Prospettive assistenziali, n. 61, gennaio - marzo 1983

 

 

UNA ESPERIENZA Di INSERIMENTO AL LAVORO DI ADOLESCENTI HANDICAPPATI PSICHICI  (1)

 

 

La Regione Piemonte ha avviato, nel triennio '80-'82, una sperimentazione sull'inserimento so­cio-lavorativo di soggetti portatori di handicaps psichico, attraverso l'apertura di alcuni Centri diurni socio-formativi.

La relazione qui allegata si riferisce alla attua­zione di tale sperimentazione nella zona del Cu­sio (Provincia di Novara), in riferimento al mo­mento dell'inserimento lavorativo. Il servizio per gli handicappati ultraquattordicenni ha operato in un territorio geograficamente limitato (meno di 50 mila abitanti) e nel quale non era mai esistita una struttura pubblica che si occupasse delle problematiche dei portatori di handicaps.

Inoltre, visto il carattere sperimentale dell'ini­ziativa, non era richiesta agli operatori alcuna qualifica professionale, ma solo il diploma gene­rico di scuola media superiore (2).

Riteniamo che questa esperienza, pur essendo stata effettuata in una realtà decentrata, possa costituire una traccia ed un contributo alla di­scussione circa le reali possibilità di apprendi­mento e di inserimento lavorativo dei giovani han­dicappati.

Lo stimolo alla stesura di questa relazione, è nato dall'esigenza di socializzare le esperienze che abbiamo condotto in questi anni nella zona del Cusio, come operatori di un progetto per l'in­serimento lavorativo di soggetti portatori di han­dicaps.

Questo progetto si è caratterizzato essenzial­mente per due peculiarità:

1) il tentativo di inserire nel mondo del lavoro soggetti con handicap di tipo psichico (e quindi non tutelati dalla legge n. 482 sul collocamento obbligatorio di invalidi civili);

2) lo strumento adottato per realizzare gli in­serimenti.

A tale proposito si deve dire che il problema dell'accesso al mondo del lavoro di soggetti con handicap psichico, è stato affrontato dagli Enti locali promotori del progetto, mediante la istitu­zione della cosiddetta «borsa lavoro», corrispo­sta durante il periodo di «inserimento pilotato». Con questo termine si definisce un periodo di «apprendistato» in situazione lavorativa, duran­te il quale non grava sull'azienda alcun onere né di tipo assicurativo, né di tipo retributivo. Al ra­gazzo viene corrisposta una cifra, che potremmo definire simbolica, che gli serve essenzialmente per comprendere il rapporto lavoro/salario, e per cominciare ad entrare in rapporto con il de­naro, di cui non conosce, in genere, né il valore né la gestione.

Partendo, quindi, dall'esperienza concreta, ab­biamo cercato di analizzare il problema dell'inse­rimento lavorativo di giovani handicappati psichi­ci nelle sue varie sfaccettature.

Riteniamo che, per una corretta impostazione del problema che riguarda i meccanismi dell'ap­prendimento in un soggetto insufficiente menta­le, si renda necessario un breve riferimento alla tematica della adolescenza.

 

Adolescenza

 

L'adolescenza è un periodo molto delicato della vita di un individuo, che si caratterizza per evi­denti cambiamenti somatici e per l'attribuzione di un ruolo sociale, che va via via definendosi con tutta una serie di implicazioni di carattere psicologico e culturale.

La capacità di integrare in sé questi due mo­menti (crescita fisica e status sociale), porterà l'individuo a costituirsi come identità e ad essere riconosciuto dalla società come «adulto».

Durante questo periodo l'adolescente si trova in una situazione di enorme confusione: da un lato mette in discussione il «passato», dall'altro non si è ancora costruito un «futuro».

Fino a questa età, infatti, il ragazzo vive in una condizione di dipendenza da parte della famiglia, non fa scelte autonome e non arriva mai a con­trapporsi ad essa ed a rivendicare una sua indi­pendenza, in quanto vive in modo attivo il suo ruolo di figlio.

Allo sviluppo fisico adolescenziale ed alle pul­sioni ad esso connesse, corrisponde nell'indivi­duo un enorme bisogno di indipendenza e di au­tonomia dalla famiglia che viene, perciò, momen­taneamente rifiutata.

