Prospettive assistenziali, n. 62, aprile - giugno 1983

 

 

HANDICAPPATI E SINDACATO (1)

FRANCESCO SANTANERA

 

 

In Italia ci sono alcune decine di migliaia di persone che sono gravemente e irrimediabilmen­te handicappate sul piano fisico e psichico.

Si tratta di nostri concittadini che, in modo as­soluto e definitivo, non sono in grado di provve­dere a loro stessi. Non sono nemmeno in grado di dire, o far capire, se hanno caldo o freddo, se hanno fame o sete, se stanno bene o male.

La loro situazione è stabilizzata, per cui, sal­vo errori diagnostici o precedenti trattamenti sbagliati, non sono possibili miglioramenti signi­ficativi sul piano fisico e su quello psichico.

La vita di queste persone dipende in tutto e per tutto da noi.

Questo gruppo è costituito soprattutto da an­ziani malati cronici non autosufficienti e da in­sufficienti mentali, tutti con handicaps gravissimi.

C'è un secondo gruppo di handicappati, an­ch'esso costituito da alcune decine di migliaia di persone.

Si tratta di uomini e donne che non sono e non saranno mai capaci di provvedere a loro stessi, ma che sono in grado di segnalare, in varia mi­sura, le loro esigenze.

Anche la vita di queste persone dipende in tut­to e per tutto da noi.

Questo gruppo è costituito da anziani malati cronici non autosufficienti e da handicappati psi­chici gravi (un po' meno gravi del gruppo prece­dente), da pluriminorati (ad esempio da persone colpite da cecità e sordità), da alcuni handicappa­ti fisici gravissimi.

Vi sono poi migliaia di bambini e fanciulli che non sono assolutamente in grado, a causa della loro età, di provvedere a loro stessi e che non hanno alcun valido sostegno da parte dei loro ge­nitori e dei loro parenti. Spesso occorre che qualcuno li difenda dai loro genitori e dai loro parenti.

In tutto si tratta di circa 100.000 bambini e fanciulli ricoverati in istituti di assistenza.

È noto, ma non credo sia inopportuno ricor­darlo, che il ricovero in istituto provoca danni gravissimi e spesso irreversibili alla personalità dei ricoverati.

Molti disadattamenti (fino al comportamento delinquenziale), molti disturbi mentali, sono do­vuti proprio al ricovero in istituto durante l'età infantile.

Vi è poi un numero molto alto di cittadini col­piti da handicaps fisici, psichici o sensoriali, la cui autonomia è limitata in varia misura. Moltis­simi, fra questi handicappati, sono perfettamen­te in grado di provvedere a loro stessi. La loro autonomia sarebbe molto più ampia se servizi e strutture fossero adeguati alle loro esigenze. Si pensi, tanto per fare un esempio, alle difficoltà create dalla presenza di barriere architettoniche.

Ci sono poi coloro il cui handicap è costituito dalla mancanza di mezzi economici. Fra queste centinaia di migliaia di persone occorre ricordare, in particolare, quelle più deboli e che hanno pochi strumenti di difesa. Mi riferisco soprattutto alle 700.000 persone che ricevono la ricca pensione sociale di 165.000 al mese ed alle centinaie di migliaia di invalidi che dovrebbero campare con 175.000 al mese.

 

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In totale sono oggi ricoverate in istituto circa 280.000 persone, e cioè:

100.000 minori;

30.000 handicappati (ciechi, sordi, spastici, di­strofici, ecc.);

150.000 anziani autosufficienti e non.

Altre decine e decine di migliaia di persone conducono fuori dagli istituti una esistenza gra­ma, spesso di livello subumano.

L'alto numero di suicidi delle persone anziane è una prova della vita di stenti che molti vecchi sono costretti a subire per motivi sociali, oltre tutto eliminabili.

Le lotte condotte in questi ultimi venti anni contro la segregazione dei cittadini più deboli hanno riportato nella società civile migliaia e mi­gliaia di bambini, di adulti, di handicappati, di anziani già ricoverati in istituti di assistenza.

Queste lotte hanno anche impedito che altre migliaia di persone venissero allontanate dal con­testo sociale.

Le esperienze di inserimento scolastico, so­ciale e lavorativo di questi anni dimostrano, sen­za ombra di dubbio, che l'inserimento stesso è una condizione indispensabile per la riabilitazio­ne e per lo sviluppo integrale delle persone han­dicappate.

