Prospettive assistenziali, n. 60, ottobre - dicembre 1982
Editoriale
IL CAOS
ISTITUZIONALE: DAL DECENTRAMENTO ALL'ACCENTRAMENTO
Viviamo
in un periodo in cui l'ipocrisia regna sovrana. La crisi economica non consente
la creazione di strutture alternative per i 280 mila cittadini segregati in
istituti di ricovero, e si vogliono regalare ai privati almeno 20 mila miliardi
di patrimoni delle IPAB, Istituzioni pubbliche di assistenza
e beneficenza (1).
Ci
sono due milioni di disoccupati e nessuno muove un dito per debellare il
flagello del doppio lavoro, praticato, a seconda delle
ricerche, da un minimo di due ad un massimo di sei milioni di lavoratori.
Le
pensioni sociali e di invalidità sono talmente basse
da non garantire il minimo per vivere e si continua a richiedere
demagogicamente il loro adeguamento senza mettere in discussione le false
pensioni di invalidità e inabilità, ed i prepensionamenti assurdi (le laureate
dipendenti dello Stato possono andare in pensione dopo 14 anni, sei mesi e un
giorno e, in alcuni casi, anche solo dopo 11 anni).
In
sostanza si vorrebbe distribuire una maggiore ricchezza, senza preoccuparsi di
che cosa fare per avere i necessari mezzi economici.
Le autonomie locali
L'ipocrisia
imperante non risparmia il problema delle autonomie locali.
Negli
ultimi dieci-quindici anni, due sono stati i perni
delle lotte per le riforme della sanità e dell'assistenza: il superamento della
miriade di enti, organi e uffici esistenti;
l'unificazione di tutte le competenze nei Comuni. Sono questi, infatti, gli
enti più vicini ai cittadini e perciò più controllabili, anche perché í loro
amministratori sono democraticamente eletti con votazioni di primo grado.
Ma
la situazione dei Comuni italiani non è per nulla omogenea.
Vi sono Comuni troppo grandi (quelli delle grandi
città metropolitane), che non consentono una vera partecipazione di base. Altri
- la stragrande maggioranza - sono così piccoli, da non essere in grado di
gestire autonomamente tutti i servizi. In Italia, ben
4.700 Comuni su 8.086 - secondo i dati Istat del censimento del 1981 - hanno meno di tremila abitanti.
È ovvio che a questi non si può chiedere di assumere personale e di dotarsi di
strutture o attrezzature necessarie per garantire gli interventi
socio-assistenziali e sanitari.
Ecco,
dunque, la necessità di prevedere la creazione di aree
omogenee con una dimensione e un numero di abitanti tali da conciliare le due
esigenze fondamentali già ricordate: da un lato, assicurare una conveniente
gestione di tutti i servizi necessari, dall'altro consentire una effettiva
partecipazione delle forze sociali e dei cittadini.
Si
è sviluppato così il concetto di unità locale dei servizi», intesa non
come un nuovo ente, ma quale raggruppamento di più Comuni di ridotte dimensioni
(in linea generale, con popolazione totale tra i 50 ed i 100 mila abitanti), o
coincidente con il territorio delle circoscrizioni (quartieri) nel caso dei
grandi Comuni metropolitani. Doveva avvenire, cioè,
una unificazione di fatto dei piccoli Enti locali, altrimenti impossibilitati a
gestire qualunque servizio, ed un decentramento dei poteri nei grandi Comuni.
Quanto
all'organo vero e proprio che è preposto alla gestione dei servizi, questo
doveva essere individuato nella Associazione dei
Comuni nel caso di raggruppamento di piccoli enti locali (in modo da arrivare
gradualmente alla rifondazione dei Comuni) o nelle Circoscrizioni nel caso di
decentramento dei grandi Comuni.
Contrariamente
a questa linea di tendenza che ha costituito il filo conduttore delle lotte
degli anni settanta, negli ultimi tempi non si parla più di decentramento:
anzi, è in atto una operazione pericolosissima di
segno opposto: la creazione di almeno cinque Province metropolitane (2) (Genova, Milano, Napoli, Roma e Torino).
