Prospettive assistenziali, n. 58, aprile - giugno 1982
Editoriale
RIFORMA
DELL'ASSISTENZA, IPAB, MODIFICHE DELLA LEGGE 180, CASE PROTETTE: COME SEGREGARE
I PIÙ DEBOLI
Fra i
numerosi attacchi portati negli ultimi tempi dal fronte antiriformatore
(1), una particolare attenzione deve essere rivolta alla
riforma dell'assistenza, alla richiesta di privatizzazione di numerosissime
IPAB ed alle proposte di modifica della legge 13 maggio 1978, n. 180 relative
all'assistenza psichiatrica.
Riforma dell'assistenza
Il testo di
riforma dell'assistenza, ora all'esame dell'Assemblea della Camera dei
Deputati, presenta carenze tali da rendere
problematica se non impossibile qualsiasi iniziativa di cambiamento.
In primo
luogo viene volutamente lasciata irrisolta la
questione dell'organo di governo locale. La gestione può essere, infatti,
affidata non solo alla Associazione dei Comuni - che,
unificando le risorse, potrebbe garantire servizi idonei e assicurare la
partecipazione dei cittadini - ma anche ai singoli Comuni facenti parte dell'Associazione.
In questo
modo la settorialità degli interventi viene addirittura istituzionalizzata.
Di
conseguenza all'unità e globalità della persona e del
nucleo familiare si risponderà con servizi svolti da organi diversi, con
personale diverso. Sono quindi anche da prevedere sovrapposizioni e soprattutto vuoti di intervento e conflitti fra Comuni e
relative Associazioni.
In concreto,
ad esempio, nel caso in cui l'assistenza domiciliare
fosse di competenza dell'Associazione dei Comuni (e non si vede come possa
essere fatto diversamente per i 4756 Comuni italiani - su circa 8000 - con
meno di 3000 abitanti!) e quella economica di competenza dei singoli Comuni,
non si comprende quali mezzi possano essere utilizzati dall'Associazione per
costringere i vari Comuni ad adottare criteri di accertamento, procedure e
importi adeguati alle esigenze e uguali fra tutti i Comuni associati.
Inoltre,
sempre per restare nella esemplificazione precedente, il servizio domiciliare
non potrà proporre all'utente la scelta fra le
prestazioni dirette del servizio e un contributo economico (attività non di
sua competenza), che l'utente potrebbe versare al vicino di casa che l'aiuta
in caso di necessità e che è a disposizione 24 ore su 24.
Nel testo di
legge non si fa riferimento alcuno ad una pianta organica del personale
dell'Associazione intercomunale in quanto gli operatori dovrebbero essere
inclusi negli organici dei Comuni e messi quindi a disposizione dell'Associazione.
Poiché sono
molteplici gli organici del personale dei vari Comuni
(possono essere anche 50-70 gli Enti locali facenti parte di ciascuna Associazione),
è molto facile che diverse siano le condizioni normative e salariali degli
operatori a causa dei livelli differenti in cui essi sono collocati. Inoltre,
nel caso in cui l'Associazione dei Comuni decida l'assunzione di operatori per un nuovo servizio, dovrà ripartire le nuove
assunzioni fra i Comuni, cosa in certi casi impossibile in quanto il numero
dei nuovi assunti non può essere suddiviso fra gli enti locali in modo proporzionale
(alla popolazione? all'utenza?). Ammesso che la
suddivisione possa essere fatta, allora i singoli
Comuni dovrebbero provvedere a modificare le loro piante organiche, indire i
concorsi e poi comandare il personale all'Associazione. A questo punto viene
spontaneo porre l'interrogativo: «E
se i Comuni non sono d'accordo di assumere il personale richiesto dall'Associazione?». La
risposta purtroppo è molto semplice: «Il relativo servizio non viene istituito».
Queste ed
altre carenze
(2) del testo di riforma dell'assistenza
sembrano confermare una nuova propensione nei confronti del ricovero in
istituto, ricovero che qualsiasi Comune e qualsiasi dipendente è in grado di
fare.
Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza
Il dibattito
di Torino del 7 maggio 1982 sul tema
«A che punto è in Parlamento la riforma dell'assistenza?»
ha portato ad ulteriori, interessanti
precisazioni.
