Prospettive assistenziali, n. 61, gennaio - marzo 1983

 

 

RIFLESSIONI SUL LIBRO «CAMBIARE GENITORI»

GIANCARLO DURELLI

 

 

In un momento di riflessione sulla legge dell'a­dozione speciale, dopo più di 15 anni di sua appli­cazione in Italia, il libro della Dell'Antonio «Cam­biare genitori» (1) pone alcuni interrogativi in­teressanti che dovrebbero far meditare tutti colo­ro che hanno vissuto o direttamente come geni­tori e come figli o indirettamente come operatori sociali l'esperienza della adozione.

L'immagine del Mosè salvato dalle acque di Raffaello, posta sulla copertina del libro evoca in me non solo il momento dell'adozione del piccolo infante sottratto alla forza del Nilo, ma anche l'affrancamento dalla schiavitù e dalla dipenden­za di tutto un popolo che viene condotto proprio attraverso una adozione iniziale verso un lento e difficile cammino di individuazione.

Un'immagine che ci conduce anche al tema principale del libro, a volte forse non ben marca­to, ma sempre sotteso tra le righe: l'adozione, se vissuta pienamente, provoca in tutta la famiglia un cambiamento che ha il senso di una rivoluzio­ne, perché il bimbo non trova ma cambia i geni­tori, ed i genitori, sia se sono già tali perché han­no figli naturali, sia se lo diventano per la prima volta con l'adozione, devono, per accogliere il nuovo venuto, mutare i loro schemi di vita e mol­te volte la loro visione del mondo se vogliono vivere l'adozione come una esperienza di cresci­ta e di conoscenza di tutta la famiglia.

Un cambiamento non facile non solo per il bim­bo, ma anche per i genitori adottivi.

Un cambiamento che implica una conoscenza per poter camminare insieme fino al bivio della separazione, là dove le strade si dividono quando il bimbo ha iniziato il cammino della propria indi­viduazione e, divenuto adulto, è in grado di portar­lo avanti in piena autonomia.

Un cambiamento che implica una accettazione di un passato vissuto prima dell'adozione, ma a volte taciuto o negato per paura di scontrarsi con i fantasmi dei genitori biologici e confrontarsi con la propria origine e col senso della propria vita, un confronto che vale non solo per il bimbo ma anche per i genitori adottivi.

Nell'ottica di contrastare la faciloneria di certi operatori sociali che vedono nell'adozione la pa­nacea per risolvere ogni problema di abbandono e che spesso utilizzano l'adozione e l'affidamen­to, come in passato avevano utilizzato l'istituto, per allontanare e rimuovere un problema scot­tante e coinvolgente come quello del dolore del bimbo abbandonato, l'Autrice sottolinea, già nel­la premessa, le difficoltà del rapporto tra genitori e figli adottivi, difficoltà che, se non devono es­sere taciute, non devono essere enfatizzate e con­siderate come ostacoli quasi insuperabili (come a volte il libro sembra affermare), ma viste come stimolo per comprendere meglio e più a fondo il significato dell'esperienza di adozione.

Ma ritorniamo al libro. L'Autrice percorre il cammino storico dell'adozione: dal Medioevo do­ve i bimbi abbandonati erano considerati «figli del peccato» e, se accolti in famiglia, venivano quasi sempre confermati nel marchio della diver­sità; all'inizio del nostro secolo dove, con i primi studi psicologici, il bimbo inizia ad essere con­siderato come individuo, con propri bisogni e di­ritti, in particolare dove viene riconosciuta la ne­cessità, per il buon sviluppo evolutivo, di rapporti affettivamente validi con l'adulto fin dai primi mo­menti della vita, ma dove il bimbo abbandonato, almeno in Italia, viene ancora considerato come proprietà e l'adozione ordinaria viene concepita giuridicamente come strumento per tramandare le proprie angosce di morte attraverso la conti­nuità di un cognome. Giungiamo così agli anni Sessanta dove, con l'adozione speciale, si sanci­sce il diritto del bimbo abbandonato ad avere una famiglia affettivamente valida ed il dovere della comunità di procurargliene una adatta ai suoi bi­sogni.

Ma, come dimostrano i dati statistici citati dal­la Dell'Antonio, l'adozione speciale trova difficol­tà nell'essere accettata, e spesse volte viene stravolta nel suo significato e viene utilizzata co­me strumento per soddisfare più le esigenze de­gli adulti che quelle dei bambini.

