Prospettive assistenziali, n. 59, luglio - settembre 1982
IPAB, RIFORMA DELL'ASSISTENZA E RUOLO DELLA COMUNITA’ CRISTIANA
GIORGIO PAGLIARELLO - MARIO TORTELLO
Il dibattito sulla riforma dell'assistenza si è
nuovamente arenato sul nodo delle IPAB, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, ex Opere pie, disciplinate
dalla legge Crispi del 1890. Movimenti di pensiero e di impegno (gruppi di base, partiti di sinistra, sindacati,
ecc.), vogliono superare l'attuale sistema assistenziale, basato in gran parte
sul ricovero in istituto di bambini, fanciulli, handicappati e anziani (le
IPAB, da sole, coprono oltre il 40 per cento dell'intero settore della
istituzionalizzazione) e trasferirne patrimoni, personale, competenze agli enti
locali. In questo modo, i Comuni, singoli o associati, disporrebbero
delle risorse per avviare i servizi alternativi.
Altre forze (in particolare, la DC e alcuni movimenti
di ispirazione cattolica), chiedono, invece, la
privatizzazione di gran parte delle IPAB, patrimoni e personali compresi,
sostenendo l'esigenza di rispettare le «tavole di fondazione» degli enti e di
«garantire il pluralismo assistenziale» (1).
Va osservato, innanzitutto,
che occorre fare una distinzione netta tra la natura delle IPAB e il loro
futuro, da un lato, e l'assistenza privata, dall'altro. Le IPAB sono istituzioni pubbliche a tutti gli
effetti sin dal 1890: sono patrimonio della comunità, non monopolio dei soci
fondatori. Quindi, la comunità deve poter disporre di
queste strutture, nel quadro della riforma dell'assistenza ora in discussione.
Certo, occorre vincolarne l'uso dei patrimoni, delle risorse alla istituzione di servizi sociali e non consentirne un
altro utilizzo, la dispersione, il depauperamento.
Un discorso diverso va fatto per l'assistenza privata. Questa è libera
(art. 38 della Costituzione italiana) e non viene
messa in dubbio dal testo unificato di riforma del settore assistenziale. Lo scontro sulle IPAB, non riguarda, quindi, gli istituti
privati di assistenza oggi operanti, anche se il disegno complessivo di riforma
deve porre seri interrogativi a questo tipo di intervento, proprio perché
occorre muoversi verso il superamento della istituzionalizzazione sia pubblica
che privata.
Va ancora rilevato, inoltre, che l'assistenza privata non deve essere identificata con il solo -
tradizionale - intervento di ricovero in
istituto.
Torniamo al nodo delle IPAB. A nostro avviso, ancora
una volta, viene posta una attenzione principale - se
non esclusiva - alle strutture, alla tutela dei patrimoni, al rispetto della
volontà dei fondatori, al diritto dei privati di «assistere» i «poveri»,
anziché alle esigenze storicamente attuali di chi vive in situazione di
bisogno, di quanti sperimentano quotidianamente, in prima persona, le
conseguenze anche gravi degli squilibri sociali.
Tenendo conto del fatto che l'assemblea della Camera
deve ora pronunciarsi - in sede politica - sugli
articoli più contrastati della riforma (2), ci sembra utile che si creino e si
moltiplichino occasioni di dibattito su questa importante «quinta emergenza»
del paese. In questo quadro, particolare importanza viene ad assumere anche la
capacità di riflessione e di confronto che potrà manifestare la chiesa
cattolica, non solo a livello di gerarchia e di istituzioni,
ma soprattutto nelle singole comunità cristiane, sul territorio.
«Il bisogno nasce dalla comunità e nella comunità ed
è da questa che va preso in carico. Ed è nella comunità che va realizzata la
risposta, nella quale tutti debbono essere coinvolti,
anche se è qualcuno che attua concretamente il servizio» (3).
Sottolinea il Concilio Vaticano II: «È dovere
permanente della chiesa di scrutare i
segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione,
possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della
vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto » (4). Sulla linea del
magistero sociale degli ultimi pontefici e, in particolare, riferendoci alle
linee fondamentali di quello wojtyliano (priorità
dell'etica sulla tecnica, primato della
persona sulle cose, superiorità dello spirito sulla materia) (5), ci
sembra utile riflettere sul rapporto tra istituzioni assistenziali
esistenti, riforma dell'assistenza e ruolo della comunità cristiana.
Una prima riflessione, ancora schematica
ma, al tempo stesso, «provocatoria», che si pone non dalla parte delle
istituzioni, ma da quella degli uomini che vivono in situazione di bisogno,
oggi. Come esplicita
l'insegnamento conciliare, la testimonianza cristiana nei gruppi umani non è
né efficace né sapiente se non si cala nella condivisione della loro
esistenza, con la attiva partecipazione anche «alla evoluzione profonda che vi
si manifesta» (6).