In primo
luogo ricordiamo che l'On. Vietti della
DC, presentatrice insieme all'On. Gui degli
emendamenti per la privatizzazione delle IPAB, ha più volte riconosciuto che le
IPAB sono enti pubblici.
Aggiungiamo
da parte nostra che, come è scritto nel progetto di
legge n. 152 presentato alla Camera dei Deputati il 1° dicembre 1877 dal Ministro
dell'interno, erano già enti pubblici le Opere pie di cui alla legge 3 agosto
1862 n. 753. L'art. 1 della legge suddetta era così redatto: «Sono Opere pie soggette alle disposizioni della
presente legge gli Istituti di carità e beneficenza,
e qualsiasi ente morale aventi in tutto od in parte per fine di soccorrere alle
classi meno agiate, tanto in istato di sanità che di
malattia, di prestare loro assistenza, educarle, istruirle ed avviarle a qualche
professione, arte o mestiere».
Praticamente uguale è l'art. 1 della legge 17 luglio 1890 n.
6972, tuttora vigente, il quale stabilisce: «Sono istituzioni pubbliche di assistenza e
beneficenza soggette alla presente legge le Opere pie ed ogni altro ente morale
che abbia in tutto od in parte per fine:
a) di prestare assistenza ai
poveri tanto in istato di sanità, quanto di malattia;
b) di procurarne l'educazione, l'istruzione, l'avviamento
a qualche professione, arte o mestiere, od in qualsiasi altro modo il miglioramento
morale ed economico».
Nonostante
le precise norme della legge numero 753/1862 (tenuta dell'inventario dei beni,
redazione annuale dei bilanci preventivi e consuntivi, controlli da parte
delle Deputazioni provinciali e dei Prefetti, ecc.), si
verificarono numerosi abusi da parte di Opere pie, tanto che, con RD 3
giugno 1880, venne costituita una Commissione di inchiesta, commissione che
lavorò dal 1880 al 1887: Nella relazione (9 volumi) sono dettagliatamente
precisate le violazioni della legge e viene auspicata 1'istituzione di un
servizio di ispezione ordinaria e straordinaria sulle Opere pie con la seguente
motivazione: «La necessità di questo
servizio sorge evidentissima dalle indagini che noi abbiamo praticate,
dalle quali apparisce che i disordini nascono assai meno dai difetti della
legge, che dalla sua scarsa e inefficace osservanza» (vol. 7°, pag. 25).
Altri
rilievi: «In alcuni centri, e non
dei meno importanti, intorno alle Opere pie si costituirono delle clientele,
non sempre ispirate dal desiderio de) pubblico bene» (vol. 7°, pag. 16); «L'inchiesta ha
dimostrato che gran numero di Opere pie, con dispregio
della legge, mancano di statuto, di regolamento e di inventario» (vol. 7°, pag. 33).
Nella
relazione allegata al progetto di legge n. 6, presentato al Senato dal
Presidente del Consiglio dei Ministri il 23 dicembre
1889, si fa riferimento «al
disordine che si fece strada nelle amministrazioni delle Opere pie e che la
legge era impotente a frenare», agli
«abusi troppo frequenti per i quali la legge non dava né una efficace
prevenzione né i mezzi di una giusta riparazione», alle «rendite colossali che si spendevano senza una vera, pratica
utilità per la popolazione sofferente».
È anche
interessante ricordare che fino al 1977 la DC non ha mai contestato la natura di enti pubblici delle IPAB e non ne ha mai rivendicato la
privatizzazione.
Tale natura
pubblica risulta, ad esempio, nella relazione della Commissione parlamentare sulla miseria del 1953, in cui numerosi erano i componenti
democristiani.
Nel libro dell'AAI
(ente presieduto da Ludovico Montini) «Organi
ed enti di assistenza pubblica e privata in Italia», Roma, 1953, a pag. 317 è scritto a proposito
delle IPAB: «Tali istituzioni, che nel nostro ordinamento hanno natura di enti pubblici, sono sottoposte (...)».