Per realizzare l'inserimento degli handicappati, per evitare l'emarginazione in istituto di bambini e di fanciulli, sono necessari regolamenti, leggi, delibere.

Ancor più necessarie sono le riforme di strut­ture della sanità, della casa, del collocamento al lavoro, dei trasporti e dell'assistenza.

Ma queste riforme, queste leggi, queste deli­bere richiedono un cambiamento radicale di men­talità anche e soprattutto da parte dei lavoratori.

Se, come è avvenuto in enti pubblici e in alcune aziende di Torino, gli handicappati psichici inseriti nel lavoro vengono sbeffeggiati da altri lavoratori (in genere da una minoranza di lavo­ratori per fortuna), allora non solo questi inseri­menti lavorativi vanno a rotoli, ma è calpestata la stessa dignità degli invalidi.

La prevenzione può ridurre il numero delle per­sone oggi handicappate, ma non credo che sarà mai possibile eliminare la non autosufficienza di anziani e di invalidi.

Per un inserimento effettivo degli handicappati non è certamente idoneo un atteggiamento pie­tistico, non è sufficiente l'indifferenza degli altri lavoratori: è indispensabile un comportamento at­tivo di solidarietà.

Certamente l'atteggiamento personale di com­prensione e di solidarietà dei compagni di scuo­la, dei compagni di lavoro, dei vicini di casa, dei cittadini, è molto importante per un effettivo in­serimento sociale.

Questo atteggiamento non dovrebbe però re­stare fine a se stessa, ma dovrebbe essere la molla per lottare per l'eliminazione o almeno per la riduzione delle incivili situazioni esistenti in Italia ed anche a Torino.

Le condizioni degli istituti sono quasi sempre deplorevoli. Le strutture edilizie sono spesso fa­tiscenti; ci sono ancora a Torino cameroni di 10-15 letti per i bambini piccoli di 3-6 anni e ca­meroni anche di 20 letti per gli anziani.

Molte strutture di ricovero hanno enormi di­mensioni (anche più di 500 posti letto) per cui il bacino di utenza è molto ampio. Ne deriva che il ricovero in queste strutture sradica totalmente l'assistito dal suo contesto sociale, per cui, fra l'altro, si impedisce di fatto ai parenti ed agli amici di poter seguire i ricoverati.

Non è raro il caso in cui i ricoveri sono attuati scegliendo l'istituto che pratica la retta più bassa. Ciò spiega perché molti handicappati torinesi, soprattutto nel periodo dal 1965 al 1975, siano stati deportati nel Veneto dalle Amministrazioni pubbliche.

I rapporti fra parenti e ricoverati a volte sono resi difficili ed anche impossibili da orari di visita assurdi ed ingiustificatamente restrittivi.

Per quanto riguarda l'emarginazione di vecchi, di bambini, di handicappati, occorre fare molta at­tenzione ad un fenomeno di cui si parla quasi mai. ieri nei manicomi, oggi nei cronicari per i vec­chi, negli istituti per handicappati, una parte no­tevole di persone viene ricoverata perché scari­cata dai servizi sanitari.

Per molti, non solo per i medici, ma anche per assistenti sociali, per infermieri e per altri ope­ratori sociali, gli istituti di assistenza sono la spazzatura della sanità.

Ieri gli «scarti» venivano segregati nei mani­comi; oggi gli anziani ammalati cronici non auto­sufficienti, in violazione dei diritti acquisiti, sono scaricati dagli ospedali nei cronicari; cronicari che, per addolcire la pillola, adesso sono chiamati case protette.

In questo modo, in buona o cattiva fede poco importa, si incoraggia il personale sanitario non solo a sbarazzarsi degli anziani cronici, ma anche a cronicizzare quei vecchi (quelli privi di prote­zione, ovviamente), che, se curati e riabilitati, avrebbero potuto e potrebbero riacquistare una autonomia totale o parziale.

Vorrei anche ricordare che praticamente tutti gli istituti di ricovero per bambini, per anziani, per handicappati non sono assolutamente in re­gola con le norme per la prevenzione ed estinzio­ne degli incendi e con i regolamenti per la pre­venzione degli infortuni sul lavoro.

Inoltre, gli istituti per vecchi non hanno una normativa che preveda le caratteristiche minime sul piano igienico-edilizio.