L'adolescente ricerca, allora, una sua identifi­cazione all'interno di un «gruppo».

Questo ha una funzione estremamente impor­tante perché, se da un lato il ragazzo distrugge i valori e le figure genitoriali, dall'altro non è an­cora riuscito a costruirsi una personalità ben strutturata: l'identificazione che ha messo in di­scussione (figura parentale), viene allora assun­ta dal gruppo in cui egli viene inglobato.

Ciò rappresenta un meccanismo transitorio, ma comunque positivo per l'adolescente che riu­scirà così, a poco a poco, a ritrovare una sua identità.

Nell'individuo normodotato, questa identità sarà caratterizzata dal raggiungimento di un equi­librio nella sua sfera affettivo-emotiva.

Analizziamo, a questo punto, i meccanismi che si sviluppano durante l'adolescenza in un indivi­duo handicappato psichico.

Ciò che accomuna un individuo normodotato ad un individuo handicappato psichico durante questo periodo della vita, è esclusivamente lo sviluppo biologico e le pulsioni ad esso connesse.

Non si realizza, invece, il superamento della fi­gura parentale, in quanto egli si trova a vivere sempre in una condizione dipendente rispetto al­la famiglia. Infatti, sia che le dinamiche che si instaurano all'interno del nucleo familiare siano di iperprotezione o di rifiuto dell'handicappato, il dato comune è che la famiglia lo vive sempre in una condizione di eterno bambino, negandogli, quindi, qualsiasi possibilità di crescita. Inoltre, all'esterno della famiglia vengono quasi sempre precluse all'handicappato le possibilità di socia­lizzazione e di esperienze comunitarie o di grup­po: non arriva mai ad elaborare un io collettivo, presupposto indispensabile per la costruzione della sua identità.

 

Adolescente normodotato

crescita fisica                                            I

superamento della figura parentale              I       Identità individuo

esperienze di gruppo                                  I

conoscenze acquisite                                I

 

Adolescente handicappato

crescita fisica                                            I

non superamento della figura parentale        I       Ruolo confuso dell’individuo

non esperienze di gruppo                            I

percezione limitata della realtà                    I

 

Apprendimento

 

Inizieremo innanzitutto col dire che l'apprendi­mento avviene attraverso l'attività simultanea di più settori che si influenzano reciprocamente. In­fatti, in ogni processo di apprendimento l'indivi­duo è implicato nella sua sfera cognitiva ed af­fettivo-emozionale.

Per sfera cognitiva si intende tutto il patrimo­nio di conoscenze che un individuo acquisisce nel corso di tutta la propria esistenza, frutto del­le più svariate esperienze.

La sfera affettivo-emozionale è invece caratte­rizzata dalla somma dei sentimenti e delle emo­zioni che accompagnano un individuo nel corso della sua vita e che possono, a seconda dei pe­riodi e delle situazioni in cui ciascuno si trova a vivere, procurargli estrema tranquillità o terri­bili tensioni interne.

Appare chiaro, allora, come l'apprendimento in due individui che dispongono dello stesso patri­monio di conoscenze, risulti agevolato per colui che vive in una situazione di maggiore equilibrio emotivo.

Per quanto riguarda l'adolescente normodotato, possiamo affermare che il bagaglio di conoscen­ze acquisite, sommandosi all'equilibrio che egli raggiunge nella sfera affettivo-emozionale attra­verso la costituzione di una sua identità, gli faci­literà notevolmente i processi di apprendimento.

Pensiamo ora all'handicappato psichico. Egli ha delle difficoltà intellettive strutturali proprie di ogni cerebroleso che lo limitano notevolmente nella percezione della realtà.

A questo si assomma una instabilità nella sfera affettivo-emozionale dovuta al mancato raggiun­gimento di una sua identità come persona.

Questi elementi interferiscono così pesante­mente nei processi di apprendimento fino a pro­durre veri e propri quadri di inibizione intellet­tiva.

 

Individuo normodotato

           sfera cognitiva                                   I

                    +                                            I         Facilità nei pro­cessi di apprendi­mento

equilibrio nella sfera affettivo-emotiva              I

 

Individuo handicappato psichico

disturbo nella sfera cognitiva                         I         Difficoltà nei pro­cessi di apprendi­mento

                    +                                            I

instabilità nella sfera affettivo-emotiva             I

 

Quindi, una corretta valutazione delle reali ca­pacità di un individuo handicappato deve tener conto di entrambi questi fattori e non soltanto dell'aspetto cognitivo come avviene in genere.

