Prospettive assistenziali, n. 58, aprile - giugno 1982

 

 

Libri

 

 

NEERA FALLACI, Di mamma non ce n'è una sola - Voci di figli adottivi che raccontano la loro storia, Milano, BUR Rizzoli, pp. 399, L. 6.000.

 

La letteratura sull'adozione di questi ultimi ven­ti anni è stata molto ricca. Ne hanno scritto giuri­sti, psicologi, operatori sociali, genitori adottivi o aspiranti tali.

Era mancata però, fino ad ora, la voce più impor­tante: quella di coloro di cui si parlava, si discu­teva, per cui si agiva. La voce degli adottati.

Ci ha pensato Neera Fallaci, anche accogliendo un suggerimento (come dice nella presentazione), dell'ANFAA. E lo ha fatto raccogliendo testimo­nianze delle esperienze di adozione dalla viva vo­ce di adottati ormai adulti; persone tra i 18 ed i 38 anni. Ha lasciato che i racconti fluissero spon­tanei, solo sollecitandoli, talvolta, con qualche do­manda utile ad approfondire o chiarire gli argo­menti più importanti.

Sono undici gli intervistati.

Ma le loro storie sono emblematiche di una più generale situazione.

In ciascuna vicenda vi è infatti un materiale straordinario d'informazione sulle condizioni di vita dell'infanzia sola, sulle sofferenze che una società, apparentemente interessata, le infligge con maggiore o minore consapevolezza.

C'è la dimostrazione della mancata od insuffi­ciente risposta delle pubbliche istituzioni prepo­ste alla tutela. C'è l'impreparazione e inadegua­tezza di molti degli operatori sociali. C'è la prova, soprattutto, della sopravvivenza di pregiudizi «culturali» e di costume che scienza ed esperien­za dovrebbero ormai avere superato.

Lo specchio insomma di una situazione che, pur già mutata rispetto al passato, conserva vischio­se resistenze a rinnovarsi.

Tutti i racconti sono commoventi ed avvincenti. Ma nel libro della Fallaci deve essere segnalato qualcosa di più.

È una sorta di verifica della validità di determi­nate regole di comportamento che sono state ela­borate, consigliate, anche rispettate. Quelle che si ritenevano utili per realizzare un'adozione ben riuscita.

Indichiamo alcuni esempi.

L'età degli adottanti. Si è sostenuto e si sostie­ne che gli aspiranti genitori adottivi debbono avere un'età corrispondente, per quanto possibi­le, a quella dei genitori biologici. Cioè un'età gio­vanile.

«Avrei preferito una mamma giovane, come gli altri bambini », dice una delle intervistate.

Ed un'altra, nell'accennare ad un'esperienza di affidamento fallita: «I genitori erano anziani... Non escludo di essere stata ribelle, ma certo non si trattava della famiglia adatta ad una bambina di sei anni e mezzo cresciuta senza affetto, asse­tata di affetto...».

Una terza ricorda come provasse stupore e im­barazzo, misti ad una sorta di sofferenza, quando gli estranei indicavano coloro che lei riteneva ge­nitori, come «nonni». E ancora la sua tristezza nel ritrovarsi sola a 18 anni, sia pure con un ricordo molto affettuoso degli adottanti ormai morti.

Età dell'adottato. Decenni di esperienza dimo­strano che un buon rapporto adottivo è pratica­mente certo se si realizza in età precoce del bam­bino.

Ma oggi, diminuiti da un lato gli abbandoni alla nascita o poco dopo, dall'altro ritardate dalla pro­cedura e dalle resistenze di vario tipo le dichia­razioni di adottabilità, sempre più frequente si propone l'adozione di ragazzi già relativamente avanti negli anni, talvolta quasi adolescenti.

Costoro hanno subito dolorose esperienze di ri­fiuto, di solitudine, di carenze affettive, soprattut­to di istituto o di più istituti.

«Avevo undici anni quando ho deciso di lasciar­mi adottare, non ce la facevo più a stare dentro un istituto. Mia madre diceva sempre, prima che ci separassero: qualsiasi cosa succede ti vengo a cercare. E io l'avevo aspettata tanto».

Il rapporto adottivo, quindi, pur possibile, anzi necessario, si presenta più complesso. Presuppo­ne una sarta di consensualità, di accettazione re­ciproca, di volontà di capirsi.

Riconoscono alcuni degli intervistati:

«Ero scalmanato, angosciato... ero etichettato come un bambino terribile...».

E ancora: «Ero un bambino pestifero... Andavo male a scuola non perché fossi uno stupido, ma perché non mi interessavo a niente. Come puoi interessarti a qualcosa se a nessuno importa quel­lo che fai?».

Sono comportamenti, atteggiamenti di cui oc­corre ricordare le cause, da affrontare con la do­vuta cautela e preparazione.

I riscontri danno esiti alterni, lo si nota nelle interviste, ma sempre con una confortante parte di positivo.

«A sette anni ho trovato genitori che sono ge­nitori nel senso vero». Ne era: «Felicissima, pe­rò avevo molta paura che mi abbandonassero per­ché prima di loro erano venuti a prendermi altri due signori...» che poi l'avevano riportata in isti­tuto.