Questo
nuovo ente dovrebbe comprendere il comune capoluogo e tutti i comuni
dell'hinterland. I Consigli comunali dei Comuni
facenti parte della Provincia metropolitana verrebbero
sciolti.
Si
arriverebbe così a costituire organismi aventi da 2 a 4 milioni di abitanti, con enormi poteri. Per la gestione dei servizi,
da effettuare secondo le direttive del Comune
metropolitano, verrebbero create le Municipalità. che
non sono sostanzialmente diverse dai Consigli di quartiere previsti dalla
legge 8 aprile 1976 n. 278 (3).
Il
disegno di legge «Ordinamento delle autonomie locali», approvato dal Consiglio
dei ministri l'8 luglio 1982 prevede, agli articoli
12-13-14, quanto segue: «Si
considerano aree metropolitane le zone del territorio
nazionale con una popolazione residente non inferiore ai 1.000.000 abitanti,
caratterizzate dalla aggregazione, intorno ad un Comune di almeno 400.000
abitanti, di più Comuni i cui centri urbani abbiano tra loro continuità di
insediamenti e rapporti di integrazione in ordine alle attività economiche, ai
servizi essenziali e alla vita sociale. Sono riconosciute a tutti gli effetti le aree metropolitane di Roma, Milano, Napoli,
Torino e Genova. Le aree metropolitane possono essere costituite in Province
metropolitane con legge della Repubblica (...). Alla Provincia metropolitana
sono attribuite, oltre alle funzioni conferite dalla presente legge alle
province, quelle spettanti ai Comuni in materia di assetto
e di utilizzazione del territorio nonché l'organizzazione e le prestazioni dei
servizi che più direttamente vi sono connessi e che saranno individuati a norma
del primo comma, lettera A, della IV disposizione transitoria».
Il
potere fa gola e sono già venti i Comuni che hanno chiesto al Ministro
dell'interno di diventare Province metropolitane.
In
sostanza si profila un accentramento di poteri come
nessuno, finora, si era mai sognato di ipotizzare (4).
Sulla
creazione delle Province metropolitane concorda anche il PCI, come risulta dalla risoluzione approvata dalla direzione
comunista il 21 luglio 1982. Inoltre è stata richiesta dal
PSI nel corso del convegno nazionale «Dai quartieri il governo della città. Il
PSI per il decentramento (sic!) per
uscire dal labirinto», svoltosi a Torino
il 16-17-18 gennaio 1982.
Questo
mostruoso accentramento di poteri viene proposto -
ripetiamo - quando da anni è apparso evidente che per una partecipazione più
pregnante dei cittadini, per una macchina pubblica più tempestiva e più
aderente alle esigenze della popolazione, era necessario decentrare ai Comuni
singoli o associati poteri dello Stato e sciogliere la miriade degli enti
burocratici e settoriali.
Il
DPR 24 luglio 1977 n. 616 ha rappresentato l'occasione
storica e forse irripetibile per il decentramento dei poteri, per il
riordino delle autonomie locali e per una organizzazione e gestione dello
Stato più democratiche e quindi meno separate dalla realtà.
L'impreparazione
delle forze politiche (questa constatazione riguarda soprattutto i partiti di sinistra che erano quelli che più avevano lottato per una
nuova qualità della vita) rischia di determinare il fallimento
dell'operazione.
Lo
strangolamento della partecipazione autonoma dei movimenti di base,
l'incanalamento di numerosi cittadini nei diversi comitati settoriali di
cogestione (dagli asili nido ai consultori familiari, dai consigli di circolo
e di istituto ai consigli dei distretti scolastici),
hanno fiaccato, chissà per quanto tempo, l'interesse al cambiamento delle
forze più vive della popolazione, non legate a questo o a quel partito e quindi
anche meno influenzate dal clientelismo e dal carrierismo.
