Prospettive assistenziali, n. 60, ottobre - dicembre 1982
Notiziario dell'Associazione nazionale
famiglie adottive e affidatarie
ADOZIONE:
LA PAROLA AI GENITORI (1)
GIANCARLO DURELLI
Leggendo i lavori scientifici di Spitz
e Bowlby o il racconto delle esperienze
dell'abbandono e dell'istituzionalizzazione così come
le ha descritte nel suo libro Neera Fallaci ciò che più ci ha colpito è il
segno della sofferenza lasciato dal gelo della solitudine affettiva.
Sappiamo infatti che lo
sviluppo psicologico del bambino evolve oltre che dal patrimonio biologico
anche dalla capacità della madre di ascoltare ed accogliere tutti i segnali
del piccolo, di tradurli, trasformarli e rimandarglieli attraverso risposte che
possono soddisfare adeguatamente i suoi bisogni sia fisici che psicologici;
solo a queste condizioni il bimbo può crescere psicologicamente e passare,
attraverso tappe successive, da «infante» quasi indifferenziato dalla madre e
da essa dipendente per la propria sopravvivenza, a individuo autonomo,
«soggetto» in rapporto con altri soggetti.
Se la madre non c'è od è inadeguata, se l'ambiente-istituto invece di accettare e soddisfare i
bisogni del bimbo cerca di uniformarlo passivamente alle sue leggi, se al
posto del calore affettivo che comprende, il bimbo incontra il gelo che
paralizza, egli invece di crescere psicologicamente verso l'autonomia, sarà
bloccato nella dipendenza o seguirà linee evolutive distorte e patologiche ed
il segno dell'abbandono affettivo rimarrà come ferita che, se profondo, un
nuovo ambiente, quello di una famiglia disponibile, potrà
solo curare o lenire ma mai guarire completamente.
Se quindi l'ambiente affettivo rappresenta una delle
condizioni per il corretto sviluppo psicologico del
bimbo, possiamo individuare alcune caratteristiche ambientali relative
all'abbandono e all'istituzionalizzazione che in rapporto alla loro precocità
di insorgenza e alla loro durata determineranno la maggior o minor gravità dei
disturbi.
Innanzi tutto vi è una diretta proporzionalità tra
durata dell'abbandono e gravità dei disturbi. Più la separazione è precoce e
l'istituzionalizzazione è lunga più i segni sono profondi e marcati. Non solo
le osservazioni di molti medici e psicologi ma le stesse testimonianze di molti
ragazzi e ragazze vissuti in istituto ci confermano
questa drammatica certezza. Come la necessità di cibo e d'acqua aumenta più
lungo è il tempo di astinenza fino a minare
l'organismo giungendo ad un punto dal quale non si può più tornare indietro
ed il danno diventa irreversibile, così la fame di affetto se prolungata non
può più essere soddisfatta dalle cure che una famiglia può dare perché si
giunge ad un punto in cui non c'è solo incapacità a chiedere ma anche a ricevere
affetto.
Scriveva Spitz che se ad un
bimbo non viene dato amore egli diventerà un adulto
carico di odio ma anche quando questa fame affettiva viene lenita dalle cure e
dalla disponibilità di una nuova famiglia, spesso il vuoto è così profondo che
non potrà mai essere completamente colmato.
Se il tempo è un elemento che ci indica
la gravità del danno c'è da chiedersi perché perdere tempo dietro a lungaggini
burocratiche in nome di un diritto del sangue che aumenta la sofferenza invece
di tutelare il bimbo in stato di abbandono.
I segni lasciati nell'evoluzione psicologica dipendono
anche dal momento in cui il bimbo è stato abbandonato e se è riuscito in seguito
ad avere rapporti con «sostituti materni» che almeno in parte siano riusciti ad
attenuare le carenze delle cure affettive.
Se un bimbo viene
abbandonato alla nascita e rimane in tale stato per lungo tempo, solo a fatica
e sempre parzialmente riuscirà a ricostruire le tappe evolutive mancanti e sarà
un bimbo che chiederà sempre amore riuscendo raramente a contraccambiare; un
bimbo invece che è riuscito ad instaurare legami affettivi sufficientemente
validi con la famiglia naturale o con un ambiente sostitutivo di esso, anche se
in seguito verrà abbandonato sarà in grado di ricostruire i legami interrotti
se sarà accolto in una famiglia che possa accettare la sua storia ed i suoi
problemi.