La sicurezza sociale come diritto
«Cresce la coscienza della esimia
dignità della persona umana, superiore a tutte le cose, e i cui diritti e
doveri sono universali e inviolabili. Occorre, perciò, che siano rese
accessibili all'uomo tutte quelle cose che sono necessarie a
condurre una vita veramente umana, come il vitto, il vestito,
l'abitazione, il diritto a scegliere liberamente lo stato di vita e a fondare
una famiglia, all'educazione, al lavoro, al buon nome, al rispetto, alla
necessaria informazione, alla possibilità di agire secondo il retto dettato
della sua coscienza, alla salvaguardia della vita privata e alla giusta libertà
anche in campo religioso» (7).
Esistono, tuttavia, molte situazioni in cui vi sono
persone che non possono raggiungere da sole (o con l'aiuto della propria famiglia)
tali obiettivi. In questi casi, la risposta oggi ancora prevalente è quella che
si può definire di «assistenza».
Occorre, invece, un duplice e contestuale
intervento: da un lato, rimuovere le cause che impediscono il pieno sviluppo
della persona (prevenzione) e, dall'altro, fornire le prestazioni contingenti
necessarie. È ovvio che il rispetto della persona esige il massimo incremento
delle prestazioni di prevenzione, per poter ridurre e, in prospettiva,
eliminare ogni intervento assistenziale.
Troppo spesso, la soddisfazione
delle esigenze umane fondamentali per questa fascia più debole di cittadini é
ancora intesa, specie tra i cattolici,
come «assistenza», anziché come vero e concreto diritto alla sicurezza sociale ed al massimo sviluppo di tutte le
potenzialità della persona. Così, la risposta ai bisogni dei più deboli è
ancora considerata un impegno gratuito
di chi dà, che pretende gratitudine in chi riceve, e non un dovere, perché si
rivolge ai diritti dell'altro. Una generosità
facoltativa, qualcosa di complementare
all'essere cristiano; e, quindi delegabile a chi si crede ne possegga il
«carisma», anziché una disponibilità
essenziale richiesta a tutti.
Con un altro luogo comune, malto diffuso, si ritiene
che l'assistenza non sia un diritto dell'uomo, ma una competenza della «carità»,
avallando così una situazione di «delega» da parte degli enti pubblici, di
«paternalismo» da parte degli enti assistenziali, di
«servilismo» da parte degli assistiti (8).
Già il Decreto su «L'apostolato
dei laici» sottolineava: «Siano adempiuti gli obblighi di giustizia,
perché non avvenga che si offra come dono di carità
ciò che è già dovuto a titolo di giustizia; si eliminino non soltanto gli
effetti, ma anche le cause dei mali; l'aiuto sia regolato in tal modo che
coloro i quali lo ricevono vengano, a poco a poco, liberati dalla dipendenza
altrui e diventino sufficienti a se stessi» (9).
Non può esistere una privatizzazione
nel diritto alla sicurezza sociale. La sicurezza sociale è un bene comune, non
un bene privato. Anche in questo senso, va ribadita l'esigenza di superare la contrapposizione ancora
esistente tra pubblico e privato (10). Qualsiasi intervento per la sicurezza
sociale deve essere, per sua natura, pubblico, proprio perché rivolto al bene
comune.
Dove per «bene comune» si intende:
- la garanzia
pubblica, cioè il riconoscimento giuridico del
diritto alle prestazioni;
- la possibilità di concretizzare questo diritto;
- il carattere
non emarginante delle risposte;
- la reale partecipazione
della comunità.
È in questa ottica che va
esaminata la validità degli interventi, non secondo la tradizionale dicotomia
pubblico-privato, laico-religioso, comunalestatale (11).
Una risposta della comunità
Come sottolinea il cardinale
Michele Pellegrino nella sua lettera pastorale «Camminare insieme», sono ancora numerose, purtroppo, «le categorie
di persone che non contano, di cui si dispone senza
chiedere il loro parere, i cui membri per il solo fatto di appartenervi non
riescono a farsi sentire, a far valere i propri diritti, ma restano automaticamente
emarginati, esclusi dal progresso, dalla cultura, dalle responsabilità» (12).
I «nuovi poveri», invece, «non debbono essere
rifiutati né temporaneamente, né definitivamente, né localmente: il calore
affettivo, la famiglia, siano sostituiti da interventi che vi assomiglino il
più possibile, in modo che l'ambiente in cui essi si troveranno a vivere sia il
più possibile il loro» (13).