Per quanto riguarda il personale - e ciò vale soprattutto per gli istituti privati - non c'è alcu­na norma di legge che preveda un titolo minimo di studio, per cui, negli istituti per bambini, per handicappati, per anziani autosufficienti e per cronici, tutto il personale, dal direttore agli edu­catori, potrebbe essere costituito da analfabeti.

 

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Perché c'è questa situazione da terzo mondo nel campo dell'assistenza?

Soprattutto per due motivi.

Perché gli utenti non hanno nessuna o scar­sissima capacità di difesa. In certi casi, si pensi agli handicappati psichici ed agli anziani cronici, l'utenza non avrà mai alcuna forza contrattuale.

In secondo luogo perché non c'è alcuna orga­nizzazione di massa (partito, sindacato, forza so­ciale o religiosa) che abbia assunto fra i suoi impegni il problema della tutela della fascia più debole della popolazione.

Vi è anzi da dire che l'organizzazione attuale del sindacato è tale da assicurare - in principio e nei fatti - una situazione di sfavore ai cittadini più deboli.

Infatti le piattaforme nel campo dei servizi non sono predisposte dai sindacati dei possibili uten­ti dei servizi stessi (metalmeccanici, chimici, tessili, edili, ecc.), ma dagli operatori dei servizi.

Ora è naturale che gli operatori dei servizi pen­sino, prima di tutto e soprattutto, a loro stessi. Ne deriva che, quando l'interesse del gruppo di operatori è in contrasto con l'interesse degli utenti, prevalga quasi sempre il primo.

Solo così si può spiegare perché, ad esempio, negli istituti e negli ospedali parecchie centinaia di ricoverati debbano pranzare alle 11 e cenare alle 17. Il motivo è, che i cuochi e gli inservienti (qualche decina in tutto!) vogliono pranzare alle 13 e cenare alle 20.

È noto che negli ospedali e negli istituti molti ricoverati, soprattutto gli handicappati ed i vec­chi, cadono, si feriscono e a volte restano per­manentemente invalidi, perché il letto è troppo alto rispetto al suolo.

Nonostante si sappia che il letto alto è fonte di infortuni e provochi agli anziani e negli han­dicappati la paura di alzarsi, i letti restano alti, perché gli inservienti, gli infermieri, i medici non vogliono piegare la schiena un po' di più.

Gli esempi potrebbero continuare a lungo.

Si potrebbe replicare che non spetta al sinda­cato farsi carico dell'utenza, in quanto la funzio­ne assistenziale è dalla legge attribuita alle Re­gioni ed agli Enti locali.

Ma, oggi, l'obiettivo delle Regioni e degli Enti locali non è la lotta contro l'emarginazione, bensì il puro e semplice contenimento degli emargi­nati con il minor costo sociale ed economico possibile.

Moltissimi handicappati, come ho detto in pre­cedenza, non sono in grado e non saranno mai capaci di autogestirsi e difendersi. Limitarsi sem­plicemente a dire che deve intervenire l'Ente lo­cale significa sfuggire alle proprie responsabilità di cittadino e di operatore.

Certo l'assistenza è e deve essere una fun­zione pubblica, di competenza degli Enti locali. Spetta però a tutte le organizzazioni sociali pro­muovere in concreto i diritti di coloro che non sono in grado di difendersi.

Per il sindacato vi è poi un aspetto di conve­nienza per i propri associati.

La maggior parte degli anziani che oggi, molto spesso, sono costretti a vivere in modo disuma­no erano dei lavoratori. Figli di lavoratori sono anche molti handicappati. Molti invalidi sono di­ventati tali a seguito di infortuni sul lavoro o di malattie professionali.

In sostanza, se i lavoratori non intervengono per cambiare le condizioni di vita degli assistiti, rischiano di pagarne essi stessi le conseguenze.

Ma se è giusto essere assistiti bene quando non si può più provvedere a se stessi con le pro­prie forze e con quelle dei propri familiari, è di fondamentale importanza prevenire il bisogno as­sistenziale, è cioè lottare contro l'emarginazione.

Che cosa significa in poche parole lottare con­tro l'emarginazione? Significa mettere in moto in noi stessi e far mettere in moto dalle organizza­zioni politiche, sociali e amministrative tutte quelle misure che consentono alla persona di poter avere il massimo possibile di autonomia.