 

Apprendimento e ambiente

 

Si tratta allora di collocare l'individuo handi­cappato all'interno di un ambiente che gli consenta di estrinsecare tutte le sue potenzialità e di favorire la formazione di una sua identità come individuo.

A nostro avviso, l'ambiente ottimale per la va­lutazione delle reali capacità di apprendimento di un handicappato adolescente, deve rispondere ai seguenti requisiti:

1) determinare il superamento della figura pa­rentale

2) riprodurre una situazione di gruppo

3) essere inserito in un contesto sociale reale.

 

1) Superamento della figura parentale

Innanzitutto è necessario precisare che per fi­gura parentale non si vuole intendere qui solo la figura genitoriale, ma tutte quelle figure che perpetuano un rapporto di dipendenza da parte dell'handicappato. Sono tutte quelle figure a cui l'handicappato fa riferimento e da cui trae sicu­rezza, ma che non gli consentono una sua evolu­zione come persona, in quanto «esistono» appo­sitamente per soddisfare le sue esigenze.

Il rapporto che si instaura con questa figura, non essendo mal di tipo paritetico, non può che perpetuare un rapporto di dipendenza e non con­sentire, quindi, mai l'autodeterminazione dell'in­dividuo. Se è vero che le ansie e le insicurezze dell'handicappato si placano in presenza di que­sta figura, ritornano, però, in sua assenza e non gli permettono mai di raggiungere un livello tale di sicurezza che gli consenta di «scegliere» co­me individuo.

Definiremo questo tipo di rapporto come «mo­dello personale» (stare per l'handicappato), che si contrappone ad un «modello posizionale» (sta­re con l'handicappato), che gli consente di instau­rare un rapporto paritetico con il normodotato e, quindi, di non essere sempre da questi dipen­dente.

 

2) Riproduzione di una situazione di gruppo

Si intende qui per «gruppo» non soltanto il gruppo adolescenziale a cui far riferimento, ma tutte quelle situazioni di realtà microsociale che favoriscono nell'handicappato un processo di so­cializzazione, consentendogli di superare le an­sie e le angosce proprie del periodo adolescen­ziale (3).

 

3) Inserimento in un contesto sociale reale

Per favorire un processo di reale socializzazio­ne dell'individuo handicappato, è indispensabile che il «gruppo» non sia creato in modo artificio­so per lui (scuola speciale, istituto, laboratorio protetto, centro socio-formativo), ma trovi un ef­fettivo riscontro nella realtà sociale (scuola, la­voro, momenti di aggregazione che offre il ter­ritorio).

Analizziamo, a questo punto le varie situazio­ni che si possono prospettare per un adolescente handicappato, in rapporto ai «requisiti» sopra elencati.

 

                         Superamento della figura       Riproduzione di una situazione          Inserimento

                                    parentale                                  di gruppo                      in contesto reale

Famiglia                              -                                              -                                       +

Istituto                                -                                              +                                       -

Lab. protetto                        -                                              +                                       -

Scuola                                -                                              +                                      +

Lavoro                                +                                             +                                      +

 

Dallo specchietto sopra proposto emerge chia­ramente che solo una situazione di realtà lavo­rativa contiene tutti i presupposti per favorire i processi di apprendimento in un adolescente handicappato.

In particolare il superamento della figura pa­rentale avviene soltanto in un ambiente di tipo lavorativo, in quanto il gruppo di lavoro «affian­ca» l'handicappato e non «esiste» appositamen­te per lui.

Nelle altre situazioni, invece, la figura parenta­le è sempre presente e corrisponde a:

GENITORI nella FAMIGLIA

ASSISTENTI nell'ISTITUTO

ISTRUTTORI nel LABORATORIO PROTETTO

INSEGNANTI nella SCUOLA

Per questo motivo, intendiamo qui analizzare i meccanismi di apprendimento di un soggetto han­dicappato psichico all'interno delle varie situa­zioni lavorative.