Le risposte a tutte le esigenze che consentono il
pieno sviluppo della persona umana, debbono trovare
attuazione nell'ambiente di vita della persona stessa. Se
i luoghi delle risposte sono separati dai luoghi dove nascono i bisogni,
l'intervento non è «comunitario». Viene semplicemente
sottolineato il bisogno, non la
persona che lo vive.
Se il diritto è all'intervento, nella comunità,
subito, occorre superare la polverizzazione delle strutture; occorrono servizi,
risposte programmate in base ai bisogni, non al prestigio delle opere;
interventi che unifichino le forze, non strutture che diversifichino
in base alla ideologia.
Quando il pluralismo, anziché essere inteso innanzitutto
come esigenza di rispetto delle diverse
ideologie all'interno dei servizi, diventa motivo per la moltiplicazione
degli enti, per consolidare e far sopravvivere certe istituzioni, si provocano di fatto fratture all'interno della comunità.
Con questo non si vuole negare il diritto-dovere
della Chiesa alle opere animate dalla «carità», né limitarne il campo. Dove per
«carità» si intende, però, il precetto evangelico
dell'amore, che si identifica con lo stesso «essere chiesa», quindi con tutti i settori della azione pastorale,
non solo con quello dell'assistenza. L'attuazione della « carità » deve
avvenire in tutta la chiesa locale, attraverso di essa
e dei suoi organismi per la pastorale e non può essere demandata ad una
struttura particolare.
Ancora: la «carità» non può essere sinonimo di
«opere», se per esse si intendono solo le strutture,
gli organismi, gli edifici, gli statuti, le tradizioni. È ogni azione che deve
essere animata dalla «carità»; espressione di quella fraternità che assume,
volta per volta, i «carichi» del prossimo, sia nell'impegno politico-sociale,
sia nel servizio profetico che - occupando gli spazi
scoperti - dà una risposta ai bisogni emergenti.
Non ci sembra si pongano su
questa linea, sia la richiesta di privatizzare le strutture e i servizi oggi
esistenti, sia la tendenza alla rinuncia, al disarmo, da parte di chi già opera
nelle istituzioni. È, invece, il momento di «passare alla comunità civile le
istituzioni che le sono proprie, preparando il passaggio in spirito di collaborazione, senza speculazioni o rimpianti»
(14).
Occorre battersi per impedire la sottrazione di
patrimoni al settore assistenziale, ma, contemporaneamente,
bisogna non privare gli attuali servizi della presenza, della esperienza,
della professionalità esistenti. In sintesi: il personale
qualificato può benissimo operare anche all'interno dei servizi degli enti
locali, senza nulla sottrarre al valore della propria testimonianza cristiana.
Ancora una volta, sembra il caso di richiamare la «Camminare insieme»: occorre
«vincere le tentazioni di un conformismo pigro e
inerte che trova più comodo fare ciò che si è sempre fatto, ciò che non
scontenta nessuno, invece, di domandarci che cosa esige da me, in questo
ambiente e in questo momento, l'adempimento del mio dovere» (15).
Né ci sembra corretta una attenzione
predominante, se non esclusiva, alle istituzioni assistenziali, alla volontà
dei fondatori, ai patrimoni, a scapito delle nuove forme di testimonianza: la
disponibilità delle famiglie ad accogliere un bambino in adozione o
affidamento, il volontariato in comunità-alloggio o per interventi di
assistenza domiciliare, la prestazione professionale dei credenti nei servizi
pubblici, l'impegno sociale per rimuovere le cause che provocano la situazione
di bisogno,...
Semmai, è proprio a queste ultime che la comunità
ecclesiale dovrebbe prestare una maggiore attenzione:
sia in termini di solidarietà con le famiglie o le persone disponibili, sia per
far conoscere le loro esperienze e proporle come modello alla società.
Responsabilità e partecipazione
«Bisogna stimolare la volontà di tutti ad assumersi
la propria parte nelle comuni imprese. È poi da lodarsi il modo di agire di
quelle nazioni nelle quali la maggioranza dei cittadini è fatta partecipe della
gestione della cosa pubblica in clima di vera libertà»
(16).
Al convegno «Evangelizzazione
e promozione umana», Roma, 1976, è stato
sottolineato che gli interventi per la sicurezza sociale «sono scarsamente
presenti nell'attenzione e nelle responsabilità della comunità cristiana» e
che «rispondere alle sofferenze degli emarginati non va considerato un
compito da delegare a gruppi e operatori assistenziali (religiosi o laici), ma
va considerato un dovere che investe tutta la comunità cristiana nel suo
insieme» (17).
Sicurezza sociale non può significare soltanto
usufruire di un servizio; è indispensabile la partecipazione
della comunità. Chi ha problemi non deve trovare soltanto una risposta sul
piano tecnico, ma avvertire la presenza della comunità, l'appoggio, la
partecipazione sul piano umano e sociale.