Va inoltre
ricordato che:
1) nella
proposta di legge n. 1676 presentata alla Camera dei Deputati il 7 luglio 1969
dall'On. Foschi e da altri 117 deputati DC, era previsto all'art. 41 il
trasferimento ai Comuni di tutte le 1PAB;
2) nel
documento approvato il 27 aprile 1971 a Bergamo degli Assessori regionali
all'assistenza è scritto: «Dovranno
essere sciolti gli enti pubblici nazionali e gli enti autarchici istituzionali
(esempio ECA, IPAB) che a qualsiasi titolo svolgono attività di assistenza sociale»;
3) la
proposta di legge n. 1609 presentata il 1° febbraio 1973 alla Camera dei
Deputati dall'On. Foschi e altri parlamentari DC
(identica è la proposta di legge n. 830 presentata il 2 febbraio 1973 al
Senato dalla Sen. Falcucci)
prevede all'art. 15 la conservazione della personalità giuridica delle IPAB
idonee e la soppressione di quelle non ritenute valide;
4) gli
stessi criteri indicati nel paragrafo precedente si trovano nell'art. 10 della
proposta di legge n. 843 presentata al Senato il 7 febbraio 1973 dai Sen. Signorello e Dal Canton e
nell'art. 15 della proposta n. 19 dell'On. Cassanmagnago
(Camera dei Deputati, 5 luglio 1976).
In altre
parole, fino a quando la posizione di preminenza della DC come partito di governo non era messa in discussione, la stessa proponeva
il trasferimento delle IPAB ai Comuni.
Poi, mano a mano che i risultati elettorali erano meno
favorevoli, la DC proponeva la conservazione delle IPAB e infine, nel periodo
in cui era temuto il sorpasso da parte del PCI, si arriva alla richiesta della
privatizzazione.
Modifiche alla legislazione
sull'assistenza psichiatrica
Repubblicani, democristiani e Governo (nell'ordine)
hanno preso posizione contro le norme vigenti della legislazione concernente
l'assistenza psichiatrica.
Nella
relazione della proposta del PRI (3) si arriva a
sostenere spudoratamente il falso. Infatti nella
relazione è scritto: «Non ci rimane
amaramente che constatare che la nuova gestione nella psichiatria non ha
mediamente garantito nemmeno uno standard equivalente al regime precedente,
scaricando il peso dell'assistenza psichiatrica soprattutto sulle famiglie che
hanno dovuto surrogare, e spesso nel modo più doloroso e drammatico, alle
insufficienze dell'organizzazione sul “territorio” che così frequentemente si era mitizzato».
Certo la
legge 180 non ha garantito gli standard di segregazione, di emarginazione
della legge sui manicomi del 1904, in base ai quali bambini (4), invalidi
fisici, anziani senza disturbi mentali sono stati internati per anni e
sottoposti a torture di ogni genere.
Per quanto
riguarda, invece, il secondo problema sollevato, è noto che la legge 180 non
impone ai parenti alcun compito di assistenza o cura
nei confronti dei loro familiari con disturbi mentali: la responsabilità delle
dimissioni selvagge, del disinteresse di amministratori e operatori, del
carico di pazienti alle famiglie, sono tutti da attribuire alla mancata o
distorta applicazione della legge 180 e non alle norme in essa contenute.
Nella
proposta del PRI viene precisato che «il trattamento sanitario obbligatorio può essere
adottato per i malati psichici che presentano una grave disorganizzazione delle
proprie funzioni personali che li rende incapaci di provvedere ai propri
bisogni e di tutelare alla propria sicurezza personale».
Con la
suddetta definizione, che modifica quella prevista dalle leggi 180/1978 e
833/1978 in cui si parlava di «malattia mentale», possono pertanto essere
istituzionalizzate non solo le persone con disturbi
mentali, ma anche gli insufficienti mentali medi e gravi.
Prevedendo
poi che «il trattamento sanitario
obbligatorio può essere corrispondente a più zone
sanitarie», i deputati del PRI creano le
condizioni per una spaccatura fra servizi psichiatrici di base (di competenza
dell'USL) e quelli «obbligatori» (di
competenza di più USL). Un terzo sistema dovrà poi essere previsto per « le
condizioni di ripetute recidività e necessità di lungodegenza».
La proposta
della DC (5) è ancor più pericolosa: nei nuovi manicomi devono essere rinchiusi tutti i lungodegenti e non solo quelli psichiatrici. Infatti, come si legge nella relazione, le modifiche previste «sanciscono in modo esplicito la possibilità di
riconversione degli ospedali psichiatrici in presidi generali per la cura e la
riabilitazione della lungodegenza.