Nell'esaminare i vissuti del bimbo di fronte all'abbandono, l'Autrice, a mio giudizio, non diffe­renzia con sufficiente rigore i vissuti dei bimbi abbandonati molto piccoli e subito adottati da quelli dei bimbi abbandonati alla nascita e poi vis­suti per molto tempo in istituto e da quelli infine dove l'abbandono è stato tardivo e si erano co­struiti legami affettivi, anche se non sempre va­lidi, con uno od entrambi i genitori naturali.

In queste due ultime situazioni e solo tenendo presente che ogni caso ha una sua storia e che ogni generalizzazione deve esser presa come in­dicazione e non come regola, si può allora dire che il bimbo assume su di sé la colpa della sepa­razione per non smitizzare le figure dei genitori naturali che rappresentano per lui l'unico legame che gli conferma la propria nascita e la propria esistenza dandogli la possibilità di vivere il pre­sente e di prospettare un futuro.

L'istituto poi, con la mancanza di stimoli e con la richiesta di un adeguamento passivo, tende a cancellare nel bimbo ogni speranza; egli può vi­vere solo rinunciando a se stesso e alle proprie aspirazioni personali ma sviluppando nel proprio interno un senso di inadeguatezza, una forte auto­svalutazione e sintomi depressivi.

E i genitori adottivi? Essi, ci dice l'Autrice, han­no del futuro figlio un'immagine idealizzata, frutto di proiezioni dei loro desideri; vedono nel bambi­no abbandonato un bimbo privo di affetto e di so­stegno, con esperienze solo negative e giungono a considerare l'adozione come mezzo per dare al bimbo una famiglia da sentire come propria in cui crescere, dimenticando le precedenti espe­rienze.

Il figlio adottivo, prosegue la Dell'Antonio, non solo normalizza la famiglia secondo i canoni tra­dizionali, ma deve lui stesso essere normalizzato adeguandosi il più possibile al figlio fantasticato dai genitori adottivi, e cita un'inchiesta dove il 68% dei genitori adottivi desidera che il loro figlio dimentichi il proprio passato e il 60% vuo­le un bimbo di età inferiore ai tre anni, tra l'altro considerata limite per non aver più ricordi e non risentire le influenze negative dell'ambiente. Un bilancio tutto negativo se non cerchiamo di son­dare al di là delle cifre e non cerchiamo di com­prenderne i motivi.

Se è vero che molti desiderano avere un figlio il più «normale» possibile che li confermi nel loro stato di genitori, è pur vero che altri hanno voluto vivere l'esperienza della adozione nella piena consapevolezza dei rischi e delle difficoltà che essa comporta; ma forse queste cifre ci pos­sono far riflettere su quanto poco si è fatto (e si sta facendo) da parte di operatori e magistrati, per stimolare e aiutare i futuri genitori adottivi a maturare le loro scelte e quanto poco appoggio si dà alla famiglia adottiva nel momento che cer­ca di ridefinirsi, accogliendo un bimbo abbando­nato.

E veniamo alle tre storie narrate dal libro: quella di Carlo adottato a 7 anni, di Laura adottata a 6 anni e di Marco adottato a 10 mesi, storie così diverse ma, come afferma l'autrice, portate per dimostrare problemi simili.

Ancora una volta mi sembra che la generaliz­zazione possa andare a scapito dell'approfondi­mento e della comprensione.

Se è vero che ogni adozione può presentare, e nella maggior parte dei casi presenta, problemi concernenti l'accettazione reciproca, la ricerca e la salvaguardia di un'immagine di sé che possa essere considerata positiva e accettabile e che concerna un futuro strettamente legato ad un pas­sato che non può essere dimenticato, è altrettan­to vero che ogni adozione ha una sua storia e che i vissuti di abbandono e le difficoltà di compren­sione, al di là delle storie personali, sono alme­no molto diverse nel bimbo adottato nei primissi­mi mesi di vita e nel bimbo adottato grandicello, ma abbandonato alla nascita ed infine nel bimbo abbandonato tardivamente e vissuto alcuni anni in istituto.

Se quindi una generalizzazione di storie così diverse rischia di rendere tutto equivalente, non si deve però togliere all'Autrice il merito di aver sottolineato alcune problematiche spesse volte taciute o minimizzate.

Nell'esaminare l'inizio del rapporto adottivo, la Dell'Antonio sottolinea la reciproca estraneità sia per stili di vita diversa sia per aspettative e ti­mori già elaborati in precedenza. I genitori adot­tivi si troveranno un figlio che dovrà essere con­frontato con l'immagine del figlio desiderato, mentre il bimbo avrà una immagine dell'adulto dedotta dalla sua storia e dalla sua esperienza passata.