Un altro elemento importante oltre alla durata e
all'insorgenza dell'abbandono per valutare la gravità dei disturbi evolutivi è
la successiva e ripetuta rottura dei legami affettivi.
I bimbi che sono stati trasferiti in più istituti o
che hanno subito successivi traumatici abbandoni da parte di famiglie che li
avevano accolti, e sappiamo che questi casi sono abbastanza frequenti, perdono
ogni fiducia nell'adulto, che viene vissuto solo come
figura che può dare dolore, non riescono di conseguenza a creare legami
affettivi che li sostengano nella loro evoluzione e rischiano di vivere nel
costante terrore di un ulteriore abbandono anche quando incontreranno una
famiglia che li accoglierà e cercherà di dar loro certezze.
Anche se è impossibile generalizzare possiamo vedere
nella insicurezza, nell'egoismo, al limite della
maniacalità, nel senso di solitudine e nella profonda depressione i segni
principali lasciati dalle carenze affettive e dall'istituzionalizzazione.
La famiglia adottiva
Seguendo i concetti della cibernetica e della
pragmatica della comunicazione umana la famiglia è un
sistema autocorrettivo che si autogoverna
mediante regole costituitesi nel tempo attraverso tentativi ed errori; essa,
in quanto sistema vivente, costituisce una totalità che non può essere ridotta
alla semplice somma dei suoi membri ma ne è indipendente; essa quindi è caratterizzata
da processi di autocorrezione e da processi di
trasformazione, processi contrastanti che ne determinano l'equilibrio e
l'evoluzione.
I processi di autocorrezione tendono alla omeostasi
familiare; attraverso essi la famiglia si mantiene costante entro una gamma di
variazioni definite.
In ogni famiglia vi è un certo grado di retroazione negativa, una resistenza cioè al cambiamento che permette
di sopportare le tensioni imposte dall'ambiente e da ciascun membro, tale
resistenza h organizzata in regole che spesso non sono né conscie
né esplicite.
Quanto più la famiglia è patologica tanto più essa é rigida e refrattaria a qualsiasi cambiamento. Ma la famiglia è anche un sistema di trasformazione ed in
quanto tale ha in sé una potenzialità ad accettare la novità per approfondire
la conoscenza.
Autocorrezione e trasformazione sono due
elementi contrastanti che attraverso l'interrelazione reciproca permettono di
mantenere il sistema familiare in un equilibrio sempre provvisorio che ne
garantisce la costante evoluzione.
Quanto più la famiglia è rigida e refrattaria al
cambiamento tanto più rifiuterà ogni sollecitazione a
trasformarsi, proveniente dall'ambiente esterno o dal proprio interno, e
l'immobilismo coi tempo sarà la causa prima del suo fallimento; nello stesso
tempo è necessaria una certa stabilità perché la famiglia possa essere
definita come sistema e possa adempiere alle sue funzioni nel contesto
sociale.
In questa versione la famiglia che desidera adottare
e che quindi si propone di mutare nel proprio interno un equilibrio
precostituito dovrà avere cariche trasformative che
le permettano di adeguarsi alla novità dell'adozione,
che le permettano cioè di adattarsi alla diversità del bimbo adottivo senza
costringerlo ad uniformarsi a regole familiari considerate immutabili.
Essa deve quindi essere in grado di vivere la spinta innovativa dell'adozione come momento di crescita e
non di disturbo, come momento di trasformazione e non di irrigidimento, deve essere
in grado di ristrutturarsi come nuovo sistema attraverso la centralità dei
bisogni del bimbo adottivo senza che gli altri membri perdano la propria
identità e rinuncino alla propria individualità ma trovino nella totalità
dell'insieme la capacità e la spinta al cambiamento.
La famiglia adottiva ed il bimbo
Con l'adozione il sistema
familiare si trova ad accogliere un nuovo venuto estraneo, anche se desiderato,
e i genitori in particolare, si trovano a vivere ansie e preoccupazioni per un
bimbo che non conoscono e che è portatore di una storia diversa dalla loro
storia familiare.
Il bimbo adottivo, specialmente se già grande e
quindi con una sua storia personale, quasi sempre sofferta che ne accentua la diversità, viene spesso vissuto
inconsciamente come estraneo, si cerca allora di assimilarlo a ruoli familiari
precostituiti, ruoli che sono conosciuti alla famiglia e non creano ansia,
rifiutando così la diversità della storia individuale.