In questo ambito può trovare collocazione anche la lungodegenza psichiatrica, realizzandosi in tal modo un
parallelismo normativa fra i trattamenti per acuti (psichiatrici e non
psichiatrici) in ospedali generali e quelli per lungodegenti in appositi
presidi che ospitino malati sia d'interesse psichiatrico, sia non psichiatrico».
Chi sono i lungodegenti psichiatrici? Coloro il cui «trattamento sanitario obbligatorio ospedaliero
debba protrarsi per un tempo superiore a sessanta giorni».
Sono quindi
prevedibili centinaia di migliaia di lungodegenti. Alla loro segregazione
dovrebbero provvedere strutture anche riferite a più
unità locali.
A questo
punto viene spontaneo chiedere se a questo disegno di emarginazione
di massa la DC non intenda coinvolgere anche le IPAB privatizzate, i cui
istituti (ribattezzati come presidi sanitari) potrebbero avere clienti e
ricavare rette dai lungodegenti.
Non meno
preoccupante ci sembra il disegno di legge predisposto dal Governo (6), per il
quale occorrerebbe ripetere molte delle osservazioni già formulate
per i progetti dc e repubblicano.
Infatti, il ddl governativo, pur partendo da una analisi
abbastanza corretta («la legge 180
ha completamente innovato il sistema degli accertamenti e dei trattamenti sanitari
delle malattie mentali, passando da una concezione statica e custodialistica (...) ad una concezione dinamica, curativa,
riabilitativa della malattia mentale»; «a distanza di tre anni dall'entrata in
vigore non si può non constatare (...) una situazione di incerta ed
insufficiente organizzazione ed attivazione dei servizi extraospedalieri
psichiatrici e di diagnosi e cura; conseguentemente si sono determinati vuoti
assistenziali»; «il quadro della situazione non è uniforme, in quanto
sostanziali differenze sussistono tra i servizi di salute mentale organizzati
dalle diverse Regioni», finisce col riproporre
- insieme a «servizi di assistenza sanitaria domiciliare ed ambulatoriale
territoriale», «servizi di assistenza sanitaria attuata presso residenze
apposite», «servizi psichiatrici di diagnosi e cura presso gli ospedali
generali» - anche «servizi sanitari
psichiatrici presso strutture per spedalità residenziale protratta».
Norme
specifiche sono previste anche per il
«trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale» di minori (!). Inoltre, nelle regioni in cui hanno sede cliniche
universitarie, le Regioni stesse, con convenzioni, possono affidare «alle
singole università la gestione di uno o più servizi territoriali per la tutela
della salute mentale». Alle università viene assicurata «in ogni caso» l'autonomia direzionale e gestionale dei servizi e la possibilità di
organizzarli «in modo confacente alla prestazione di assistenza
psichiatrica a favore di bacini di utenza multizonali e, ove ricorra il caso,
interregionale» (!).
Anche per il Governo, dunque, è di poca importanza la
spaccatura fra i vari servizi psichiatrici. L'unità locale non è più il
riferimento unico per tutti i servizi, ma il bacino di utenza
può comprendere addirittura più regioni. Infine, queste «strutture sanitarie per spedalità residenziali
protratte (...) debbono essere utilizzate anche per
infermi affetti da malattie diverse da quelle mentali». Ed anche qui occorrerebbe ribadire quanto è
già stato sottolineato a proposito della proposta dc:
nei nuovi manicomi possono essere rinchiusi tutti i lungodegenti e non solo
quelli psichiatrici.
Le case protette
Mentre
Governo, DC e PRI offrono a centinaia di migliaia di persone una segregazione
gratuita (in quanto a carico del settore sanitario), alcune Regioni di sinistra
hanno creato i presupposti perché essa sia ancor più
ampia e abbia luogo a pagamento (in quanto a carico del settore assistenziale).
Nella legge
della Regione Piemonte 10 marzo 1982 n. 7 di approvazione
del piano socio-sanitario per il triennio 1982-1984, è infatti previsto - e
questa norma «ha efficacia di
indirizzo, di prescrizione e di vincolo» (art.