L'adozione inoltre, ci ricorda l'Autrice, dà al bimbo la certezza di essere stato definitivamente abbandonato dai genitori naturali ma, a mio pa­rere, con vissuti ben diversi nel bimbo già gran­de, consapevole della sua storia, e nel bimbo pic­colo che si confronterà con gli interrogativi sulla propria origine e sul proprio abbandono solo più tardi quando avrà anche potuto avere la certezza di essere stato desiderato dalla famiglia adottiva.

Il timore dell'abbandono, nel bimbo adottato grandicello, e la sua diffidenza verso gli adulti an­che se desiderati per il suo insoddisfatto bisogno di affetto, può provocare in lui sia un comporta­mento di chiusura con vissuti di autosvalutazio­ne sia un comportamento di aggressività con fan­tasie di onnipotenza. In entrambi i casi, egli deve assicurarsi sulla propria presenza sia conforman­dosi passivamente alla sua nuova realtà, sia con­trapponendosi per verificarla.

Ma dopo un primo incontro, a volte difficile, l'a­dozione comporta un lento cammino di adatta­mento reciproco che deve basarsi, osserva l'Au­trice, sulla soddisfazione di tutti i membri vecchi e nuovi del nucleo familiare; in caso contrario si creeranno alleanze e ridefinizioni dei ruoli in base a regole che tenderanno ad isolare qualcuno, spesso, ma non sempre, il nuovo bimbo, che po­trà allora essere o allontanato perché pericoloso per l'equilibrio familiare o inglobato nelle vecchie regole della famiglia.

Così, se i genitori adottivi non sono in grado di cogliere il bisogno del bimbo di essere aiutato nel suo processo di individuazione, egli, se vuol essere accettato, dovrà rinunciare a definirsi in modo autonomo ed accettare in modo passivo le richieste della famiglia sentendosi però interna­mente privo di valori e depresso, oppure si con­trapporrà in modo aggressivo ad ogni richiesta familiare sancendo così il proprio isolamento e a volte il proprio allontanamento.

Solo se il bimbo adottivo sarà accettato per quello che è, con le sue esigenze, con i suoi con­flitti e con le sue difficoltà, potrà allora dare e ricevere in un cammino di crescita che non è solo suo ma di tutto il nucleo familiare e potrà allora iniziare ad esistere per un altro e non solo accanto ad un altro come avveniva in istituto quando la sua presenza o assenza erano indiffe­renti per il mondo che lo circondava.

Questo cammino verso la strada della propria individuazione che implica un attaccamento, per poi giungere ad un distacco, può iniziare nel bim­bo solamente se i genitori adottivi sono giunti, spesse volte anche aiutati dall'esperienza dell'a­dozione, ad una loro definizione autonoma che non implichi il costante paragone e confronto con l'altro.

Se, come è stato sottolineato nelle conclusioni del libro, l'adozione è un atto giuridicamente as­sai semplice ma psicologicamente molto com­plesso, mi sembra che l'aver sottolineato solo i problemi, che pur non debbono essere taciuti, accennando solo brevemente ai possibili rimedi possa recare più danno che vantaggio.

Inoltre credo che la facile generalizzazione pos­sa condurre a semplificazioni eccessive, facendo perdere di vista quello che per me è il significato profondo dell'adozione: un significato di rinnova­mento e di cambiamento di tutta la famiglia che, a ben guardare, va al di là del nucleo familiare e porta, se compreso, ad una diversa visione del mondo.

L'adozione, se vissuta nella sua essenza pro­fonda, ha in sé cariche trasformative e rivoluzio­narie che producono nell'intero nucleo familiare una ridefinizione dei propri schemi di vita: per questo è un'esperienza difficile e complessa, ma nello stesso tempo ricca ed interessante.

È quindi necessario, e non ci stancheremo mai di ripeterlo, aiutare la famiglia, prima nella ma­turazione e nella comprensione della scelta di adottare, poi nel lento cammino di accettazione dell'altro nel rispetto dell'individualità reciproca; l'adozione potrà allora essere compresa come at­to di reciproca accoglienza e comprensione e po­trà essere vissuta come esperienza di crescita sia individuale che sociale.

 

 

(1) Anna Maria Dell'Antonio, Cambiare genitori. Le pro­blematiche psicologiche dell'adozione, Feltrinelli, Milano, 1980.

 

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