Questa l'angoscia palese o inconscia che sem­pre riaffiora.

Perché il bisogno, primo, per chiunque, ma so­prattutto per il bambino è l'affetto. Questo l'ulte­riore riscontro delle interviste. Affetto espresso in tutte le sue manifestazioni.

«Avrei avuto bisogno di più tenerezza... So di non aver avuto molti abbracci, molte carezze...», questo è il rammarico di uno degli interrogati.

E un'altra: «...cominciò a pensare che ero trop­po grande per le moine, finché gelò anche me. Smisi di essere affettuosa. Ma avevo ancora bi­sogno di tenerezza...».

Bisogno d'affetto che viene cercato tenacemen­te, anche attraverso il contatto fisico. «Mi piace­va tanto abbracciarla, sentire il contatto della mia pelle con la sua». È il bisogno di ricostruire il rap­porto, anche fisico, tra madre e figlia, quello che avviene nei primi mesi di vita, forse addirittura nel ventre materno.

È tutto quanto contrasta l'abbandono. Perché, è evidente, di tutte le sofferenze che il fanciullo «solo» patisce (e le testimonianze in punto sono toccanti) quella più dolorosa e che gli lascia una sorta di stigma che porterà con sé a lungo, è l'ab­bandono subito, il rifiuto d'amore che ha offeso il suo bisogno affettivo.

«Vorrei solo capire perché sono stata abban­donata».

«Mia madre poteva lasciare il marito se non andava d'accordo con lui, ma perché ha lasciato anche noi tre figli?» commenta un adottato che ha conosciuto, sia pure fugacemente, la madre quando, nei suoi primi anni, conviveva con la non­na materna.

In questo campo, così complesso, appare evi­dente che si alternano impulsi contrastanti tra lo­ro; sono questi sentimenti diversi che i genitori adottivi debbono sapere capire, accettare, aiutan­do i figli a risolvere i problemi che ne nascono, aiutandoli a vivere come tutti gli altri fanciulli.

Ma, più specificamente, che cosa pensano gli adottati dei genitori biologici? Le conclusioni non sono univoche.

«Avranno scelto la soluzione ai loro problemi che ritenevano più giusta... e poi io sono convinto che ci siano sempre dei buoni motivi dietro l'ab­bandono di un figlio...».

Se li incontrasse?

«Mi troverei di fronte a due perfetti scono­sciuti».

«Adesso non li considero più miei genitori, i miei genitori sono questi che mi hanno preso a dodici anni... Comunque prima o poi voglio vederla. Potrei restarle davanti a scena muta e potrei avere una reazione nervosa e darle due sberle: sei una puttana!».

«Provo un tale risentimento verso mio padre che avrei preferito nascere in provetta».

E nei confronti dei genitori adottivi?

«Oggi mi ricordo di non essere nato da loro so­lo se qualcuno mi ci fa riflettere. Del resto non credo nel feticcio della consanguineità».

«Per me sono mio padre e mia madre, sempli­cemente, mi sento come se mi avessero procrea­to loro».

«I genitori sono quelli che ti crescono, ti danno una situazione, ti formano il carattere; non sono quelli che ti generano per poi scomparire dalla tua vita».

«Mi sono sempre sentito figlio dei miei geni­tori, né più né meno che se fossi nato da loro».

«Io ho avuto una famiglia (adottiva n.d.r.), non ho mai provato il minimo desiderio di sapere co­me sono fatte le persone che mi hanno generato».

E che pensano dell'adozione in generale?

«È un discorso che condivido in pieno: se un bambino è solo gli va data in fretta una famiglia adottiva, punto e basta... la maggior parte della gente continua a masturbarsi con menate del ti­po: il figlio deve essere mio perché voglio che mi somigli...».

«Io credo che l'adozione sia giustissima quan­do un bambino è solo come ero sola io. Ma le cose vanno fatte con cautela. Intanto non si do­vrebbe aspettare che il bambino soffra tanto pri­ma di trovargli una famiglia: i miei sette anni sono stati lunghissimi...».

Abbiamo scelto alcuni argomenti, qua e là. E alcune frasi riguardanti i problemi più scottanti. Ma il libro è ben più ricco e gli esempi vogliono solo sollecitare alla lettura. Per cercare di capire, di capirsi.

Certo è che queste testimonianze così genuine, con il positivo e il negativo che importano (che per altro sono propri di ogni rapporto umano) ci insegnano almeno una cosa, che non lascia dubbi. Il fanciullo ha un costante bisogno di sentirsi ama­to. E non tanto conta chi glielo dà questo amore; conta che gli sia dato.

Chiude il libro un commento di Alfredo Carlo Moro, che al Tribunale per i Minorenni di Roma ha speso lunghi anni di esperienza e di studio.

Con la competenza e l'autorità che gliene deri­vano ripropone la tematica dell'adozione nei suoi elementi essenziali denunziando lentezze, inade­guatezze, incongruenze. Ribadendo, ancora una volta, che la centralità del problema è dato dal bisogno primario del fanciullo di crescere e svi­luppare la sua personalità in un ambiente stabile e affettivo e individuando nella famiglia «il biso­gno fondamentale del bambino».

BIANCA GUIDETTI SERRA

 

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