In
secondo luogo i partiti, in special modo il PCI, con stravagante demagogia,
hanno lanciato la parola d'ordine di creare, in applicazione della legge 8
aprile 1976 n. 278, consigli di circoscrizione ovunque, anche nei Comuni così
piccoli o aventi come confinanti entità comunali di così ridotte dimensioni da rendere indispensabile il loro raggruppamento,
anziché la loro ulteriore suddivisione.
Inoltre,
in mancanza di un disegno politico complessivo, i partiti hanno delegato ai
tecnici il compito di creare zonizzazioni diverse a seconda
dei diversi tipi di intervento. Si sono così avute Unità locali con
ambiti territoriali diversi a seconda che si trattasse di sanità o di diritto
allo studio, di servizi culturali o di formazione professionale.
In
seguito - finalmente, anche se il tempo perso ha creato guasti non sanabili a
tempi brevi - i politici hanno capito che non erano sostenibili le zonizzazioni
settoriali che potevano diventare tantissime: si è così arrivati sulla carta, anche
se ancora raramente nella realtà, alla zonizzazione unica (5).
Tuttavia,
nel caso migliore, la zonizzazione unica riguarda sanità, assistenza e
distretti scolastici e il governo unico i primi due
settori (6). Non c'è zonizzazione unica, né unico governo per tutti gli altri settori: formazione
professionale, assistenza scolastica, sport, cultura, turismo, agricoltura,
artigianato, ecc.
E
tutto ciò, mentre vi sono migliaia di Comuni con poche centinaia di abitanti che non sono in grado di fare da soli nulla di
positivo: rappresentano uno sperpero di risorse umane ed economiche ed un
ostacolo alla creazione di un organo di governo locale in grado di rispondere
alle esigenze della popolazione.
Ma vi è ancora di peggio. Le Regioni
creano le Associazioni intercomunali per la sanità (e in certi casi anche per
l'assistenza), ma esse non hanno alcun rapporto con i Comuni. Anche gli statuti delle Associazioni, per lo più, ignorano
questo problema di fondamentale importanza.
È
qui che inizia la presa in giro e questa dura ormai da quattro anni. Si dice che l'Associazione dei Comuni non è un ente, è lo
strumento dei Comuni. Ma al massimo i Comuni nominano i loro rappresentanti
nelle Assemblee delle Associazioni intercomunali (7), e non hanno alcun potere di intervento nelle decisioni
dell'Associazione, né possono revocare i propri rappresentanti se seguono
linee non condivise dal Comune che li ha nominati. Le Associazioni, in genere,
non sono nemmeno tenute a trasmettere ai Comuni copia
delle proprie deliberazioni.
Per
i Comuni comprendenti una o più unità locali sono
successe cose incredibili. Già competenti per un insieme di materie, era
logico pensare che ad essi venissero attribuite anche
le competenze sanitarie.
Invece
no. Il Comune viene spaccato
in due: il vecchio Comune gestisce tutto escluso la sanità; il Comitato di
gestione amministra solo la sanità (8).
Anzi,
se il Comune deve mettere a disposizione qualche suo
strumento o struttura per la sanità, i due organismi devono stipulare una convenzione
in cui siano precisati i reciproci impegni, i corrispettivi e le altre
obbligazioni. Insomma si devono comportare come due enti distinti e pienamente
autonomi l'uno dall'altro.
Questa
nuova pericolosa linea di tendenza che sta emergendo a livello politico, oltre
a creare una grave confusione nell'opinione pubblica, alimenta
il caos istituzionale, anziché comportare la necessaria semplificazione degli
organi di gestione dei servizi. E quello che
preoccupa è vedere che questa tendenza sta facendo proseliti.
Sono
sempre più numerose le zone che chiedono la
istituzione ed il riconoscimento di nuove Province, in contrapposizione netta
con le elaborazioni maturate negli ultimi anni che indicano in queste un ente
oramai superato e, secondo molti, inutile.
La
riforma dell'assistenza - bloccata in Parlamento - prevede nuovi compiti per
le Province: in particolare (art. 8), l'elaborazione del piano di sviluppo dei servizi sociali.
Si
parla di nuove Province, si danno a queste nuove
competenze programmatorie, e si tace di fronte al
fallimento dei comprensori, istituiti da pochi anni ed oggi caduti nel
dimenticatoio.