 

Inserimento lavorativo

 

Affronteremo questo argomento, analizzandolo secondo questi aspetti:

1) scelta del luogo di lavoro

2) apprendimento di mansioni lavorative

3) dinamiche interpersonali.

 

1) Scelta del luogo di lavoro

L'adattamento ad una realtà lavorativa risulta non facile anche per una persona normodotata, che pure ha immaginato e previsto nel futuro un suo ruolo come lavoratore. A maggior ragione, lo è per una persona handicappata che ha immagi­nato questa eventualità quasi sempre come un miraggio o come un'esperienza che non lo avreb­be mai coinvolto.

Per questo motivo, l'handicappato si accosta ad un'esperienza lavorativa con una carica di ten­sione emotiva (ansie, incertezze, paure, aspet­tative), che è molto maggiore che in una persona normale.

Nell'individuazione di un luogo di lavoro occor­re considerare le aspettative del ragazzo handi­cappato e fare in modo, per quanto possibile, che queste si realizzino. Questa appare condizione necessaria affinché il ragazzo si accosti con inte­resse ad una attività lavorativa e sia, quindi, ben predisposto ad apprendere.

Partendo dall'esperienza concreta che abbiamo attuato nel corso di questi tre anni, possiamo af­fermare che, per quanto riguarda la realtà pro­duttiva del nostro territorio, non esistono grosse differenziazioni tra settore privato (aziende pre­valentemente metalmeccaniche) e settore pub­blico (ospedali, scuole, Enti locali).

Infatti è possibile individuare all'interno di ogni realtà lavorativa un « gruppo omogeneo » che fun­ga da mediazione tra le richieste estremamente individualistiche che emergono dall'handicappa­to ed i meccanismi di produzione (4).

Il gruppo individuato (preventivamente sensi­bilizzato alle problematiche di cui il ragazzo è por­tatore) si trova quindi a dover svolgere una du­plice funzione:

1) essere punto di riferimento per il ragazzo e, quindi, riprodurre in parte un modello di tipo «personale»;

2) rispondere alle esigenze di tipo produttivo e, quindi, essere necessariamente «compagno di lavoro» (modello posizionale) .

Condizione necessaria per attuare un inseri­mento non è, quindi, quella di privilegiare un set­tore lavorativo piuttosto che un altro, ma di indi­viduare preventivamente il «gruppo omogeneo» all'interno di ogni settore di produzione.

 

2) Apprendimento di mansioni lavorative

Per quanto riguarda il problema dell'apprendi­mento di mansioni lavorative «nell'insufficiente mentale, valgono alcune regole generali che ci proponiamo di analizzare brevemente.

In primo luogo, ci si incontra con un dilemma di notevole significato operativo: da un lato, in­fatti, l'handicappato apprende ed opera meglio se gli elementi in campo sono pochi e stabili, dall'altro la ripetitività provoca monotonia e ca­duta delle motivazioni esterne (cui si aggiunge, il più delle volte, un'ontologica riduzione di quelle interne). In secondo luogo emerge l'aspetto le­gato alla condizione opposta: la molteplicità di elementi tende a provocare confusione e destrut­turazione (cui seguono passività e demotivazio­ne)» (5).

La conoscenza del ragazzo diventa allora indi­spensabile per un suo corretto inserimento. In particolare si può presupporre un inserimento la­vorativo del primo tipo (pochi elementi in cam­po), per quei soggetti con basso potere di astra­zione e di memoria simbolica.

Un inserimento del secondo tipo (varietà di mansioni), per quei soggetti con una maggiore strutturazione della personalità.

Un altro fattore, spesso trascurato, ma invece determinante per la buona riuscita di un inseri­mento lavorativo è la fatica. Questa componen­te, che rappresenta per ogni individuo un aspet­to di disagio e di demotivazione nell'approccio al mondo del lavoro, è tanto maggiore in un adole­scente handicappato che è sempre vissuto in un mondo protetto in cui non gli è mai stata richiesta alcuna prestazione che comportasse impegno e fatica.

Tutti questi elementi devono essere analizzati e valutati attentamente, se si vogliono creare i presupposti per un corretto e positivo inserimen­to nel mondo del lavoro.

