi nuovi che Re­gioni, Enti locali e USL debbono realizzare.

Ed ecco che la mancata realizzazione degli atti di riorganizzazione viene vista come derivante dalla legge piuttosto che da inadempienze e re­sistenze al cambiamento.

La giusta esasperazione delle famiglie per il vuoto di assistenza che ne deriva viene usata per cercare di tornare pesantemente indietro an­che sul piano legislativo, invece che per assume­re costruttivamente le responsabilità che la leg­ge ha già attribuito e definito con chiarezza.

In sostanza la linea politica di una riforma della riforma psichiatrica mostra la corda su due fat­tori:

1) non si lascia il tempo (e si rifiutano o lesi­nano le risorse) per attivare l'organizzazione «al­ternativa» proposta dalla riforma;

2) si definiscono urgenti (anche per le proce­dure urbanistiche di deroga) e si trovano le ri­sorse finanziarie per servizi di custodia.

Non si parte da nessun supporto valutativo sul­la attuazione della 180. Non si ha nessuna reale preoccupazione - salvo le rituali affermazioni di principio che non si vuol intaccare la riforma - di accelerare e completare il processo operativo della riforma stessa.

Infatti:

- non si dà alcun rilievo ed incentivo all'im­pegno di prevenzione e soprattutto di riabilita­zione e reintegrazione sociale (rimozione delle cause sociali di malessere, interventi di suppor­to, interventi domiciliari ed ambulatoriali, cen­tri diurni d'appoggio, centri-crisi o analoghi ser­vizi non ospedalieri);

- non si accentua l'impegno regionale e lo­cale (magari con piani stralcio ove necessario) per accelerare l'uso e la riconversione di risor­se nella direzione di creare la rete alternativa di servizi e la gamma diversificata di interventi;

- riemergono le vecchie logiche custodialisti­che, fino all'assurda di creare o riattare struttu­re di concentrazione di tutte le situazioni che gli altri servizi rifiutano (anziani cronici, handicap­pati gravi, persone emarginate, oltre ai malati mentali), legalizzando ed auspicando quello che i peggiori manicomi erano in passato e disincenti­vando la già difficile azione riformatrice;

- si ripropongono logiche centralistiche e di deroga (tipiche del vecchio sistema assisten­ziale) nelle decisioni sia a livello regionale ma soprattutto nazionale (con ruolo di surroga del CIPE!), piuttosto che responsabilizzare ancor più il livello locale, più adeguato nel definire concre­tamente tempi, strategie, modalità, riconversio­ne, verifica dei risultati.

È evidentissima e scoperta (anche nelle pre­sentazioni dei progetti di legge) la rivalsa di un disegno politico di conservazione risultato a suo tempo perdente in sede legislativa. È un ulteriore elemento della generale azione di controriforma, ormai non più da temere ma da contrastare non solo o tanto in sede legislativa, ma in sede pro­grammatoria ed operativa.

2. - Il dibattito sulla legge 180 ne sottende uno più vasto che riguarda le scelte di fondo delle politiche socio-assistenziali: una revisione infatti della 180 sarebbe l'apertura di uno spazio di re­gresso verso la forma di assistenza fondata su­gli istituti di ricovero.

Il largo rilievo dato dalla stampa ai temi del disagio mentale e della riforma psichiatrica ten­de però a creare un diffuso allarmismo che può aprire lo spazio a pericolose e drammatiche re­pressioni.

La strumentalizzazione del disagio delle fami­glie appare chiaro se si esaminano più da vicino i punti chiave delle modifiche proposte.