A riprova di quanto detto vorrei ricordare come,
nonostante la divulgazione di studi scientifici sull'influenza
dell'ereditarietà e dell'ambiente sull'evoluzione psicologica del bimbo, ancor
oggi ci troviamo, nella nostra esperienza di incontri
con famiglie adottive, a dover rispondere a molte domande sulla possibile «ereditarietà
morale»; molto spesso i genitori si interrogano sulla possibile influenza
ereditaria di un padre delinquente o di una madre prostituta sull'evoluzione
del bimbo quando questi ha vissuto poco tempo in questo ambiente e quindi non
ne è stato influenzato.
Ma dobbiamo ammettere che, anche se a livello razionale siamo consci che non esiste il gene della
delinquenza o della prostituzione, noi stessi, come credo molti altri genitori
adottivi, di fronte al peso di una adozione difficile avremmo ben voluto
pensare che le difficoltà potessero nascere da una malattia genetica che
potesse giustificare i nostri insuccessi.
Ci siamo anche chiesti perché certe famiglie adottive
tendano a mimetizzarsi nella uniformità della famiglia
naturale ed abbiano spesso difficoltà di parlare con gli altri di adozione, e
dei relativi problemi o desiderino negare l'adozione chiedendo di cambiare il
nome al figlio adottivo per sentirlo più proprio (o di loro proprietà?). Crediamo
che in questi casi l'adozione e di riflesso il bimbo adottato, siano vissuti come elemento di diversità e di disturbo da
uniformare il più possibile alle regole e alle aspettative familiari.
Per inciso dobbiamo dire che
tale problema viene spesso vissuto anche dalla famiglia naturale, quando
alcuni membri, spesso i genitori, non accettano i cambiamenti degli altri. Il
figlio naturale che non si adegua alle aspettative dei
genitori viene allora stigmatizzato come diverso, come «pecora nera», marchio
negativo che può annullare una positiva ricerca della propria individualità.
Se per l'adozione di un bimbo piccolo il problema si
pone solo come scelta familiare tra il vivere l'adozione come momento di evoluzione e di apertura verso gli altri o di negarla e
cancellarla per timore del cambiamento, la situazione si complica nelle
adozioni di bimbi grandicelli.
In questi casi il peso dell'abbandono e dei ricoveri
in istituto è evidente, la storia individuale del bimbo è fatta di ferite, di
rifiuti, di legami affettivi spezzati ma qualche volta anche di
affetto ostacolato da una realtà difficile da affrontare: tutti segni
di una famiglia d'origine che non si deve né cancellare né mitizzare.
Ma il bimbo grandicello,
proprio perché la sua storia è sempre difficile, porta maggiormente il segno
della diversità, segno che a volte lancia come sfida nella costante
provocazione e ribellione che altre volte lui stesso cerca di nascondere
nella quiescenza passiva alle regole familiari.
I messaggi che ci manda spesso sono contraddittori e
confusi e quasi sempre difficili da decifrare, spesse
volte la provocazione è una richiesta di affetto, ma è assai difficile
rispondere con amore ai costanti attacchi, e la passività è una domanda di
aiuto per ritrovare la propria autonomia.
Di fronte a queste comunicazioni contraddittorie, a
questi messaggi che il bimbo invia e che spesso indicano il loro opposto, la
famiglia adottiva si può trovare disorientata e può cercare di creare al proprio interno alleanze che isolano il bimbo adottivo
come diverso quando non si è riusciti ad uniformarlo come eguale all'interno
del nucleo familiare.
La storia individuale del bimbo adottato verrà in
questi casi o negata o utilizzata come segno di diversità che ripropone una emarginazione; ed il bimbo, di fronte a questi
comportamenti non può avere che due risposte, o adeguarsi passivamente
negandosi, come spesso era obbligato a fare in istituto per sopravvivere, o ribellarsi
costantemente fino a creare, quando il sistema familiare non è in grado di
trasformarsi, una rottura ed evidenziare così un rifiuto che prima esisteva
solo mascherato.
Ma la famiglia adottiva può, di fronte agli atteggiamenti
contrastanti e contraddittori del bimbo che ha accolto, comportarsi in modo
diverso, può, invece di allontanarsi rifiutando, cercare di conoscere
avvicinandosi.