Si
riparla di enti con compiti di programmazione (le
Province) e di altri con compiti di gestione (Comuni singoli o associati, Unità
locali... e chi più ne ha più ne metta), dimenticando o facendo finta di
dimenticare che l'esperienza di dividere gestione da programmazione si è
rivelata un grande fallimento. Quello che occorre, infatti, a livello locale
non è la programmazione, ma una gestione programmata. E per far questo non occorrono due o più enti. Ne basta uno, che gestisca gli interventi, i servizi... non con la politica
del giorno per giorno.
Di
fronte al pericolo di una nuova giungla istituzionale, noi restiamo fermi
sulla linea che ha rappresentato l'obiettivo delle lotte per le riforme e che
ci sembra a tutt'oggi la più idonea ad assicurare
tutti i servizi di base ai cittadini, garantendone la loro partecipazione:
rifondazione dei Comuni (aggregazione di quelli più
piccoli nelle Associazioni, decentramento degli enti locali metropolitani
nelle circoscrizioni), unificazione di tutte le competenze e della gestione di
tutti i servizi di base nelle «Unità locali».
Una linea che si contrappone storicamente alla tendenza
attuale. Nel caos istituzionale oggi esistente,
invece di mettere ordine, le forze politiche vogliono aumentare ancora fa
confusione. Sembra che ipocrisia e autodistruzione si siano alleate.
(1) Cfr. Prospettive assistenziali, n. 57, gennaio-marzo 1982, pp. 1-12.
(2) Alcuni parlano,
invece, di Comuni metropolitani: è la stessa cosa.
(3) Poiché i Consigli
di quartiere (ai quali, spesso, non sono stati trasferiti reali poteri, neanche
quelli previsti dalle più recenti riforme) sono ritenuti oramai organismi
«squalificati», si è cercato un nuovo nome, anziché metterli in grado di
funzionare.
(4) Cfr. anche «Proposta di riforma
delle autonomie locali» in Prospettive assistenziali, n. 51, luglio-settembre 1980, pp. 23-36.
(5) Ricordiamo che il
DPR 24 luglio 1977 n. 616 obbligava la Regione a definire «ambiti territoriali
adeguati alla gestione dei servizi sociali e sanitari» e attribuiva alla stessa
il compito di promuovere «forme anche obbligatorie di associazione» fra i
Comuni. Ancora più precisi gli ultimi due commi dell'art. 11 della legge 23
dicembre 1978 n. 833: «Le Regioni, sentiti i Comuni interessati determinano gli
ambiti territoriali delle unità sanitarie locali che debbono
coincidere con gli ambiti territoriali di gestione dei servizi sociali.
All'atto della determinazione degli ambiti di cui al comma precedente, le
Regioni provvedono altresì ad adeguare la
delimitazione dei distretti scolastici e di altre unità di servizio in modo che
essi, di regola, coincidano».
(6) Per l'assistenza
resta, inoltre, la possibilità di gestire alcuni servizi da parte dei singoli
Comuni facenti parte dell'Associazione. Tale possibilità è esclusa - a partire dal 1° gennaio 1985 - solo dalla legge della
Regione Piemonte 23 agosto 1982 n. 20, che riportiamo in questo numero.
(7) La legge regionale
piemontese - ad esempio - non prevede la designazione dei membri dell'Assemblea
da parte dei Comuni, ma la nomina avviene tramite due collegi elettorali: il
primo per i Comuni con meno di 5.000 abitanti, l'altro per quelli con
popolazione superiore. Ne deriva che gli eletti nell'Assemblea
dell'Associazione non rappresentano il Comune, ma l'entità astratta rappresentata
dal collegio elettorale.
(8) Anche l'Assemblea
dell'Unità sanitaria locale non coincide con il Consiglio comunale in quanto ne
fanno parte i non consiglieri comunali nominati nel consiglio di gestione.
Molte leggi regionali vietano che i sindaci dei Comuni comprendenti una o più
unità locali possano presiedere il Comitato di
gestione.
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