Innanzitutto è il trattamento sanitario obbliga­torio che viene preso di mira nella sua attuale definizione legislativa. Si dice che i posti letto ospedalieri sono pochi e che occorre addirittura rimettere in funzione quelli nei vecchi manicomi. Ma se così fosse, perché le Regioni hanno te­so a mantenere limitato il numero di ospedali generali in cui realizzare i servizi speciali di dia­gnosi e cura di 15 posti letto consentiti dalla legge? Nulla, naturalmente, impedisce che il nu­mero di ospedali generali sia più alto, se davve­ro la necessità di ricovero è così importante. Questo fatto è tuttavia smentito da diversi casi di servizi ospedalieri di diagnosi e cura che non riempiono neppure i propri 15 posti letto o che ne istituiscono un numero inferiore (vedi i risul­tati del progetto finanziato dal CNR per la pre­venzione psichiatrica). Ma c'è di più. Il tratta­mento sanitario obbligatorio non solo può, ma deve essere realizzato innanzitutto in forma extra­ospedaliera. Nelle realtà che hanno correttamen­te interpretato la legge ciò ha dato luogo a équi­pes territoriali organizzate per l'urgenza psichia­trica, cioè capaci di intervenire 24 ore su 24, e in molti casi sono state realizzate delle strutture di supporto logistico per questo tipo di interven­ti (con varie denominazioni: «appartamento so­ciale», «centro crisi», «centro per l'urgenza», ecc.). Simili interventi hanno dimostrato di esse­re largamente risolutori della maggior parte dei problemi di presa in carico delle situazioni di crisi e hanno potuto limitare il ricovero in ospe­dale generale ai soli casi che necessitano un complesso intervento somatico.

Va detto con chiarezza che queste soluzioni, semplici e realizzabili con il personale del ser­vizio per la salute mentale dell'USL, non sono state favorite né con interventi finanziari né con altri provvedimenti attuativi della riforma. Là dove sono state realizzate, hanno pesato esclu­sivamente sulla iniziativa locale di amministra­zioni e operatori.

Va dunque denunciato con forza il tentativo di modificare il dispositivo attuale dei trattamenti sanitari obbligatori, non solo perché reintroduce una inutile e odiosa violenza ma perché questo significa che nessun reale intervento terapeutico sarà realizzato per le situazioni di crisi, se non un maldestro tentativo custodialistico, magari con l'aiuto della forza pubblica.

Il secondo argomento usato contro la 180 è quello dei cosiddetti «cronici». Anche qui la esa­sperazione di famiglie e associazioni che prote­stano per il vuoto di assistenza psichiatrica nei confronti di persone bisognose di sostegno pro­lungato ed anche spesso di un supporto logisti­co, viene usata per riproporre strutture manico­miali che hanno talmente mostrato la loro voca­zione antiterapeutica e anticomunitaria che molti Paesi cercano soluzioni meno ripugnanti alla co­scienza civile (ad esempio attualmente la Francia e l'Olanda)!

Le leggi 180 e 833 hanno indicato nelle solu­zioni territoriali l'alternativa concreta, pratica e realizzabile alla vecchia situazione. E in diversi casi queste alternative sono state realizzate di­mostrando la loro validità e la loro enorme por­tata riabilitativa.

Ma anche qui le iniziative prese in questo sen­so, e che danno una corretta interpretazione co­struttiva alla legge 180, non sono state in nessun modo incentivate né sostenute da quelle forze politiche che si dichiarano invece pronte a spen­dere 100 miliardi per fare nuovi manicomi.

3. - Debbono dunque essere francamente ri­chiamate, ai diversi livelli, le responsabilità dei ritardi e delle inadempienze.

Lo Stato, che pure in altri casi (per es. le tossi­codipendenze) non ha esitato a dare impulso e scadenze precise all'attuazione di servizi, nel ca­so dell'assistenza psichiatrica non ha dato nes­sun mezzo e nessuna incentivazione all'attuazio­ne di strutture e servizi che, con tutta evidenza, sono assolutamente necessari allo sviluppo di un sistema assistenziale alternativo a quello mani­comiale.

Né certo la separazione rigida, artificiosa e paralizzante tra sanitario e sociale va nel senso della realizzazione delle necessarie strutture ter­ritoriali che debbono invece poter intervenire con­temporaneamente sugli aspetti sanitari, sociali e assistenziali del disagio psichiatrico.

Diverse Regioni, a loro volta, non hanno attua­to neppure provvedimenti legislativi stralcio nel­la materia, lasciando le USL senza mezzi e sen­za quadro di riferimento per la programmazione. Nei casi in cui la gestione delle Province si è prolungata, la situazione è andata ulteriormente degradandosi in assenza di una presa di respon­sabilità attiva sulla nuova organizzazione da pro­muovere.