 

3) Dinamiche interpersonali

A questo punto si rende indispensabile ana­lizzare le dinamiche che si instaurano tra lavora­tore ed handicappato durante il primo periodo di inserimento. In questo periodo il lavoratore non è a conoscenza delle problematiche legate all'handicap, ma solo dei più svariati stereotipi cor­renti ad esso connessi (infantilismo, iperprotezio­ne, assistenzialismo, ecc.), che lo portano a rap­portarsi in maniera distorta con l'handicappato. Se a questo aggiungiamo l'atteggiamento dell'handicappato, che potremmo definire vagamente seduttivo (la ricerca di modelli personali che ri­producano le figure precedenti: genitori, istrut­tori, insegnanti), possiamo capire perché, spe­cie nei primi tempi, il gruppo omogeneo abbia nei confronti dell'handicappato un atteggiamento iperprotettivo ed infantilizzante. In alcuni ambien­ti si è arrivati addirittura alla sostituzione dell'handicappato da parte dei lavoratori, che finiva­no con lo svolgere anche le sue mansioni lavo­rative.

Questo periodo viene però superato, in quanto il lavoratore non riesce a reggere a lungo questo doppio ruolo: ottemperare, da un lato, alle esigen­ze produttive, assistere, dall'altro, l'handicap­pato.

Le esigenze dell'ambiente lavorativo finiscono con il prevalere sulle seduzioni dell'handicappato. Per quanto concerne la nostra esperienza, ab­biamo potuto verificare questo periodo «anoma­lo» in tutti gli inserimenti effettuati; unica va­riante è la sua durata: molto breve nelle aziende private, più lunga negli enti pubblici. Superato questo periodo, l'inserimento è proseguito in ge­nere senza grosse difficoltà e possiamo afferma­re che l'esperienza condotta nel nostro territo­rio ha avuto, nel suo insieme, un notevole suc­cesso, determinato anche da questi tre fattori:

1) l'inserimento di soggetti con handicap lieve o medio-lieve e con notevoli potenzialità che non avevano potuto estrinsecarsi;

2) l'atteggiamento generalmente corretto e po­sitivo dei lavoratori;

3) la corretta impostazione dell'inserimento, le verifiche periodiche ed il supporto degli operatori sia al gruppo omogeneo che all'insufficiente men­tale.

 

L'esperienza del Cusio

 

L'intervento sui soggetti portatori di handicap realizzato dal Centro cusiano è stato suddiviso in tre momenti, ognuno dei quali è seguito da due operatori.

 

Centro diurno socio-formativo

Gli obiettivi di questa struttura possono essere così sintetizzati:

1) recupero delle autonomie di base riguardan­ti la sfera del vissuto quotidiano (igiene persona­le, vestirsi, mangiare, rapporti spazio/temporali);

2) recupero delle capacità di relazione inter­personale;

3) recupero di capacità manuali e organizzative attraverso l'utilizzo di materiali diversi (legno, cuoio, creta, cartoncino).

Formazione professionale che ha come obiet­tivi la socializzazione del ragazzo e la sua forma­zione sia professionale che culturale attraverso l'inserimento in una situazione di realtà sociale.

Inserimento lavorativo con l'obiettivo dell'inse­rimento nel mondo del lavoro attraverso un pe­riodo di «inserimento pilotato» (con borsa lavo­ro) e l'assunzione definitiva al termine di questo.

Il servizio ha seguito durante questi tre anni di attività più di una trentina di utenti, suddivisi nelle tre fasce, tutti con handicap psichico, ini­zialmente di grado medio-lieve e successivamen­te di grado medio-grave.

I tre momenti di attività che caratterizzano il servizio, non devono necessariamente intendersi come l'uno successivo all'altro. Infatti, nel mo­mento in cui giunge la segnalazione di un uten­te, viene attentamente valutato se il ragazzo (per il suo vissuto, per le sue potenzialità, per il gra­do di socializzazione ecc.) debba passare attra­verso la struttura diurna e la formazione profes­sionale prima di accedere all'inserimento lavora­tivo, o possa essere immesso direttamente nel mondo del lavoro attraverso un tirocinio o un in­serimento pilotato.