La comprensione, che, sappiamo,
parte da una disponibilità di accettazione dell'altro e permette
l'avvicinamento e l'adattamento reciproco, consentirà al nucleo familiare di
trovare risposte adeguate alla nuova situazione.
Ciò presuppone che la famiglia adottiva superi la
fase della sicurezza delle regole imposte dalla fissità dei ruoli, sicurezza
solo apparente che nasconde l'immobilismo e la paura di vedere, e trovi nella
comprensione del bimbo adottivo motivi di reciproca conoscenza, di aiuto.
Così come la madre nel rapporto col proprio bimbo
deve essere in grado di ascoltarne i gesti e i suoni per capirne i bisogni e
per poterli soddisfare permettendo così al piccolo di
passare lentamente da una fase di completa dipendenza fisica e psicologica ad
una fase di crescita verso la propria autonomia, così la madre adottiva e l'intero
nucleo familiare debbono non solo accogliere fisicamente il nuovo venuto ma
cercare di comprenderne i bisogni per permettergli di raggiungere la propria
individualità.
Ma la comprensione del bimbo adottivo è possibile
solo quando nell'interno di ognuno e dell'intera famiglia vi è disponibilità e
spazio per le richieste, a volte angoscianti, che egli proietta, richieste che
se capite ed accolte possono venir trasformate in
spinte di autonomia e di crescita. A livello del singolo si può dire che l'accettazione e la comprensione sono possibili
solo quando si sia raggiunto un sufficiente equilibrio nel proprio mondo
interno, quando cioè siamo in grado di accettare e di tollerare le inevitabili
tensioni che la vita comporta per utilizzarle come esperienza di
trasformazione e di maturazione. A livello del nucleo familiare nel suo
insieme possiamo dire che per accogliere, accettare e
comprendere il bimbo adottivo, la famiglia deve essere in grado di adattarsi
alla nuova situazione rielaborando í propri schemi di comportamento che il
nuovo bimbo ha certamente modificato, una rielaborazione che va fatta, perché
l'adozione possa riuscire; in funzione di una esperienza di crescita di tutto
il nucleo familiare.
Per far questo la famiglia adottiva non deve avere nel proprio interno tensioni tali che ne impediscano la
disponibilità di accettazione, deve essere in grado di tollerare quelle
provocate dall'adozione ed infine deve poter trarre da questa nuova esperienza
una possibilità di arricchimento collettivo.
In altre parole deve essere in grado di vivere
l'esperienza dell'adozione come una trasformazione
creativa della quale i singoli membri e l'intero nucleo familiare ne esce
arricchito.
Queste considerazioni ci pongono alcuni problemi
importanti.
Innanzi tutto l'adozione non
può mai essere considerata come una soluzione di problemi della famiglia
naturale irrisolti; il figlio, in particolare se adottivo, non risolve i
problemi della coppia che deve trovare nella propria reciproca relazione
motivo di coesione e di crescita.
In secondo luogo nell'inserimento di un nuovo bimbo
occorre saper valutare i limiti di adattabilità della
famiglia adottiva; al di là di una soglia che varia in relazione alla capacità
di adattamento dell'intero nucleo, la famiglia non è in grado di reggere le
tensioni provocate dall'inserimento e rischia di disgregarsi distruggendo tutti
i legami affettivi creati nel proprio interno.
Occorre infine ricordare che le capacità di accettazione e di crescita, se devono esistere come
potenziali familiari, possono essere stimolate dall'esterno sia da parte degli
operatori sociali che svolgono sempre una funzione importante nella riuscita
della adozione, specialmente nelle prime fasi dell'inserimento in cui la
famiglia adottiva deve ritrovare nel proprio interno un nuovo equilibrio ed un
nuovo sviluppo, sia da parte di gruppi di famiglie adottive che possono promuovere
insieme un processo di automaturazione reciproca.
La riuscita dell'inserimento del bimbo adottivo
comporta una sua completa accettazione come soggetto portatore di una sua
individualità; i genitori adottivi devono comunicargli in tempo, e non appena
è in grado di comprendere, che lui è stato adottato attraverso una scelta che,
proprio perché volontaria, rafforza i legami affettivi; l'adozione non deve
però divenire una bandiera da mostrare costantemente in pubblico altrimenti verrà svuotata del più intimo contenuto affettivo.