In diversi casi sono stati programmati i ser­vizi di diagnosi e cura negli ospedali generali in­dipendentemente dal l'organizzazione dei servizi di salute mentale delle USL e dalla identificazio­ne delle strutture e mezzi necessari al loro com­plessivo funzionamento. In questi casi si sono in­golfati gli ospedali generali (presto divenuti tra­gicamente somiglianti ai vecchi «pronto soccor­so» psichiatrici) e si è creato un vuoto d'assi­stenza nel territorio.

Le USL, che hanno ricevuto la delega per l'as­sistenza psichiatrica, in assenza di una program­mazione regionale, hanno spesso scelto una «po­sizione d'attesa», senza neppure tentare di rior­ganizzare funzionalmente il personale e le strut­ture gestite. Anche qui molte azioni concrete che, sia pure in modo circoscritto e parziale, avrebbero potuto essere intraprese per l'integra­zione dei dimessi e per l'organizzazione locale del servizio, non sono state fatte.

Troppo spesso la riorganizzazione dell'assi­stenza psichiatrica si è lasciata paralizzare dai conflitti tra i medici responsabili per l'attribu­zione di zone o per il mantenimento di privilegi acquisiti.

Spesso infine le stesse organizzazioni sinda­cali dei lavoratori dei servizi hanno esercitato un ruolo frenante legando oggettivamente le riven­dicazioni alla difesa delle situazioni preesistenti piuttosto che collegarle, come pure sarebbe pos­sibile fare, alla attuazione della riforma e alla realizzazione dei servizi territoriali integrati.

4. - C'è allora da domandarsi e da verificare a livello nazionale, regionale e locale:

- cosa si è programmato in questi neppure quattro anni (dalla 180) per raggiungere gli obiet­tivi propostisi con la riforma?

- quale concreta riconversione si è fatta di attrezzature, personale, risorse finanziarie (e che ruolo hanno assunto le amministrazioni provin­ciali)?

- quali servizi e interventi alternativi si sono avviati concretamente in base alle differenziate esigenze degli ex ricoverati?

- con che criteri e strategie si è attuata la dimissione dagli O.P.?

- quali interventi (e con che tempi) sono an­cora previsti per completare il piano, e quali dif­ficoltà si incontrano nel portarli a compimento?

- come si è realizzato il dipartimento di sa­lute mentale (inglobante e coordinante anche gli interventi ospedalieri), con quali risultati e difficoltà?

- che integrazione si è realizzata con altri set­tori e servizi anche sociali per raggiungere me­glio gli obiettivi della riforma?

- quali iniziative di partecipazione, di volon­tariato, di educazione socio-sanitaria si sono at­tivate, con che modalità e quali risultati?

Di conseguenza è necessario predisporre al più presto un bilancio specifico (nell'ambito della Re­lazione annuale, in corso di predisposizione, sul­lo stato di salute e dei servizi) relativo alla pre­venzione, cura e riabilitazione della malattia men­tale ai diversi livelli (locale e di conseguenza re­gionale e nazionale).

A seguito di questa verifica critica, non con strumenti legislativi ma con strumenti della pro­grammazione, andranno predisposte strategie e priorità operative.

Ma è già sin d'ora chiaro che le modifiche pro­poste alla legge 180 servirebbero solo a coprire lo stato di arretratezza tecnica e organizzativa di una parte dei responsabili dei servizi psichia­trici esistenti e una volontà politica di restauro di forme custodialistiche di assistenza psichia­trica.

E ciò quando da più parti sono state avviate soluzioni alternative e indicati con chiarezza, nel­le équipes e nelle strutture territoriali integrate, strumenti idonei.

Occorre scegliere dunque con piena coscien­za della posta in gioco se i finanziamenti desti­nati comunque all'assistenza psichiatrica deb­bano essere spesi per restaurare, e magari am­pliare, vecchi manicomi oppure se debbono es­sere usati per dotare finalmente ciascuna USL delle strutture e del personale necessario.

 

(1) Documento del Gruppo di studio permanente «Au­tonomie locali e servizi sociali» della Lega piemontese per le autonomie e i poteri locali, Torre Pellice (Torino), 5-7 maggio 1982.

(2) Il documento è stato anche pubblicato sul n. 57 di Prospettive assistenziali.

 

www.fondazionepromozionesociale.it