In particolare, la metodologia adottata per at­tuare gli inserimenti lavorativi, può essere così riassunta:

- coinvolgimento del sindacato e relativa sen­sibilizzazione al problema handicap;

- individuazione, con le organizzazioni sinda­cali e con l'Unione Industriali, delle realtà pro­duttive in cui è possibile potenzialmente effettua­re degli inserimenti;

- contatto con i singoli Consigli di fabbrica e rivendicazione per il posto di lavoro;

- determinazione del periodo di inserimento pilotato con il Consiglio di fabbrica e la direzione aziendale;

- individuazione dell'area lavorativa all'inter­no dell'ambiente di lavoro;

- preparazione del gruppo omogeneo all'ac­coglimento del soggetto;

-controllo dell'andamento dell'inserimento di­rettamente sul luogo di lavoro;

- verifiche periodiche con il Consiglio di fab­brica e con la direzione aziendale sullo svolgi­mento dell'inserimento pilotato;

- espletamento di tutte le pratiche burocrati­che che consentano il passaggio dall'inserimen­to pilotato all'assunzione definitiva dell'utente.

Riteniamo che la nostra esperienza dimostri la possibilità di una reale integrazione dell'handi­cappato psichico anche nel mondo del lavoro. In­fatti, nonostante alcuni problemi sorti nell'attua­re gli inserimenti, questi si sono rivelati general­mente positivi, hanno determinato un livello di crescita e di maturazione non solo del soggetto, ma anche dell'ambiente circostante relativamen­te alle problematiche che il ragazzo evidenziava.

Riteniamo che 10 ragazzi definitivamente inse­riti nel mondo del lavoro siano:

- sicuramente «sufficienti» per dimostrare la validità e la positività dell'esperienza attuata;

- non «troppi» da incidere sulla precarietà dei livelli occupazionali della zona;

- «molti» per porre pubblicamente ed in ter­mini più evidenti il delicato problema dell'inseri­mento sociale e lavorativo dei soggetti portatori di handicaps.

 

Due storie di ragazzi inseriti

 

Storia di R. - R. è un ragazzo con handicap psi­chico di grado lieve, che vive in un piccolo paese della zona del Cusio. Fino a tre anni fa era scher­nito da tutti gli abitanti del paese e bighellonava senza far niente per tutta la giornata, intrattenen­dosi di preferenza con bambini ai quali poteva raccontare le sue fantasie sotto forma di avven­ture che gli erano accadute. Aveva inoltre una cognizione molto confusa del rapporto spazio­-temporale (per es. sosteneva di coprire distanze notevoli nell'arco di pochi minuti).

La famiglia aveva tentato più volte di inserirlo nel mondo del lavoro, contattando personalmente alcune ditte del luogo, in cui, tra l'altro, il ragazzo era conosciuto. Le sue richieste, non erano state neppure prese in considerazione ed anche paren­ti ed amici sconsigliavano qualsiasi collocazione lavorativa del ragazzo, non ritenendolo idoneo a svolgere un lavoro in modo continuativo.

Nel momento in cui, come servizio, si è cer­cato di attuare l'inserimento lavorativo di R., si sono riscontrate notevoli difficoltà, in quanto la direzione aziendale riteneva pregiudizialmente che l'inserimento potesse avere un esito negati­vo e non tollerava la presenza degli operatori all'interno dell'azienda. Previa individuazione con il Consiglio di fabbrica dell'area lavorativa più idonea alle potenzialità del ragazzo (tunnel di la­vaggio) e relativa sensibilizzazione del gruppo di lavoro, si è avviato l'inserimento pilotato.

Al momento dell'ingresso in fabbrica, il ragaz­zo è stato accolto dal gruppo omogeneo in modo molto protettivo ed infantilizzante (per esempio, R. arrivava a bere fino a 5 caffè in una mattinata che gli erano offerti, a turno, dai compagni di lavoro).

R., da parte sua, accettava acriticamente qual­siasi cosa gli fosse proposta all'interno dell'am­biente di lavoro e giungeva a momenti di vera e propria esaltazione della vita in fabbrica (ne par­lava in tutti i discorsi, la riproduceva sotto forma di disegni e di slogans inneggianti la ditta, arri­vava addirittura a ritmi di produzione superiori alla norma). R. ricercava, inoltre, dei consensi alla sua attività di lavoratore, per esempio aspet­tando a volte il padrone all'uscita della ditta per domandargli se fosse soddisfatto di lui.

Tutto questo, però, non poteva durare a lun­go; infatti il ragazzo non riusciva a reggere nep­pure fisicamente questo ritmo .