4) - che la casa protetta, di competenza assistenziale, «è destinata ad
ospitare cittadini in regime di assistenza, ma solo quando essi presentano un
bisogno di assistenza tutelare che, per la richiesta di continuità, non può
essere garantita né a domicilio né dalla comunità alloggio. La richiesta di assistenza tutelare viene espressa particolarmente da
persone in stato di grave o totale invalidità, da portatori di esiti di
malattie che hanno lasciato gravi invalidità permanenti o forte deterioramento
motorio (quali postumi di vasculopatie acute, artropatie gravemente invalidanti e simili - si citano ad
esempio - i giovani affetti da malattie neuromotorie),
da persone il cui equilibrio si scompensa facilmente e che alternano periodi
di equilibrio a sempre più lunghi periodi di scompenso (cardio-pneumoartropatie),
da persone, ancora, che presentano fenomeni o di grande senilità o di
confusione mentale o incapaci di svolgere azioni che si succedono
correntemente: lavarsi, pettinarsi, asciugarsi, ecc., che ne saltano alcune o
lasciano incompiuto l'atto che volevano formulare, da persone incapaci di
determinare l'uso del tempo e da persone affette da incontinenza».
Sembra quasi
una gara a chi segrega più persone e offre condizioni migliori (gratuità o pagamento).
Lo
«svarione» della Regione Piemonte non è isolato. Si veda ad esempio la legge della Regione Emilia-Romagna 1°
settembre 1979 n. 30 «Interventi
promozionali per la realizzazione e il potenziamento
di servizi di assistenza sociale a favore delle persone anziane». All'art. 5 è previsto:
«La casa protetta è un servizio volto a fornire residenza ed adeguata
assistenza a persone anziane, in particolare a quelle in stato di non
autosufficienza fisica o psichica per le quali non sia
possibile la permanenza nel proprio alloggio».
Lo stesso
principio di emarginazione è sancito dalla legge della
Regione Toscana 27 marzo 1980 n. 20
(7), secondo la quale i Comuni sono
tenuti a inserire, senza alcun controllo di qualsiasi genere, in residenze
sociali protette «le persone non autosufficienti che non possono essere
assistite (da chi? dalla famiglia? dal
Comune? n.d.r.) nel proprio
ambito familiare».
Conclusioni
La
situazione non è certo brillante: con la semplice dichiarazione che si è lungodegente e non autosufficiente (definizione che sul
piano scientifico è priva di qualsiasi significato e che quindi può essere
appioppata a centinaia di migliaia di persone) ci si può trovare ricoverati in
un orribile cronicario pubblico o privato, orribile per il solo fatto di
raggruppare - persino a livello interregionale - un determinato tipo di utenza.
Questa
procedura, già gravissima per le sue evidentissime conseguenze di emarginazione, può diventare un alibi per i medici di
base e per gli ospedali: se vogliono liberarsi dei casi difficili devono solo
scrivere su un pezzo di carta
«lungodegente e non autosufficiente».
(1) V. il documento «Sanità e
assistenza: una controriforma da combattere», predisposto dal gruppo di studio
«Autonomie locali e servizi sociali» della Lega piemontese per i poteri e le
autonomie locali, in Prospettive assistenziali,
n. 57, gennaio-marzo 1982.
(2) In merito alle altre carenze del
testo di riforma dell'assistenza rinviamo all'editoriale del n. 57 di Prospettive assistenziali.
(3) Proposta di legge n. 3182
presentata alla Camera dei Deputati il 19 febbraio 1982 dall'On. Olcese e da altri parlamentari del PRI.
(4) Non sono rari i casi di bambini
nati nei manicomi ed ivi rimasti per tutta la loro vita.
(5) Proposta di legge n. 3221
presentata il 4 marzo 1982 alla Camera dei Deputati dall'On. Cirino Pomicino e
da altri deputati DC.
(6) Disegno di legge presentato il 30
aprile 1982 al Consiglio dei Ministri dal Ministro della sanità, Altissimo,
col titolo «Modifica degli articoli 34, 35 e 64 della legge
833 del 23 dicembre 1978». Il testo riportato nel quadro sinottico alle
pagine seguenti è quello reperito al Ministero della sanità, prima della
stampa e della assegnazione alla apposita commissione
parlamentare.
(7) Pubblicata sul n. 51,
luglio-settembre 1980, di Prospettive
assistenziali.
www.fondazionepromozionesociale.it