Il bimbo adottivo deve esser aiutato ad accettare la
sua storia individuale passata, così un domani, divenuto adulto, potrà se ne
sentirà la necessità, ricercare i ricordi della sua infanzia, frammenti di una
storia vissuta prima dell'adozione attraverso una nascita, un abbandono e una istituzionalizzazione.
Anche se è vero che ci sono momenti della propria
vita come nell'adolescenza, in cui si vivono con
troppa conflittualità i drammi della prima infanzia e dove diviene allora
compito dei genitori impedire che il ragazzo adottato si trovi a confronto con
tensioni per lui troppo grandi da sopportare: riteniamo che, superata questa
fase, egli stesso possa accostarsi alla propria storia passata per ricostruire
quelle tappe che, anche se dolorose, possono aiutarlo nell'edificazione della
sua personalità.
L'adozione pone quindi problemi di ridefinizione delle relazioni
familiari e problemi di accettazione di un nuovo adattamento, e trova, in comportamenti
di crescita e di sviluppo, e non di regressione e di difesa, la maturazione e
l'arricchimento dell'intero nucleo familiare.
Tale nuovo adattamento a volte è difficile e
faticoso, specialmente perché il bimbo adottivo, per i suoi grandi bisogni
affettivi, pone interrogativi ben difficili da decodificare ed è estremamente
pesante la ricerca di risposte adeguate.
I comportamenti di disconferma
che lo annullano e quelli di negazione che lo isolano
servono solo ad allontanare il bimbo da quei legami affettivi dei quali ha
bisogno come cibo vitale per la sua crescita psicologica.
Rimangono le risposte di conferma che sappiamo sia l'unica risposta che dà al bimbo adottivo la
speranza di uscire dalla sofferenza psicologica che l'abbandono ha provocato.
Confermare al bimbo la sua accettazione in quanto
membro della famiglia adottiva ed adeguarsi ai ritmi dei suoi bisogni senza
cadere nel soffocamente simbiotico che avviene
soddisfacendo indiscriminatamente ogni richiesta, sono le condizioni
preliminari che permettono al bimbo adottivo di acquisire quel minimo di
fiducia nella vita che può riattivare il germe della sua crescita psicologica.
A volte il cambiamento è improvviso, altre volte, specialmente quando la ferita dell'abbandono è molto
profonda, è lento e faticoso, spesso limitato, ma sempre, quando l'adozione
non si risolve in un ulteriore rifiuto, qualcosa si trasforma non solo nel
bimbo ma nell'intero nucleo familiare; lo abbiamo osservato in molte famiglie
adottive e lo abbiamo vissuto, come genitori, nella nostra esperienza diretta.
Ma quello che vorremmo sottolineare
è che l'adozione, nel ridefinire tutti i comportamenti familiari, è
un'esperienza che trasforma evolutivamente l'intera
famiglia.
Attraverso le tensioni superate e le difficoltà
affrontate, tutta la famiglia esce arricchita di una
nuova disponibilità verso la vita e verso gli altri e questa trasformazione ha
un potenziale che può andare ben al di là del nucleo familiare e può portare la
famiglia adottiva ad una nuova visione del mondo e nuovi rapporti con gli
altri.
In effetti, partendo da una scelta di
accoglienza dell'altro nella propria famiglia e ampliando uno spazio
nato da una disponibilità interna si può giungere ad una maggiore apertura verso
gli altri in una visione del mondo più accettante e più accogliente.
Ecco allora che l'adozione, come l'affidamento
familiare e come qualsiasi manifestazione di accoglienza
dell'altro, ha in sé, se compresa nella sua essenza, una carica rivoluzionaria,
in quanto trasformazione di rapporti, che partendo dall'individuale può
arrivare al sociale spingendosi oltre la famiglia.
La trasformazione, vera e propria rivoluzione
copernicana, sta nel porre l'altro più debole al centro dell'accoglienza,
riconoscendo ed accettando i suoi diritti e principalmente il diritto ad
essere compreso da un ambiente, quello familiare, che
permetta al bimbo di portare avanti il proprio cammino verso il raggiungimento
della soggettività d'adulto, nonostante ed a dispetto delle ferite lasciate
dall'abbandono.
(1) Relazione tenuta all'Assemblea dei
Soci dell'Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie, tenutasi a
Trieste il 9 e 10 ottobre 1982.
www.fondazionepromozionesociale.it