L'intervento congiunto degli operatori e del Consiglio di fabbrica, le stesse rassicurazioni che giungevano dalla direzione aziendale dopo lo scetticismo iniziale, hanno consentito di giungere ad una normalizzazione di questa situazione, per­ché nel ragazzo si sono a poco a poco placate le ansie che avevano determinato il suo atteggia­mento.

All'esterno dell'azienda, a R. era finalmente ri­conosciuto un ruolo preciso, quello di lavoratore appunto, che lo accomunava agli altri dallo stes­so tipo di vita, dagli stessi problemi che gli de­rivavano dall'essere operaio, dalla partecipazione ai medesimi discorsi, da comuni aspirazioni (per esempio guadagnare per potere acquistare un mezzo di trasporto, nel suo caso una semplice motoretta).

Il lavoro non ha quindi reso R. normale, ma gli ha dato la possibilità di essere inserito fattiva­mente all'interno del suo contesto sociale e di essere apprezzato per quello che realmente egli è e può esprimere.

Storia di E. - E. è un'insufficiente mentale che pur non avendo un passato di istituzionalizzazio­ne, era sempre stata inserita all'interno di classi differenziali. Viveva in famiglia dove trascorreva le sue giornate facendo piccoli lavori domestici ma soprattutto guardando in continuazione la te­levisione. Inoltre, non intratteneva rapporti con persone esterne al nucleo familiare e si presen­tava come una ragazza molto timida e introversa. La possibilità di essere inserita in un ambiente lavorativo, era vista positivamente non solo dai familiari ma anche dalla ragazza, desiderosa di poter finalmente uscire da una famiglia molto op­pressiva.

L'inserimento in un reparto di confezioni, le consentiva, sia per il tipo di lavorazione sia per l'ambiente piuttosto ristretto, di poter intrattene­re buoni rapporti con le compagne di lavoro.

L'ambiente lavorativo la entusiasmava a tal punto che giungeva in fabbrica mezz'ora prima dell'inizio del turno. Con le colleghe era estrover­sa, parlava volentieri anche dei problemi più in­timi e personali, cercava anche di scrivere mes­saggi e poesie alle compagne, purtroppo incom­prensibili e dove ricorreva spesso il richiamo alla sessualità. La sua presenza sul luogo di lavoro era costante ed anche la sua applicazione lavora­tiva era notevole. L'inserimento appariva per­fetto.

La famiglia, inoltre, le consentiva una piccola gestione del denaro guadagnato ed E. lo spende­va curando maggiormente la sua persona ed il suo abbigliamento, ciò che invece non aveva mai fatto prima, neppure su richiesta della famiglia e degli operatori stessi.

Improvvisamente, E. iniziò a manifestare disin­teresse per il lavoro ed a rinchiudersi nuovamen­te in se stessa. In particolare, si assentava a lun­go dal lavoro dopo periodi di festività, quali le vacanze natalizie e le ferie estive. La sua situazio­ne lavorativa non si presentava quindi più ottima­le e ci giungevano rimostranze sia da parte della direzione aziendale che da parte dei colleghi di lavoro.

Parlando con E. siamo riusciti a capire come in quel momento si manifestasse in lei molto fortemente l'impatto che era avvenuto tra la vita che conduceva precedentemente e quella che invece viveva attualmente.

E., infatti, ricopriva finalmente un «ruolo atti­vo» (quello di lavoratrice) ed era proprio questo ruolo che l'accomunava agli altri e che le aveva permesso di uscire finalmente dall'isolamento fa­miliare. Ma si era anche resa conto che esiste­vano ancora molte differenze tra la sua vita e quella delle colleghe: esse infatti avevano una loro vita dopo il lavoro (un marito, dei figli, degli amici, un ragazzo, dei divertimenti), mentre E. dopo il lavoro ritornava a rinchiudersi all'interno della famiglia.

Il lavoro, dunque, non rappresentava per E. la raggiunta aspirazione di una vita normale, ma l'unico momento che l'accomunava agli altri nella normalità di vita.

La sua crisi-fuga non doveva quindi essere vi­sta in modo negativo, ma interpretata positiva­mente, cioè come un'evoluzione che era avvenu­ta nella ragazza, ora consapevole di che cosa si­gnificasse veramente vivere una vita normale.