Non emarginazione significa anche lottare af­finché i vari servizi, dalla sanità alla scuola, dai trasporti alla casa, dalla cultura allo sport, siano aperti a tutti. Devono cioè essere organizzati in modo da non escludere nessuno. Ciò significa, in particolare, per gli handicappati non andare a scuola in istituti lontani dall'abitato (dove c'è l'aria buona, si dice), ma nelle scuole e classi comuni. Significa non emarginare i paraplegici al Colle della Maddalena e tenere vuoti centinaia di posti letto a Torino. Significa per gli anziani cronici non autosufficienti privi di sostegno fami­liare non andare nelle strutture dove si spende di meno, come è stato detto ieri in linea con i prin­cipi classici dell'emarginazione, ma negli ospe­dali, e cioè nelle istituzioni dove più alto dovreb­be essere il livello di cura e di riabilitazione.

Anche per la prevenzione del bisogno assi­stenziale - la cosa è evidente - il ruolo del sin­dacato è di fondamentale importanza.

Nei riguardi della prevenzione del bisogno assi­stenziale mi sembra che siano molto carenti le tre ultime tesi congressuali della CISL. È inoltre preoccupante che la tesi sull'assistenza agli han­dicappati sia incentrata sugli aspetti assistenzia­li e sanitari. Nulla, ad esempio, viene detto sui problemi della casa. In questa tesi si parla di trasporti solo per prevedere «gli accompagnatori qualificati».

In Italia e nel mondo ci sono centinaia di mi­gliaia di handicappati che, se ci fossero le condi­zioni sociali ed i servizi idonei (casa, trasporti, ecc.), sarebbero pienamente autonomi e non avrebbero bisogno di alcun intervento assisten­ziale.

Quindi assistenza sì, ma solo a coloro che, a causa delle loro condizioni fisiche e psichiche, non sono in grado di provvedere a loro stessi.

Ma la priorità va data ai servizi non assistenzia­li: alla sanità, alla casa, alla scuola, alla formazio­ne professionale, ecc.

Prima di concludere vorrei segnalare tre pro­blemi a mio avviso estremamente importanti.

 

Primo problema

 

L'art. 9 del decreto legge 29 gennaio 1983 n. 17 praticamente blocca ogni possibilità di nuovi inserimenti lavorativi degli invalidi civili. Dà inoltre alle aziende comunque in crisi la più am­pia possibilità di licenziare anche tutti i lavora­tori invalidi in servizio.

Ora è allarmante che il sindacato finora sia stato su questo punto zitto zitto.

Sorge l'interrogativo: i lavoratori invalidi con­tano meno dei lavoratori validi?

Questa domanda non è campata in aria perché mille volte mi sono sentito dire, anche da diri­genti sindacali: ma se non c'è lavoro per le per­sone valide, come vuoi che si possa trovare un posto per le persone handicappate.

Questa frase fa paura, perché è fondata sul principio che le persone valide hanno più diritti di quelle handicappate.

Forse chi dice queste cose pensa che gli han­dicappati non debbano mangiare tutti i giorni, non debbano avere una casa, una loro autonomia, una famiglia.

In sostanza chi la pensa così, considera gli handicappati degli scarti umani.

 

Secondo problema

 

Si parla nella tesi n. 8 di volontariato. Ma si considera solo il volontariato che assiste diretta­mente.

Anzi si includono nel volontariato le coopera­tive di solidarietà sociale che sono aziende pri­vate che si fanno pagare i servizi. L'unica diffe­renza rispetto alle altre aziende consiste nel di­vieto di ripartire l'utile ai soci. È però sufficiente che l'utile sia assegnato come aumento di salario e il gioco è fatto.

Nella tesi n. 8 non si parla di volontariato pro­mozionale, e cioè della partecipazione delle for­ze sociali. A sua volta la partecipazione, nella tesi n. 1, è intesa come cogestione o addirittura come autogestione. Dico addirittura perché at­tualmente la cogestione è irrealizzabile. Credo che la partecipazione vera debba avere queste caratteristiche:

- totale autonomia rispetto ai partiti ed agli enti;

- nessuna delega a chicchessia;

- rapporto dialettico dei gruppi di partecipazio­ne con le istituzioni.

Una condizione per consentire la partecipazio­ne è il decentramento dei poteri.