Chi ha bisogno non deve trovarsi da solo a chiedere
che vengano riconosciuti i suoi diritti. Tocca alla
comunità pretendere che a livello locale venga data la
risposta; tocca alla comunità battersi perché sia evitato l'allontanamento di
qualcuno dei suoi membri. Occorre, quindi, valorizzare l'impegno
politico-sociale, volto a prevenire e ad eliminare le cause dei problemi, per
non continuare a coprire azioni di delega e di supplenza, senza compiere -
contestualmente - quegli interventi di denuncia e di responsabilizzazione
nei confronti di chi ha il dovere di intervenire.
Conclusioni
La sicurezza sociale, così come la realtà storica di oggi la indica e la pretende, richiede alla
comunità cristiana l'assunzione di un nuovo ruolo: quello di interrogare i
«segni dei tempi», per comprendere che questi richiedono non la difesa delle
strutture, la tutela della volontà dei fondatori, la salvaguardia dei
patrimoni, ma l'attenzione prioritaria all'uomo, l'impegno a lievitare
dall'interno la vita sociale. Sino a giungere al superamento di strutture
proprie, per animare - invece - con la propria visione
specifica dell'uomo, della vita, della società, le analisi delle situazioni, la
ricerca di soluzioni, la creazione dei servizi, la verifica degli interventi.
(1) Cfr.
«Riforma dell'assistenza e privatizzazione delle Ipab»,
in Prospettive assistenziali,
n. 57, gennaio-marzo 1982, Torino, editoriale e «Posizioni dei partiti sulle Ipab», in Prospettive
assistenziali, n. 58, aprile-giugno 1982, pp.
6-11.
(2) Dopo la serie di emendamenti
presentati dalla DC nelle sedute del 4 e 11 febbraio 1982 in seno alle Commissioni
riunite Affari Costituzionali e Interni della Camera dei deputati, il relatore
onorevole Franco Bassanini (sinistra indipendente) ha
dato le dimissioni dall'incarico. A maggioranza, le Commissioni riunite hanno
chiesto ed ottenuto di trasferire il dibattito in aula. È
stata respinta, invece, la richiesta DC volta ad ottenere una nuova
proroga e continuare il lavoro in commissione.
(3) Cfr. Proposte di un programma pastorale in un
piano triennale di lavoro, Curia Metropolitana torinese, cicl., settembre 1974, Torino, p.
106.
(4) Cfr.
Gaudium et Spes, n.
4.
(5) Cfr. Redemptor hominis, nn. 14-16. «La chiesa non può abbandonare l'uomo (...) ogni
uomo, in tutta la sua irrepetibile realtà dell'essere e dell'agire,
dell'intelletto e della volontà, della coscienza e del cuore (...) l'uomo,
nella piena verità della sua esistenza, del suo essere personale ed insieme
del suo essere comunitario e sociale, nell'ambito della propria famiglia,
nell'ambito della società e di contesti tanto diversi
(...) quest'uomo è la prima strada che la chiesa deve
percorrere nel compimento della sua missione».
(6) Cfr.
Ad Gentes, nn.
11-12.
(7) Cfr.
Gaudium et Spes, n.
26.
(8) Cfr. G. Pagliarello, «Carità e assistenza», in Prospettive assistenziali, n. 21,
gennaio-marzo 1973, Torino, pp. 11-12.
(9) Cfr. L'apostolato dei laici, n. 8.
(10) Sul rapporto tra pubblico e
privato, cfr. C. Trevisan, Per una
politica locale dei servizi sociali, Il Mulino, Bologna, 1978, pp. 120-122
e, dello stesso, «Pubblico e privato: una diatriba da
superare», in Prospettive Sociali e
Sanitarie, n. 16, 15 settembre 1979, Milano, pp. 1-2.
(11) Cfr. l'editoriale di Prospettive
assistenziali, n. 13, gennaio-marzo 1971, Torino, p. 3.
(12) Cfr. card. M. Pellegrino, Camminare insieme. Linee
programmatiche per una pastorale della Chiesa Torinese, Ldc, Torino, 1971.
(13) Cfr. Proposte di un programma pastorale..., cit., p. 106.
(14) Cfr. L. Allais, «Carità e assistenza
nella chiesa di oggi», in Prospettive assistenziali, n. 14, aprile-giugno 1971, Torino, p.
32.
(15) Cfr. card. M. Pellegrino, cit., n. 18.
(16) Cfr. Gaudium et Spes, n.
31.
(17) Cfr. Evangelizzazione e Promozione
Umana, atti del convegno, Ave, Roma, 1977, p. 67 e p. 264.
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