 

Considerazioni finali

Vorremmo, a questo punto, esporre alcune con­siderazioni per quanto riguarda l'esperienza ef­fettuata. Abbiamo verificato che l'inserimento nel mondo del lavoro comporta per l'handicappato psichico una evoluzione positiva sia in termini di apprendimento che in termini di maturazione del­la personalità. Il lavoro, infatti, rappresenta un campo di apprendimento più attendibile di altri (scuola, laboratorio protetto), in quanto sollecita nel ragazzo handicappato una forte spinta motiva­zionale verso lo «status» adulto. L'apprendimen­to in situazione lavorativa non ha i tratti infantiliz­zanti della scuola ed è legato all'esercizio di un ruolo reale, secondo sequenze operative che con­sentono molti riscontri concreti.

Inoltre, l'aver proposto lo «status di lavorato­re» che si sovrappone al precedente status di diverso, ha prodotto in tutti i ragazzi modifiche della propria identità con la acquisizione di un nuovo ruolo: quello di «lavoratore handicappato». Si mantengono, cioè, alcune caratteristiche pro­prie di ogni cerebroleso (limiti dovuti all'handi­cap), ma queste si integrano con la nuova con­dizione di lavoratore, che è così ben accettata dal ragazzo da produrre, a volte, forme di vera e propria esaltazione dell'ambiente lavorativo.

In alcuni casi il nuovo ruolo di «lavoratore han­dicappato» si è scontrato con il ruolo di «diver­so» che si protraeva in alcuni ambiti, in partico­lare all'interno della famiglia e nel tempo libero. Infatti, all'interno del nucleo familiare il ruolo di «diverso» diviene funzionale all'equilibrio stes­so della famiglia ed il suo superamento appare difficile, perché implicherebbe una radicale modi­ficazione dei rapporti familiari che, specie per quanto riguarda le figure genitoriali (ormai cri­stallizzate nel loro ruolo), viene rifiutato.

I rapporti che si instaurano tra l'handicappato ed i colleghi di lavoro, gli fanno inevitabilmente comprendere come al di fuori dell'ambito lavora­tivo, ciascun lavoratore abbia una propria vita ed un proprio mondo.

Il desiderio di poter avere una vita autonoma, di poter intrattenere altre relazioni sociali, di poter disporre del proprio tempo libero, di poter gestire in prima persona il denaro che guadagna, e, quindi, in una parola di poter far scelte auto­nome e personali al pari degli altri lavoratori, scatenano nell'handicappato vere e proprie crisi. Queste si manifestano con regressioni sia per quanto riguarda il rendimento lavorativo che per quanto riguarda la socializzazione stessa. Esse vanno comunque valutate positivamente perché si inseriscono in un meccanismo di crescita glo­bale dell'individuo.

Il loro superamento consentirà all'handicappa­to di poter raggiungere un equilibrio non più transitorio, ma stabile e definitivo, perché frutto del raggiungimento di una sua identità come «adulto».

 

 

 

(1) La relazione è stata stesa dagli operatori del Centro per l'inserimento socio-lavorativo di giovani handicappati dell'Unità socio-sanitaria locale n. 57 del Piemonte. L'espe­rienza fa capo al Centro diurno socio-formativo di Cireggio di Omegna (Novara).

(2) Tuttavia, si è provveduto alla formazione del perso­nale, da prima attraverso un corso residenziale nel quale sono state evidenziate le varie problematiche legate all'han­dicap, in seguito attraverso un corso di aggiornamento spe­cifico che ha consentito agli operatori di perfezionare no­tevolmente il loro livello di intervento.

(3) Occorre precisare che molto spesso il termine so­cializzazione viene usato in modo improprio; noi intendiamo per socializzazione la «partecipazione come soggetti alla dialettica della realtà nella quale si vive».

 (4) Per gruppo omogeneo intendiamo un gruppo di lavo­ratori che all'interno di un medesimo reparto svolgono le stesse mansioni.

(5) Cfr.: M. Cannao, C. Lepri, E. Montobbio, G. Moretti, Handicap psichico e apprendimento lavorativo in situazione, Atti IX Congresso nazionale S.I.N.P.I., San Marino, 1980.

 

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