Purtroppo, oggi, DC, PCI, PSI non vogliono il decentramento. Vogliono che i poteri locali ven­gano accentrati al massimo. Vogliono la Provin­cia metropolitana. Propongono cioè sopprimere i Consigli comunali di Torino, Collegno, Gruglia­sco, Settimo, S. Mauro, Moncalieri, Nichelino, ecc. e creare un Comune enorme di 2 milioni, 2 milioni e mezzo di abitanti.

Creato questo mostro, alcuni poteri verranno affidati alle Municipalità che altro non sono che un organo analogo alle Circoscrizioni attuali.

Pertanto, opporsi alla creazione per Torino cit­tà (2) delle 7 Unità locali della DC, delle 11 Uni­tà locali volute dall'Assessore regionale alla sa­nità Bajardi, delle 11 strutture tecnico-ammini­strative proposte dal Presidente dell'Unità locale Torino 1-23, Olivieri, significa opporsi alla con­centrazione dei poteri nella Provincia metropoli­tana.

Opporsi a questo disegno significa anche con­servare un livello istituzionale che dia alla par­tecipazione un referente reale.

 

Ultimo problema

 

Da qualche tempo sono pericolosamente au­mentati i casi di conflitto fra utenti dei servizi assistenziali e singoli operatori o gruppi di ope­ratori.

Questa situazione si è riversata sulle associa­zioni che operano nel campo dell'emarginazione, creando tensioni fra le associazioni stesse ed i sindacati.

Ritengo che la gravità di questa situazione non debba essere sottovalutata né dalle associazioni né dai sindacati di categoria e orizzontali.

D'altra parte è molto probabile che conflitti e tensioni siano destinati ad aumentare nella mi­sura in cui si svilupperanno i servizi alternativi al ricovero assistenziale.

Cito alcune situazioni che hanno turbato uten­ti, parenti di utenti e associazioni:

- le dimissioni ingiustificate di anziani cronici dagli ospedali con la conseguenza del paga­mento del ticket di 13.000-15.000, quando non di 50.000 lire al giorno. Si tratta di circa 100.000 persone all'anno in Italia;

- le mance che devono essere date al perso­nale degli ospedali e degli istituti per ottene­re servizi che sono dovuti;

- l'omissione di intervento di due operatori del­la Provincia di Torino nei confronti di un mi­nore handicappato grave ricoverato all'Ospe­dale Regina Margherita;

- l'omissione di soccorso del Sig. Tuninetti ri­coverato all'istituto di riposo di Corso Unione Sovietica, caduto su un mucchio di neve. Al­l'inserviente che chiedeva aiuto, l'addetto alla guardiola rifiutò di intervenire perché le sue mansioni non prevedevano questo atto. Nes­suno è intervenuto. Il Sig. Tuninetti è morto. L'addetto alla guardiola ha conservato il suo posto di lavoro;

la sottrazione di denaro e di oggetti di valore ai ricoverati negli istituti di assistenza. In molti istituti sono rapinati sistematicamente i defunti;

- la non segnalazione da parte degli operatori della situazione del minore Nieddu, handi­cappato grave, ricoverato nell'istituto per han­dicappati psichici gravissimi di Volpiano, che per sei mesi è rimasto privo di cure nono­stante avesse riportato la frattura scomposta del femore;

- la copertura, fatta dai delegati sindacali dell'istituto Benefica di Pianezza, di fronte a fatti di violenza di natura sessuale e al recente epi­sodio di frattura della mano d'un assistito a seguito di un calcio di un educatore.

Anche in questo campo gli esempi potrebbero continuare.

Se a livello personale sono necessari interventi attivi di solidarietà nei confronti dei più deboli, le associazioni aderenti al Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base ritengono che il Sindacato dovrebbe avere dei comporta­menti attivi di difesa dei più deboli.

A mio avviso, perché la solidarietà sia reale, occorre dare priorità assoluta ai diritti fondamen­tali della fascia più debole della popolazione.

Una azione congiunta del sindacato e delle associazioni assicurerebbe certamente ai più de­boli condizioni di vita meno disumane di quelle attuali.

 

 

(1) Relazione svolta al convegno di Torino del 17-18 feb­braio 1983 organizzato dalla Unione sindacale territoriale CISL di Torino sul tema «Il processo di riforma sanitaria tra restaurazione e innovazione: quale ruolo per il sin­dacato».

(2) Attualmente la città di Torino è suddivisa in 23 Cir­coscrizioni coincidenti con le Unità locali e con i Distretti scolastici.

 

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